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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

La mostra Madre di Sophie Calle al Castello di Rivoli

Patrizia Mania

Dalle tracce dei vivi alle tracce dei morti. Sorvegliare i movimenti di uno sconosciuto, spiarne i comportamenti, pedinandolo e investigandone le intenzioni, sono state alcune delle modalità prescelte da Sophie Calle per addentrarsi nelle "vite degli altri" oltrepassando il limite della dimensione privata nella resa pubblica. Benché difficilmente riconducibile ad una formula, la maggior parte dei suoi lavori si è condensata con fare da detective sulla ricerca, sulla individuazione e documentazione di tracce spesso involontarie che testimoniano vissuti quotidiani da lei poi restituiti nell'altrove dell'arte. L'indagine sulle testimonianze, sugli indizi che conformano l'esperienza umana si concentra nella mostra dal titolo Madre ospitata dal Museo del Castello di Rivoli per la cura di Beatrice Merz su un soggetto che da alcuni anni si è andato imponendo quasi come esclusivo: la propria madre, appunto. In qualche modo un'ossessione -ossessione della figura materna, ossessione della morte -. Ossessione su ossessione, l'artista aveva frequentato già in passato con Les Tombes l'immagine pietrificata della memoria affermando, tra l'altro, in proposito: "Le tombe sono una delle mie ossessioni personali".

Ad innescare questa specifica esplorazione sul tema, un evento che risale al 2006, al 15 marzo 2006: la morte della madre. I dettagli sono importanti ed eloquenti: le date, gli oggetti, le ambientazioni, niente viene trascurato, l'artista annota tutto, dai dati temporali a quelli fisici degli ultimi incontri, dell'ultimo brano musicale ascoltato, dell'ultimo libro sfogliato, degli oggetti scelti accanto a sé, delle ultime parole pronunciate: "Ne vous faites pas de souci", letteralmente "Non preoccupatevi".

Fino a quel momento esclusa dalle peregrinazioni della figlia Sophie nel vissuto quotidiano, la figura della madre, partendo proprio dall'evento della sua morte, dalla registrazione del tempo della morte e dall'elaborazione del lutto nel ricordo diviene per l'artista un cammino ossessivo, forse soprattutto, un tentativo di esorcizzazione della perdita. Già alla Biennale di Venezia del 2007 aveva presentato una prima riflessione sul tema con un video Pas pu saisir la mort a camera fissa sulla madre nel letto di morte che già dal titolo mostrava eloquentemente la sfida a immortalare ciò che risulta paradossalmente impossibile da immortalare: la morte, appunto. Il lavoro è poi proseguito, andando via via ad arricchirsi di ulteriori orizzonti e percorsi che approdano ora alla mostra Madre costruita come un delicato cenotafio commemorativo. Più che destinarsi alla conservazione duratura nel tempo l'intera impalcatura sembra infatti consegnarsi al registro della levità, ad un tempo breve, quello stesso cui ci introduce all'ingresso della mostra il battito di ali delle farfalle che compongono la scritta "souci".

Proprio "souci" è la parola chiave che accompagna il visitatore in questa narrazione, l'ultima parola pronunciata dalla madre prima di perdere coscienza e anche leit-motiv di questo viaggio. Declinata in versioni plurime, fa da divisore tra un ambiente e il successivo ricamata al tombolo nel pizzo delle tende bianche e trascritta nei numerosi pannelli dove medium differenti si piegano ad invocarla. "Souci" è pensiero, preoccupazione, ma anche cura ed è soprattutto in quest'accezione che sembrerebbe impiegata dall'artista. Estensivamente è la cura del ricordo, del sentimento, dell'immagine, della biografia.

Scelta per rappresentare la Francia in quella stessa 52° Biennale di Venezia del 2007, Sophie Calle aveva avuto già modo di attraversare il tema della cura sebbene da un'angolatura molto diversa da quella intrapresa al Rivoli proponendo in quell'occasione un'intensa installazione intitolata Take Care of Yourself in cui fotografie, testi, video e installazioni restituivano attraverso 107 voci femminili l'interpretazione di una frase (quella del titolo) impiegata da un uomo che con una mail prendeva così congedo dall'artista dopo avervi condiviso una storia d'amore. Il segmento autobiografico dello spunto si delineava nella traduzione plurale e al tempo corale in un paradigma sulla fine dell'amore nella vacuità delle parole. E il prendersi cura di sé traslitterava nella condivisione e nella complicità un luogo comune dell'abbandono nella rottura di un legame amoroso.

E la fine di un amore, quello per la madre, la difficoltà di elaborazione e accettazione della sua parte viva è evidentemente uno dei piani nel quale leggere questa complessa e insieme lieve mise en scène di Sophie Calle.

Quasi a voler scansare inevitabili sospetti di crudele e meschina speculazione, Sophie Calle unisce alla presentazione dell'intimità violata un' incalzante sequenza di giustificativi, che già offerti nel meraviglioso libro "Elle s'est appelée successivement Rachel, Monique, Szyndler, Calle, Pagliero, Gonthier, Sindler. Ma mère aimait qu'on parle d'elle" uscito nel 2012 per le edizioni Xavier Barral, vengono ribaditi nei testi della mostra che costruiscono un insieme di immagini, oggetti, video, inscindibili gli uni dagli altri. "Ma mère aimait qu'on parle d'elle", e ancora a proposito delle foto personali e dei diari della madre estrapolati per frammenti sia nel libro che nella mostra "Ma mère n'était pas dupe de ce qui pourrait arriver si elle me les abandonnait. Sinon je ne me serais pas permis". Sembrerebbe in tal modo anticipare eventuali critiche dell'aver abusato di quell'intimo donatole sottoponendolo al pubblico sguardo.

Credo che malgrado i molteplici indizi che vengono sciorinati sull'identità della madre, di sua madre, della madre di Sophie Calle, ciascuno di noi ne derivi, a prescindere, un'immagine a sé, forse quella che più ci somiglia, irrilevante ai fini della caratterizzazione del suo ritratto. La frammentazione del percorso compone allusivi e confidenziali riferimenti che ribadiscono la sfera intima e privata del soggetto, del quale però continua a sfuggire il segreto sostanziale. Rimane immacolato, racchiuso in un intimo che per quanto apparentemente sottoposto allo sguardo di tutti, mantiene intatta la propria "aura". L'unicità intrasmettibile, potremmo dire, il che solleva la stessa artista dal sospetto di aver in qualche misura trasgredito al diritto alla riservatezza. Il ritratto della madre diviene il ritratto di un'intimità della quale non si vuole e non si può carpire in profondità il segreto, se non a condizione di riflettervi il proprio. Una sorta di rituale, cui il pubblico è invitato a partecipare, che funziona come il passaggio del testimone e che si sfila dall'insidia del voyeurismo spettacolare per ritrarsi in un viatico di condivisione di emozioni e esperienze.

Accanto a questo "lieve" monumento alla madre, lei che aveva desiderato andare al Polo Nord, un sogno che Sophie Calle esaudisce andando a interrare, a seppellire nei suoi ghiacciai alcuni oggetti appartenuti alla madre, è stata allestita un'altra installazione che appare in stretto dialogo con la prima: Voir la mer. Si tratta di una video-installazione concepita nel 2011 fatta dalla registrazione dell'esperienza di alcune persone di Istanbul che grazie all'artista per la prima volta nella loro vita hanno visto il mare. "A Istanbul, una città circondata dal mare, ho incontrato persone che non l'avevano mai visto". A queste persone l'artista fa il dono di condurle davanti al mare documentandone le reazioni.

Il cerchio a questo punto si chiude o si apre a seconda della prospettiva scelta. Di fatto, le vite degli altri mescolate alla propria pulsano nello sguardo rapace e pure ossequioso di Sophie Calle che si mostra ancora una volta capace di comporne ritratti stringentemente universali.