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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Tra presente e passato, note in margine alla giornata di studi "Per un museo del non realizzato. Pratiche digitali per la raccolta, valorizzazione e conservazione del progetto d'arte contemporanea" tenutasi a Milano nel Museo del Novecento.

 

Maria Ida Catalano

 

 

21 novembre 2013. A Milano, nella sala conferenze del Museo del Novecento, si è svolta una densa giornata di studi dal titolo Per un museo del non realizzato. Pratiche digitali per la raccolta, valorizzazione e conservazione del progetto d'arte contemporanea.

L’incontro, introdotto da Marina Pugliese, è stato organizzato dal Museo del Novecento situato nel Palazzo dell'Arengario e dall’associazione culturale Others che ha prodotto MoRE a museum of refused and unrealised art project. Fuori piove e nello spacco tra la mattinata e il pomeriggio visito il nuovo allestimento del Museo del Duomo dove i diversi modelli in gesso di opere tra Otto e Novecento potrebbero pure essere riletti secondo le coordinate del non realizzato, sempre con l’obbiettivo di lavorare alla costruzione di eventuali rimandi di quanto dalla vitalità del presente può coniugarsi alla lettura del passato. E’ questa una delle strade possibili che il seminario, già in più contesti commentato, sollecita ad attraversare.

Elisabetta Modena e Marco Scotti raccontano la loro impresa. MoRe, museo digitale che raccoglie progetti d’arte del XX e XXI secolo non realizzati – scarti, o meglio, tentativi, correzioni, ricerche – è infatti il centro dell’analisi che mobilita il confronto, dove l’osservatorio scelto si prospetta come angolo visuale sulle pratiche del contemporaneo e sulle metodologie progettuali degli artisti oggi.

A partire da questa esperienza, nel corso della giornata, si è ragionato sulle possibilità espositive del contemporaneo, valutate attraverso il problema della valorizzazione e conservazione del progetto artistico non realizzato, considerando pure forme e modelli propedeutici alla digitalizzazione degli archivi, di cui Gabriella De Marco ha commentato Agave, ambiente multimediale e multidisciplinare del Novecento in Sicilia, presente nel portale dell’Università di Palermo.

MoRe è provvisto di un comitato scientifico, un team interno di curatori, ma sono inclusi anche esperti esterni. Si scava negli archivi degli artisti, tra quanto non è stato eseguito, recuperando frammenti di storie incompiute. Ogni ritrovamento, ma anche ogni donazione, viene corredato ad una scheda tecnico critica. L’archivio degli artisti raccoglie articoli, saggi, interviste, fotografie, video, mentre una sezione ‘mostre’ affronta i problemi relativi alla presentazione e alla tutela del non realizzato, costruendo una riflessione sui limiti e le possibilità dell’atto espositivo, sulle problematiche della memoria e della conservazione. Nella consapevolezza della difficoltà di definire il non realizzato si discute di nozioni dai confini sfuggenti, che contemplano l’ideazione, ma anche lo ‘scarto’ e l’incompiuto, con aperture, nel dibattito a fine giornata, verso il censurato, il rifiutato, il disperso, il distrutto. D’altra parte, va pure tenuto presente che nella nozione di non realizzato è implicita una differenza sostanziale tra progetto ed opera, spazio in cui il Novecento ha alimentato un progressivo distacco tra i termini. Le scelte di MoRe stimolano allora una molteplicità di interrogativi, mentre la tensione verso l’utopia sembra una delle caratteristiche intrinseche all’operazione. Forse, ci si chiede, si tratta di un omaggio alla negazione e al rifiuto?

Nel suo intervento Filippa Ramos, che sta lavorando ad una tassonomia di artisti senza opere, si interroga circa i criteri, i metodi e le categorie della sua prospettiva, che prevede di disegnare un quadro ad ampio spettro. In realtà, è difficile pensare ad un artista senza opere, eppure, il “non” ha caratterizzato la carriera di molti. Anche l’invisibile si profila come una categoria difficile e problematica, quanto la nozione di vuoto che rimanda a Voids a retrospective, mostra paradossale tenuta al Centre Pompidou nel 2009 a Parigi. Ma nella sedimentazione dei pensieri il valore del vuoto, l’immaterialità della luce e l’invisibile (Pugliese) assumono una forza e configurano un orizzonte che può consentire il recupero di storie estreme di auto cancellazione, ostinatamente inseguite nella ricerca della Ramos. Alcune opere restano sulla soglia, non sembrano rientrare nella fluttuante tassonomia. Il sonno, occasione di non lavoro, è stato tenuto in conto da Filippa Ramos, nel momento in cui diventa possibilità produttiva, come quando l’artista ha dormito in luoghi pubblici per cercare di capirne l’influsso sulla propria condizione di assopimento. Gli oggetti sono un problema per quest’indagine, poiché lo statuto materiale solleva altri tipi di domande. Al contrario, la materialità del linguaggio scritto potrebbe essere considerata. Gli artisti finora selezionati nel corso della ricerca non hanno cose in comune, nè la condivisione di un contesto geografico. Da luoghi diversi, gesti, situazioni, azioni singole e irripetibili, promesse, dichiarazioni, manifesti, dinieghi, distruzioni configurano un universo dove emerge il rifiuto del fare ed entrano in gioco tattiche e strategie della scomparsa. Sono vicende di una storia dell’arte non raccontata in cui prevalgono gli atti mancati, secondo una prospettiva che applicata al passato potrebbe certo dare i suoi frutti.

La questione del linguaggio scritto è stata ripresa da Roberto Pinto, che ha scelto di rimandare al Museo dell’innocenza ideato da Pamuk ad Istanbul, dove sono esposti oggetti reali di una storia immaginaria, nella volontà di trasportare lo spettatore all’interno del mondo del protagonista, trasformando il lettore in un visitatore.

Considerare progettualità interrotte, i semi che restano tali, spinge a cogliere, sottolinea Luca Trevisani, qualcosa di cui il sistema dell’arte non si è mai occupato; mentre Ugo La Pietra sollecita verso la possibilità di una ripresa del lavoro nel sociale che riconsidera gli anni Settanta, nella volontà di rompere le barriere tra privato e pubblico, operando con e tra la gente, consapevoli di un’evoluzione dei comportamenti, oggi trasformati dalla compresenza nello stesso luogo di etnie diverse. Stefania Zuliani ha quindi introdotto ulteriori snodi problematici. Partendo da Derrida, ha parlato della natura doppia dell’archivio, insieme cominciamento e comando, luogo dove l’ordine è dato, che esprime il senso dell’origine e dell’autorità. Non c’è potere politico senza controllo della memoria e l’archivio sollecita la Zuliani ad una riflessione sulla possibile costruzione di un accesso partecipato, considerando pure le derive di una pura accumulazione. Nella rinuncia a classificare tutto in senso onnivoro, rischiando la paralisi, per quella febbre archivistica di cui pure ha parlato Mario Gorni, il lavoro critico sollecita a procedere per associazioni ed analogie, costruendo dentro gli spazi della prossimità, mantenendo costantemente attivo il processo al documento, così come Foucault ha indicato. Se archiviare l’incompiuto è la sfida della giornata – è ancora la Zuliani - gli archivi e i musei del tempo presente sono spazio instabile, insicuro della loro stessa creazione continua, ma sono anche luogo di nascita di una nuova promessa, così come la studiosa conclude, sollecitando ulteriori inaugurazioni di senso.

Nel corso del seminario, l’archivio è stato quindi confermato come luogo di una strategia aperta, indagata pure da un punto di vista conservativo da Iolanda Ratti che si sofferma sulle installazioni, opere costituzionalmente nomadi, in continua mutazione, volte alla processualità. Una dimensione che provoca la messa in crisi dei parametri consueti. E’ necessaria una tutela vigile verso opere mai veramente realizzate, nel senso di definite e chiuse, offerte più di altre ad una possibile dissociazione, ai rischi dello scollamento delle informazioni dall’oggetto, esposte all’irrimediabilità della perdita. L’esigenza di intervenire con la catalogazione, introducendo l’istanza narrativa della descrizione con l’ausilio di fotografie e filmati, è l’imperativo della salvaguardia, sia rispetto alle componenti costitutive delle strutture di cui le istallazioni sono costituite che rispetto allo spazio ‘scenico’ di presentazione sul quale insistono. La questione solleva problemi presenti anche per la tutela del passato. Allora, il paradosso che un restauro non documentato è un restauro non avvenuto può assumere qui tutto il suo valore provocatorio. Ecco di nuovo un nesso che il presente mette a fuoco. La perdita dei dati, la dissociazione dell’opera dal suo contesto e dalla sua stessa vicenda nel tempo, breve o smisurato importa poco, sono i rischi che caratterizzano pure una prassi conservativa semplicistica di quanto ci arriva da lontano. Cosa si perde nella movimentazione delle opere d’arte antica dalle chiese ai musei ai laboratori, dove pure nel corso del restauro tanti dati minuti non vengono adeguatamente registrati? Sono domande necessarie ogni volta che un  oggetto è sottoposto ad interventi conservativi, cambiamenti, passaggi, nuove forme allestitive. L’attivazione di uno sguardo micrologico al manufatto come al contesto, sollecitati dalle domande imposte dal nomadismo costituivo delle tante forme in cui la contemporaneità declina i propri linguaggi, richiede una disposizione consapevole. La tutela della complessità è l’orizzonte da assumere, con l’impegno di lasciare aperte tutte le possibilità per continuare ad interpretare l’opera in quanto fonte di cultura, origine permanente d’interrogazione e trasformazione dei linguaggi che da essa possono essere appresi (Torsello).