www.unclosed.eu

arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Valentina Vacca

Curata dalla giovane Rebecca Lamarche Vadel, l’esposizione collettiva parigina ospita ventuno artisti. L’esplorazione di plurimi territori di ricerca, per lo più decentrati dal nucleo canonico dell’arte, è la chiave di lettura dell’esposizione. L’obiettivo è quello di non stabilire nessun confine fra le discipline, uscire fuori dagli schemi e rispondere alla domanda duchampiana sull’essenza dell’opera d’arte.

E’ possibile creare delle opere che non siano “d’arte”? E’la celebre affermazione di Marcel Duchamp, classificata ed intesa come l’assioma dell’arte contemporanea stessa, a dettare non senza ambizione, il proemio introduttivo di Le bord des mondes, originale esposizione collettiva allestita al primo piano del Palais de Tokyo di Parigi e visitabile fino al 17 maggio.

L’intento che si pone la mostra è probabilmente uno dei più complessi per il curatore chiamato a soddisfarlo: rivelare ricerche collocate al di là del tradizionale territorio dell’arte, cancellando indelebilmente il segno che solitamente divide la creazione artistica dall’invenzione creativa.

Ed ecco che la mostra ospita, ai fini della collocazione entro uno spazio contrassegnato dal nesso conviviale fra “opera” e “invenzione”, fotografie di vetrini di laboratorio come anche accessori di moda e robot dall’intelligenza artificiale. Il legame fra questi territori tradizionalmente disgiunti e solitamente contrassegnati da forme tra loro incongruenti, è tracciato dall’atto che li ha partoriti: la creazione. Grazie a questo processo generativo comune infatti, i confini fra le varie discipline trovano la conferma della loro perpetua inesistenza; la loro presenza difatti è illusoria, ed esiste solamente entro il perimetro di un pensiero schematico e quadrato, naturalmente incline ad una qualche classificazione, qualunque essa sia.

La realtà è che Le bord des mondes, vorrebbe demolire i muri eretti nell’universo pensativo tradizionale, a favore invece di un proficuo sfioramento fra più bordi appartenenti a mondi di per sé differenti. E’ dunque la concezione dell’arte quale maestra nel codificare un qualche limite ad essere abbattuta, processo questo che gioca a favore della costituzione di un universo artistico la cui estensione è costantemente messa in discussione, imprevedibilmente rielaborata, nutrita attraverso nuove forme ed impastata ripercorrendo input di vecchia data.

Ingegneri e architetti con le loro creazioni meccaniche, hacker, scienziati e ricercatori con foto ed esperimenti. Ma anche parrucchieri di celebri pop star e chef stellati per le loro specialità culinarie: questi gli “artisti” chiamati ad esporre i loro lavori al Palais de Tokyo. Tale poliforme gruppo ad un’occhiata superficiale potrebbe rilevare una pseudo ascendenza all’art brut o perlomeno una radice ben ancorata a tale corrente. D’altro canto però, come giustamente non si manca di sottolineare pure nel dossier del Palais de Tokyo, l’esposizione non accoglie né naïf né tantomeno outsider; ad essere coinvolti sono bensì degli spiriti estremamente liberi, i quali però sono pure in grado di vantare una piena coscienza riguardo la portata delle loro creazioni, sebbene il loro intento primitivo non sia stato quello di creare un’opera d’arte, come neppure quello di far parte di un circuito artistico.

Trovano pertanto la loro perfetta ubicazione entro i “bordi dei mondi”, personalità come quella dell’olandese Theo Jansen (1948), con i suoi lavori a metà fra l’ingegneria e l’arte. I suoi Strandbeests, anche dette “creature della spiaggia” –la prima realizzata nel 2003-, sono delle installazioni mobili create con materiali propri dell’industria: tubi isolanti in pvc, ma anche legno di bambù e nastro adesivo (Fig.1). Gli Strandbeests rimembrano gli scheletri di animali forse estinti o forse mai esistiti: essi vengono installati da Jansen tutte le estati sulla spiaggia di Schevingen; là si muovono, sospinti solamente dalla forza naturale del vento. Considerate dall’artista come delle vere e proprio forme di vita, queste “creature della spiaggia” offrono a chi le osserva la visione di una realtà alternativa, spettacolare e utopica al tempo stesso.

Una delle personalità più straordinarie e interessanti–o che perlomeno ci ha maggiormente colpito fra quelle presenti in mostra- è quella dell’americana Rose Lynn Fisher (1955), in particolare col suo progetto The topography of tears. Realizzato tra il 2011 e il 2015 ed interamente esposto al Palais de Tokyo, esso consta di cento fotografie rappresentanti delle lacrime viste al microscopio ottico (Fig.2-3). In un periodo di grandi cambiamenti per lei -come spiegato dalla stessa autrice-, il progetto ha preso il via partendo dalla seguente questione: le lacrime scaturite da emozioni differenti –tristezza, allegria, etc- hanno la stessa morfologia oppure no? Ed ecco che la Fisher così dà vita alla sua personale topografia delle lacrime, una sorta di mappatura straordinaria ed affascinante della sua celata emozionalità. Incredibilmente poetica è la descrizione che l’artista dà al suo progetto: «Tears are the medium of our most primal language in moments as unrelenting as death, as basic as hunger, and as complex as a rite of passage. They are the evidence of our inner life overflowing its boundaries, spilling over into consciousness. Wordless and spontaneous, they release us to the possibility of realignment, reunion, catharsis: shedding tears, shedding old skin. It’s as though each one of our tears carries a microcosm of the collective human experience, like one drop of an ocean»

Sviluppare della “matematica esistenziale” è invece il fine di Laurent Derobert (1974). Dottore di ricerca in economia e ricercatore presso l’università di Avignone, egli presenta al Palais de Tokyo il suo ambizioso quanto complesso progetto: capire con l’aiuto della matematica, i campi inesplorati della coscienza umana e delle relazioni. A questo proposito Derobert crea delle equazioni, arricchite sempre da un sottotitolo esplicativo rispetto al loro significato: nasce così l’equazione sulla «Force d’attraction de l’être rêvé» e sulla «Vitesse de libération », come anche l’«Asymptote des mondes».

Esposti in mostra anche i due robot creati da Hiroshi Ishiguro (1963), professore dell’università di Osaka nel campo dell’intelligenza artificiale. I due androidi presenti –di cui uno è identico al suo creatore- sono in grado non solo di riprodurre movimenti ed espressioni umane, ma pure di reagire agli stimoli esterni, siano essi tattili come anche olfattivi o visivi. Ishiguro si interroga quindi sull’esistenza della natura umana ed utilizza i robot come medium per l’analisi della socialità degli uomini e della loro psicologia.

Estremamente poetico è il video sul villaggio di Kuşköy, in Turchia. Qui gli abitanti per comunicare tra di loro, utilizzano il “linguaggio degli uccelli”, un codice comunicativo vecchio di quattrocento anni creato per ovviare al problema presente fra i lavoratori dei campi dei monti del Ponto. Qui infatti gli spostamenti risultavano ardui, e questo pure per compiere delle brevi distanze. Il “linguaggio degli uccelli” risolse questa problematica, giacché esso riesce a risuonare fino ad un chilometro di distanza, e pertanto non si ha bisogno di camminare per dialogare. Esso consiste nel fischiare le sillabe delle parole turche, dando origine ad un vero e proprio dialogo che rimembra il canto dei volatili.

Oltre alla già citata Rose Lynn Fisher, a distinguersi è il geniale ed intensissimo lavoro – denominato Purgatory (Fig.4)- dell’artista statunitense Jesse Krimes (1982). Arrestato nel 2009 per detenzione di stupefacenti e condannato a 70 mesi di reclusione, Krimes inventa un modo per realizzare i ritratti dei detenuti, in un mordente che permette loro di “evadere” simbolicamente. Mediante l’ausilio di materiale facilmente reperibile in prigione –quotidiani, carta igienica, sapone, dentifricio e carte da gioco- , Krimes imprime i volti dei suoi compagni detenuti sul sapone grazie all’impiego delle foto apparse sui giornali. Una volta fatto ciò, unisce questi ritratti a delle carte da gioco, le quali sono allegate dai detenuti alle lettere spedite ai loro cari. Da quest’operazione, egli ha creato ben trecento ritratti, i quali possono essere considerati come una prova dell’esistenza di questi individui assenti dal mondo reale e dalla quotidianità. Krimes regala ai suoi compagni la libertà tanto agognata e desiderata, bypassa le negazioni e i divieti reintegrando simbolicamente i detenuti nel mondo.

E’ possibile anche travalicare i limiti del tradizionale hair-style: di questo ci dà una dimostrazione Charlie Le Mindu (1986), divenuto celebre per essere stato il creatore delle eccentriche acconciature indossate dalla pop star Lady Gaga. Ispirandosi alla mitologia, ai bestiari fantastici come anche alle acconciature medievali, Le Mindu crea delle stravaganti ed originali acconciature molto complesse, nelle quali mira ad esplorare il rapporto tra natura e corporalità, non senza riflettere sull’idea della metamorfosi.

Ultima artista che merita di essere citata tra i ventuno in mostra, è Bridget Polk (1960), la quale realizza delle straordinarie sculture per mezzo dell’ausilio di pietre e rocce reperite in natura. Le sue Balancing rocks (Fig.5) sono delle installazioni effimere presenti negli spazi pubblici, create appoggiando tra di loro varie pietre e rocce senza mai impiegare alcun materiale di sostegno. Il risultato che ne deriva è quello di poetiche sculture che si reggono da sole grazie ad un gioco di equilibri complesso. Le balancing rocks della Polk sono fragili, sottoposte alle intemperie ambientali così come gli uomini sono spesso in balia degli eventi. L’allusione è alla precarietà della vita umana, forse anche alla morte stessa degli individui che può essere improvvisa e inaspettata tanto quanto una folata di vento per le balancing rocks.

Possiamo dire che la giovane curatrice Rebecca Lamarche Vadel –figlia peraltro dell’artista francese Bernard Lamarche Vadel morto suicida nel 2000-, sia riuscita a rispondere esaustivamente alla storica domanda duchampiana posta al principio ed assunta come punto di partenza per l’infrastruttura di Le bord des mondes. La mostra del resto, è frutto di numerosi viaggi fatti dalla curatrice appositamente per scoprire l’arte al di fuori dei circuiti artistici; è così che la Vadel è arrivata ad esplorare villaggi sconosciuti turchi, centri d’intelligenza artificiale, istituti di ricerca. Ed è grazie a questo del resto, che alla domanda duchampiana è concesso rispondere positivamente: è possibile certamente fare opere che non siano “d’arte”. E Le bord des mondes, con tutti i suoi straordinari creatori, ne è la prova tangibile, specie di come l’arte non debba mai reclamare confini o prestabilirsi dei limiti.

[1] Cfr. http://rose-lynnfisher.com/tears.html