Museo digitale e fruizione culturale collettiva. Il dibattito con gli addetti ai lavori.

Valentina Vacca

Ipermoderno, iperreale, iper connesso, iper social. E’ un dominio imponente e inarrestabile quello messo in atto dal prefisso iper durante questi tempi contemporanei, ed è proprio quest’ultimo l'assioma dal quale partire per trattare la tematica del Museo 3.0 e, al contempo, degli incalzanti progetti del Mibact improntati sulla creazione del Museo digitale. Poteva forse la cultura d'oggigiorno -e pertanto tutto il sistema museale- non essere forse integrato entro l'orbita commemorativa dell'iper?

Del resto è diversi decenni fa che alcuni tra i più importanti filosofi contemporanei -da Paul Virilio a Jean Baudrillard- hanno annunciato la nascita di una società dominata dalla tecnologia, collettività questa oltremodo composta da individui sedotti dall'estasi comunicativa sviluppatasi entro uno spazio iperreale(1). Quest'ultimo luogo, deputato ad accogliere scambi comunicativi nati indipendentemente dal luogo geografico ove le persone di volta in volta si trovano come anche prescindente dalla loro stessa estrazione sociale, coincide appieno con il luogo virtuale. Vi è pertanto una sorta di contraddizione, dal momento che l'iperrealtà dovrebbe condurre nella fattispecie entro un universo oltremodo reale, ma al contrario e in maniera pressoché paradossale il virtuale rammenta anche un modus effimero che seppur rappresentativo della stessa realtà, non fa che esserne pura simulazione. È su questi principi del resto, che si interrogò Jean Baudrillard nell'intervista con Claude Thibaud ed in particolare sulla percezione che l’uomo ha di se stesso in relazione al mondo virtuale: «E’ in discussione il sistema di rappresentazione. L’immagine che l’uomo ha di se stesso è virtualizzata. Non si è più davanti allo specchio, si è dentro lo schermo, che è tutta un’altra cosa»(2).

A questo pragmatico codice ove la simulazione del reale coincide con la stessa realtà, ha aderito pure quello che pareva essere il territorio più inviolabile di tutti: quello della cultura, e in generale del mondo dell’arte. Ne è una dimostrazione la creazione di vari musei virtuali e, recentemente pure del kit open source Movio di paternità del Mibact, il cui impiego ha consentito ai sacri luoghi della cultura –musei, biblioteche, gallerie-, di dar vita ad una serie di mostre virtuali, superando le barriere economico-politiche che non di rado hanno predicato l’inesorabile formula del questa mostra non s’ha da fare.

Strettamente collegata all’epoca del virtuale vi è pure un’altra sua declinazione, la cui esistenza può essere considerata in realtà una condicio sine qua non per la presenza del virtuale stesso: trattasi del digitale, fenomeno che al giorno d’oggi ben soddisfa tutte quelle dinamiche rispondenti ai richiami di iper connessione e iper social.

Il fenomeno della digitalizzazione culturale è ormai in realtà da diversi anni al centro di numerosi dibattiti fra gli addetti ai lavori. Se in passato si è operato sotto un'ottica di fruibilità di tipo documentario-archivistico –e mi riferisco in particolare alla digitalizzazione di una quantità copiosa di materiale conservato presso biblioteche e archivi(3) -, quel che sembrerebbe premere maggiormente al giorno d'oggi è invece la digitalizzazione del museo. Ma cosa significa digitalizzare il museo? E’ questo il punto sul quale si stanno interrogando Mibact e Ales spa nell’ambito della costituzione del progetto Mud-Museo digitale; a tale questione essi mirano a rispondere chiamando in causa il pubblico stesso, adottando pertanto in toto una politica aggettivata come iper-social.

Nel corso della Social Media Week tenutasi a Roma ai primi di giugno, uno degli incontri è stato incentrato proprio sulla presentazione di quello che dovrebbe essere questo innovativo progetto del Ministero. Il progetto Mud-Museo digitale(4) prevede la creazione di una tipologia museale 3.0, la quale dovrebbe migliorare l’accessibilità culturale avvalendosi degli strumenti offerti dal web –social in primis-; quel che ci si prefigge è l’implementazione delle potenzialità del sistema museale, in particolare coinvolgendo maggiormente il pubblico. Mibact e Ales hanno pure invitato chiunque –profani come addetti ai lavori- ad inviare tramite email o Twitter la propria idea di museo digitale, dal momento che l’obiettivo sarebbe quello di costituire insieme al pubblico la nuova idea di museo 3.0.

Il progetto pone numerosi interrogativi, nati non di certo con Mud ma sui quali in realtà studiosi ed esperti si inerpicano da diverso tempo, ed è innegabile che sotto alcuni aspetti vi siano talune perplessità. Il rischio che si corre davanti a progetti basati su un’infrastruttura iper connettiva, è difatti quello di avere a che fare con uno scheletro costitutivo basato più su principi divulgativi che qualitativi. Per enunciare tale concetto non si può che ricorrere agli studi di Francesco Antinucci, il quale nel suo saggio Proposta per una nuova organizzazione museale(5) ha cercato di porre le basi per un sistema museale sì digitale e all’avanguardia, ma allo stesso tempo non deturpato né tantomeno privato della sua aurea culturale.

Antinucci nel suo saggio specifica come il museo non debba avere quale unico obiettivo quello di staccare un alto numero di biglietti, bensì si renda veicolo di trasmissione culturale attraverso la visita (6). Questo significa che la preoccupazione dei curatori e in generale degli addetti ai lavori, dovrebbe essere quella di educare i visitatori alla cultura, principio questo sul quale «i musei odierni falliscono radicalmente»(7). Per comprendere quali misure adottare, spiega Antinucci, è necessario partire dall’analisi di ciò che non funziona(8); la lacuna consisterebbe secondo lo studioso, nel fatto che la stragrande maggioranza del pubblico che varca la soglia dei musei non possieda di fatto i mezzi per poter comprendere le opere(9). L’ente fornitore di tali strumenti dovrebbe essere il museo stesso, processo nel quale inesorabilmente difetta. La via d’uscita secondo Antinucci sarebbe quella di organizzare gli allestimenti sulla base di principi maggiormente comunicativi, studiati nello specifico da esperti del settore comunicazione. Talvolta potrebbe essere addirittura necessario creare una dualità di percorsi espositivi, dei quali uno destinato al grande pubblico e uno a quello più esperto. Di contro i curatori, sarebbero invece chiamati ad esercitare la loro professionalità nell’ambito della tutela e dello studio del patrimonio, offrendo la loro consulenza e le loro competenze al reparto comunicazione (10). In sostanza, gli esperti di comunicazione studierebbero il medium ottimale grazie al quale si dovrebbe azionare il processo di trasmissione culturale. Dal canto loro, i curatori e gli storici dell’arte si preoccuperebbero di far comprendere agli esperti di comunicazione -in termini storico-artistici-, quali punti e conoscenze dovrebbero e potrebbero essere trasmesse al grande pubblico.

Per rispondere al quesito del Mibact e di Ales, dal momento che la nostra è l’era del digitale, è proprio in questo senso che un museo dovrebbe essere tale: un museo digitale 3.0 dovrebbe attivare, mediante il supporto tecnologico, la trasmissione culturale al visitatore, sia a quello esperto come anche al profano. Per far sì che pervenga questo status museale 3.0, è dunque necessario che il museo diventi iper-interattivo e non solo iper connesso. Quanto al principio dell’iper social, tale peculiarità è necessaria ai fini del marketing, e in particolar modo per quel che concerne il livello di incremento di visitatori. Pertanto non è certo compito dello storico dell’arte o dell’archeologo esercitare tale funzione; bensì di questo si dovrebbe occupare l’esperto della comunicazione.

Tuttavia l’impressione che si ha quando si assiste ad incontri come quello organizzato in seno alla Social Media Week, è che questo problema voglia essere ovviato riducendo ai minimi termini la cultura stessa e tutti i suoi significati derivati. In questo senso un esempio calzante è quello del progetto #InvasioniDigitali, i cui fautori sono stati anch’essi invitati alla presentazione del Mud-Museo Digitale.

Come si legge nel loro stesso sito, il progetto #InvasioniDigitali «è rivolto a diffondere la cultura digitale e l’utilizzo degli open data, formare e sensibilizzare le istituzioni all’utilizzo del web e dei social media per la realizzazione di progetti innovativi rivolti alla co-creazione di valore culturale oltre che alla promozione e diffusione della cultura»(11). Per #InvasioniDigitali il pubblico non è più tale, ma è «partecipativo all’offerta culturale». Nel loro manifesto essi proclamano di credere: «in un nuovo rapporto fra il museo e il visitatore basato sulla partecipazione di quest’ultimo alla produzione, creazione e valorizzazione della cultura attraverso la condivisione di dati e immagini. Crediamo nella semplificazione delle norme per l'accesso e riuso dei dati dei Beni Culturali per incentivarne la digitalizzazione. Crediamo in nuove forme di conversazione e divulgazione del patrimonio artistico non più autoritarie, conservatrici, ma aperte, libere, accoglienti ed innovative»(12). Per tradurre tali parole, è sufficiente compiere un’esplorazione nel sito dedicato alle #InvasioniDigitali: al suo interno si trovano una serie di selfie scattati entro musei e luoghi della cultura che hanno come soggetti i visitatori. E’ come se “invadere” –come loro stessi definisco la visita da parte del pubblico- i musei, i monumenti e in generale i luoghi della cultura e poi caricare una foto su internet, equivalga in automatico a trasmettere la conoscenza. Come se digitalizzare la cultura coincida con il mero, semplicistico quanto banale processo di sharing delle immagini delle opere d’arte, delle performance, dei beni immobili. Che sia proprio come disse Baudrillard (1995), ossia che«la maggioranza silente ricerca l’immagine e non il significato»(13)?

Sta di fatto che il problema della digitalizzazione della cultura sembra essere sottovalutato, e i termini con i quali risolverlo non ancora pienamente compresi nonostante gli imminenti progetti ministeriali. L’impressione è quella che si tenda a confondere lo svecchiamento del sistema museale con lo stupro vero e proprio della cultura. Questo non significa che si debba praticare un’aderenza ad una vecchia liturgia museale, anzi tutt’altro: significa interromperla per crearne una nuova, consona ai tempi contemporanei, impiegando in special modo le risorse che la tecnologia mette a disposizione senza però mai perdere l’obiettivo di trasmettere la cultura, i cui capisaldi sono di competenza degli addetti ai lavori.

Museo digitale 3.0 insomma, non è l’equivalente di immagine condivisa delle opere d’arte alla maniera di #InvasioniDigitali, non significa creare un post con “condividi la tua posizione”. Significa far sì che avvenga una trasmissione culturale anche per diversi livelli se necessario, partendo talvolta dal più elementare fino ad arrivare a quello più avanzato. Partire dalla presa di coscienza che vi è un’epistemologia della cultura è la base per iniziare a dialogare con essa. Solo nel momento in cui si comprenderà questo si potrà iniziare a parlare di trasmissione culturale grazie alla creazione di un museo che sia digitale.

1) Cfr. J. BAUDRILLARD, Simulacres et simulations, Paris: Galilee, 1981

2) C. THIBAUD, Intervista con Jean Baudrillard, in “Cybersphere”, n. 9, tr. it. di A. Venieri e I. Spelletti “Cybersphere”, n° 9, Arci S:M:S: di Rifredi-Special!, 1998

3) Si pensi a Gallica, straordinario esempio di biblioteca digitale creato dalla Bibliothèque National de France, grazie al quale un’infinita quantità di materiale conservato presso la BNF –compresi manoscritti, mappe e spartiti musicali oltre che documenti, periodici e libri- può essere consultato in rete.

4) Per maggiori delucidazioni sul progetto Mud, si veda il sito del Mibact alla pagina

http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sitoMiBAC/Contenuti/MibacUnif/Comunicati/visualizza_asset.html_1220072686.html

5) F. ANTINUCCI, “Proposta per una nuova organizzazione museale”, in G. BORDI et al (a cura di), L’officina dello sguardo: scritti in onore di Maria Andaloro, Roma: Gangemi, 2014, pp. 359-363

6)Ivi, p. 359

7) Ibidem

8) Ivi, p. 360

9) Ibidem

10) Ivi, pp. 362-363

11) http://www.invasionidigitali.it/it/content/lidea

12) http://www.invasionidigitali.it/it/content/il-manifesto

13) J. BAUDRILLARD, Le crime parfait, Paris: Galilee, 1995