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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Il video museiMuseimusei  di Maria Tamajo Contarini e Simone Petrella e oltre

Lorenzo Marmo

Riflettere sul rapporto tra cinema e museo significa per forza di cose strutturare un discorso interdisciplinare. museiMuseimusei, lo stimolante (e divertente) video di Maria Tamajo Contarini e Simone Petrella, è composto da una raccolta di scene d’ambientazione museale, provenienti dai film più disparati: il cinema si confronta qui con le altre arti e con i loro diversi meccanismi di fruizione, e la struttura libera ed associativa del video diventa l’occasione per esercitare un punto di vista che superi le barriere ontologiche che separano le singole arti – una prospettiva affine alle più aggiornate proposte della “cultura visuale”[1].

In questo senso, la forma del video-saggio si presta perfettamente ad una riflessione che, lungi dal voler conservare l’ultima parola sull’argomento trattato, rende conto di quell’elemento di fascinazione sostanzialmente ineffabile che anima il nostro rapporto con le immagini. Operazione cinefila ed insieme teorica, il video esprime la necessità di superare l’atteggiamento dicotomico con cui si tende a contrapporre distanza critica e prossimità feticista, e propugna piuttosto il costante intreccio di queste due dimensioni.

La questione della distanza e della prossimità è d’altronde uno dei nodi cruciali con cui si confrontano le arti nella modernità[2]. Se la modernità è l’epoca storica in cui, come scrive Walter Benjamin, “giorno per giorno si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza di impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata, nell’immagine o meglio nella copia”[3], il museo ed il cinema propongono soluzioni diverse (anzi a prima vista quasi opposte) rispetto a questa problematica del rapporto tra individui ed opera d’arte.

Il museo parrebbe associabile al versante della distanza: pur essendo un’istituzione che, nella sua incarnazione odierna, inizia a svilupparsi dopo la Rivoluzione Francese (in risposta, dunque, ad una spinta per la democratizzazione della visione), esso tende a configurarsi come uno spazio in cui le opere rimangono circondate da un’aura sacrale. Il cinema si situerebbe invece al polo opposto: potentissimo meccanismo di affabulazione, l’apparato cinematografico ci cattura col fluire delle sue immagini e non ci lascia andare. Esso sembra perciò configurarsi (e così è stato interpretato dalla influente teoria semiotico-psicoanalitica degli anni Sessanta-Settanta[4]) come un dispositivo che sottopone lo spettatore ad una forma di soggiogamento acritico che è esattamente il contrario della concentrazione deliberata e marcatamente intellettuale del visitatore museale.

Ovviamente la lettura del cinema come luogo in cui, dimentico del proprio corpo, lo spettatore è ‘tutto occhi’, ed è dunque implicato in una dinamica di passivizzazione che ricorda la caverna platonica, è oggi ampiamente superata. La New Film History[5] concepisce la fruizione cinematografica nei termini di una dinamica complessa, che include una dimensione cognitiva, una emotiva, ed una affettivo-sensoriale. E queste tre dimensioni sono evidentemente presenti anche all’interno dell’esperienza museale, che lungi da essere soltanto spazio per un’esperienza di raccoglimento e sublimazione intellettuale, potenzialmente è anche il contesto per un coinvolgimento percettivo appassionato.

Giuliana Bruno in particolare ha messo in evidenza il contatto tra cinema, architettura e spazio museale; per la studiosa, il cinema è un dispositivo “che registra frammenti socio-sessuali e viaggi transculturali”[6] e che permette così di tracciare i propri sentieri affettivi in modo non poi così dissimile dalla passeggiata museale: “il site-seeing cinematografico, al pari di quello museale, disegna mappe particolarmente mobili: le sue topografie sono veri e propri tracciati emozionali”[7]. L’idea di fondo è che l’immaginazione e la memoria abbiano a che vedere con il movimento: se la lettura di un insieme architettonico avviene attraversandolo, il museo potenzia ulteriormente questa caratteristica dell’architettura, riempiendo il percorso architettonico di elementi significativi a proprio titolo (le singole opere). Lo spettacolo cinematografico ha anch’esso un funzionamento affine, perché anche al cinema si collezionano immagini emozionali, mimando mentalmente l’atto del camminare. Abitando lo spazio del film[8], lo spettatore-flȃneur mette in atto una modalità di appropriazione, con cui costruisce la propria geografia interiore. In sintesi, sia il cinema che il museo sono, secondo Bruno, delle “faccende pubblico-private”[9], in cui la dimensione esterna e pubblica entra in contatto con un percorso intimo.

Esiste dunque un’analogia strutturale di fondo tra il dispositivo museale ed il dispositivo cinematografico, entrambi basati su una negoziazione tra distanza e prossimità, nonché su un’estetica della frammentazione e della discontinuità: una logica pittoresca della successione di impressioni eterogenee che viene coerentemente replicata anche dal video stesso di cui stiamo parlando.

Lo spazio eminentemente attraversabile del museo si presta dunque particolarmente bene ad essere percorso dalla macchina da presa, che può insistere sulla successione di stanze, pareti, opere: l’esempio più estremo di ciò è naturalmente l’ininterrotto piano sequenza dell’Arca Russa (Sokurov 2002): il film è stato girato tutto di seguito, il 23 dicembre 2001 all’Ermitage, attraversando sala dopo sala lo storico museo di San Pietroburgo. La potenzialità meta- che caratterizza tutte le scene museali viene espressa in questo caso al massimo grado: qui il film è il museo.

Al di là di questa analogia tra i due dispositivi cinematografico e museale,  il video-saggio di Tamajo Contarini e Petrella propone però anche un’altra possibilità di riflessione: esso infatti si concentra sul cinema narrativo. Troppo spesso, pensando al rapporto cinema-museo si fa riferimento unicamente a quelle forme del cinema d’avanguardia e sperimentale il cui statuto autoriflessivo è sostanzialmente scontato (anche se non per questo meno interessante). Riflettere invece sul ruolo riservato al museo all’interno del cinema narrativo costituisce un’operazione diversa, e forse perfino più complessa, in quanto significa ricercare qualcosa che tende a rimanere nascosto nelle pieghe della rappresentazione. Si tratta di individuare un discorso implicito, che rimane almeno in parte nascosto all’interno di uno spazio che è sostanzialmente asservito ad uno scopo diverso da quello della riflessione meta-artistica, e cioè quello di raccontare una storia. Secondo Mary Ann Doane il cinema narrativo articola uno spazio “intrinsecamente contraddittorio”: esso prevede infatti “uno spazio che sia pieno di significati se non di simbolismo, dove ogni posizione e ogni oggetto sono portatori di un significato” ma tale spazio è sempre “attento a non dichiararsi come tale”[10]: lo spettatore è invitato a spostarsi virtualmente attraverso questo spazio naturalizzato che non segnala il proprio significato, e che si presenta invece come un’assenza. Partendo da questa ambivalenza di fondo, esistono evidentemente numerose gradazioni con cui lo spazio diegetico può relazionarsi alla narrazione: esso può asservirsi il più possibile al racconto, o tendere ad emergere come elemento eccessivo, portatore di significati autonomi che travalicano il contenuto manifesto del film.

All’interno di questa dinamica, il museo si rivela uno scenario che difficilmente può fare soltanto da sfondo neutro: esso tende ad aprire una crepa nella narrazione. Ciò avviene appunto perché al suo interno i giochi di sguardo che fondano l’esperienza cinematografica e sono alla base della struttura stessa del montaggio filmico e della costruzione dell’universo diegetico, vi risultano fortemente potenziati. Quando si relaziona al museo il cinema narrativo mobilita un’ampia messe di toni ed atmosfere cui vale la pena di dare un’occhiata più da vicino: grazie ad una prospettiva testuale diventa infatti possibile cogliere elementi del discorso che altrimenti rimarrebbero troppo distanti e generali.

Innanzitutto abbiamo il registro che potremmo definire lirico-metafisico: il museo si configura qui come occasione per uno sguardo introspettivo, carico di melanconia (La condanna, Bellocchio, 1991), o di un rapimento estatico fortemente perturbante (La sindrome di Stendhal, Argento, 1996). Spazio dalla temporalità sospesa e presaga, esso diventa qui il contesto dove contattare una sorta di mistero di fondo difficile da definire, qualcosa di affine allo “spaesamento trascendentale” lukacsiano. Si tratta di un discorso filosofico che può trovare diverse declinazioni storiche, ma che mette sempre il soggetto in contatto con una dimensione universale di riflessione sulla collocazione e sul senso dell’esperienza umana nel mondo.

Nell’ambito di questa riflessione escatologica, lo spazio museale è spesso occasione per l’incontro potenzialmente angoscioso con simulacri della forma umana, espressioni di quell’impeto a ritrarre la figura umana per salvaguardarla dalla morte che sta alla base della pittura e dell’arte tutta[11]. Nel video se ne incontrano molti esempi, dalla Mummia (Freund, 1932) al Ventre dell’architetto (Greenaway, 1987 - che lo declina in direzione straniante), ma la sua massima espressione è probabilmente Viaggio in Italia di Rossellini (1954), dove lo sguardo conturbato di Ingrid Bergman si scontra con le antiche statue greche del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Per arrivare infine alla esilarante scena di Lo spazio bianco di Francesca Comencini (2009), in cui uno dei personaggi non si rispecchia più in un simulacro della figura umana, ma nella gigantesca parete nera piena di crepe del Cretto di Alberto Burri, il cui spazio disarticolato è usato qui con grande icasticità ed ironia per esprimere la condizione di una soggettività post-.

Non va d’altronde dimenticato, a questo proposito, il geniale qui pro quo de Le vacanze intelligenti (al divertentissimo episodio di Sordi incluso nel film collettivo Dove vai in vacanza?, 1978, viene giustamente dedicato uno spazio ampio nell’economia complessiva del video): dopo che colapasta, occhiali da sole e branchi di pecore sono assurti al rango di oggetti d’arte, anche la Sora Lella viene, coerentemente, scambiata per un’opera vivente. In questo film come in altri, al posto del tentativo di restituire la fascinazione profonda che lo spazio museale può proporre, prevale un’altrettanto salutare tendenza dissacrante. Dal dinosauro ridotto in frantumi di Susanna (Hawks, 1938), a Bande à part (Godard, 1964) e The Dreamers (Bertolucci, 2003) che sostituiscono alla passeggiata museale una corsa liberatoria che travolge e ritravolge, in un gioco di mise en abyme, il sussiegoso spazio del Louvre; fino al vero e proprio vandalismo goliardico di Joker nel Batman di Tim Burton spesso il cinema gioca ad appropriarsi dello spazio museale sovvertendone le gerarchie, in modo da dargli nuova linfa vitale.

Un’altra modalità tramite cui defamiliarizzare il rapporto con lo spazio museale è naturalmente quella impiegato dai cosiddetti caper film (i film che si concentrano sui furti e colpi in grande stile), che giocano con particolare pregnanza sui pieni e vuoti dello spazio museale. Da Topkapi (Dassin, 1964) a Come rubare un milione di dollari e vivere felici (Wyler, 1966) lo spazio vuoto del museo dopo la chiusura si rivela in realtà attraversato dallo sguardo impersonale ed implacabile delle tecniche di sorveglianza, che vanno aggirate, ingannate e sconfitte. Il laser invisibile dell’allarme deve essere bypassato grazie a performance fisiche eccezionali – si tratti della sinuosità prossima alla danza di Catherine Zeta-Jones in Entrapment (Amiel, 1999) del sonnambulismo inconsapevole di Wallace in Wallace & Gromit - I pantaloni sbagliati (Park, 1993). L’impresa criminosa diventa qui un’avventura appassionante, che mette in scena sia la soddisfazione feticista (ci si impadronisce dell’agognato oggetto prezioso) che una rivincita della corporeità che, pur ancora sottoposta ad una rigida disciplina, viene però esaltata nelle sue capacità attive, contro la tendenza alla passività dei meccanismi di fruizione più disciplinanti ed opprimenti.

Il gioco cinematografico di sovvertimento dell’ordine museale risulta dunque sempre connesso al corpo, e questa dinamica ha naturalmente anche una declinazione fortemente legata all’eros. Interessantissime da questo punto di vista le somiglianze e differenze tra Vertigo di Hitchcock (1958) e Vestito per uccidere di De Palma (1980): il primo mette in scena una dinamica di sguardo chiara e lineare (l’uomo guarda la donna, la donna guarda il quadro: la donna è oggetto di sguardo, secondo la modalità prevalente in buona parte del cinema classico americano[12]); il secondo invece disegna una reciprocità di sguardo in cui l’uomo e la donna sono entrambi soggettività desideranti ed attive. Il film di De Palma, che intrattiene un dichiarato rapporto di filiazione con quello hitchcockiano (elemento che il video mette bene in mostra, sovrapponendo per qualche secondo in più del solito la colonna sonora del classico del 1958 alle immagini del film successivo), lavora per fare del museo uno spazio in cui le dinamiche di sguardo sono più movimentate e articolate rispetto alla semplice traiettoria visitatore-dipinto. Il punto è che questa differenza nelle traiettorie del desiderio implica anche un gioco con l’ambiente museale nettamente più articolato: si vede molto più Metropolitan Museum di New York nel film di De Palma di quanto si possa cogliere in Hitchcock del Museo della Legion of Honor di San Francisco.

Nel complesso, il cinema sembra esprimere, attraverso questi diversi registri, la voglia e la necessità di raccontare il museo non come luogo della distanza e dell’accumulo storicistico fine a sé stesso, ma come ambiente intrecciato al tessuto del vivere quotidiano. In contrasto con l’idea del museo come spazio dell’imbalsamazione e della morte, il cinema ne sottolinea invece la possibilità di configurarsi come sede di confronto del soggetto con le proprie identità e i propri meccanismi di desiderio[13]. E naturalmente nel far questo, il cinema rivendica allo stesso tempo questa funzione anche per se stesso.

museiMuseimusei è stato d’altronde realizzato grazie a quell’immenso archivio costituito oggi da internet: museo costantemente mobile (ed effettivamente trasportabile, visualizzabile sul cellulare mentre si cammina), la rete sembra adombrare il rischio opposto a quello della mummificazione del museo tradizionale, sfociando nell’effimero e nell’alea di una marea di immagini prive di qualsiasi gerarchia. Eppure, quello che questo video sembra dirci (si veda la conclusione, perfettamente evocativa, sul Satyricon felliniano, 1969) è che, al di là dei catastrofismi, cinema e museo si configurano entrambi come dispositivi capaci di rinegoziare continuamente ed in modo produttivo il rapporto tra ordine e disordine, tra possesso e perdita, tra memoria ed oblio.


[1] Per una mappatura ampia delle posizioni teoriche che prendono il nome di cultura visuale si vedano AA. VV. “Visual Culture Questionnaire”, «October», vol. 77 (Summer 1996), pp. 25-70 e Nicholas Mirzoeff (a cura di), The Visual Culture Reader, New York-London, Routledge, 2002. 

[2] Faccio riferimento qui al concetto di modernità nel senso di quell’insieme di profonde metamorfosi che si sono avute nell’ambito della vita quotidiana e del tessuto dell’esperienza con il pieno svilupparsi del sistema capitalistico, negli ultimi centocinquanta/duecento anni. Cfr. Ad esempio Leo Charney and Vanessa Schwartz (a cura di), Cinema and the Invention of Modern Life, Berkeley, University of California Press, 1995.

[3]Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia (1931), in Id., Aura e choc (a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini), Torino, Einaudi, 2012, pp. 225-244, p. 237.

[4] Il riferimento è soprattutto al lavoro di Jean-Louis Baudry con i vari articoli poi confluiti in L’effet cinéma, Paris, Albatros, 1978.

[5] Si pensi al lavoro, sviluppatosi in particolare a partire dagli anni novanta, di studiosi come Tom Gunning, Miriam Hansen, Anne Friedberg.

[6]G. Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema (2002), Torino, Bruno Mondadori, 2006, pp. 98-99.

[7]G. Bruno, Pubbliche intimità. Architettura e arti visive (2007), Torino, Bruno Mondadori, 2009, pp. 22-23.

[8] Il riferimento filosofico è evidentemente ad Heidegger ed alla sua idea di abitare l’opera d’arte. Vedi Heidegger, “Costruire abitare pensare”, in Saggi e discorsi (a cura di Gianni Vattimo), Milano, Mursia, 1976, pp. 96-108.

[9] Bruno, Pubbliche intimità, cit., p. 34.

[10] Mary Ann Doane, Vicinanza, distanza e scala, in Giulia Carluccio (a cura di), Otto Preminger, regista. Generi, stile, storie, Torino, Kaplan, 2009, pp. 33-51, pp. 34-35.

[11] Secondo il famosissimo mito della nascita della pittura raccontato da Plinio il vecchio, il primo dipinto della storia sarebbe stata la silhouette tracciata da una donna del profilo del suo amato che partiva per la guerra, dove avrebbe poi trovato la morte. Cfr. Victor I. Stoichita, Breve storia dell’ombra (1997), Milano, Il Saggiatore, 2000, pp. 13-40.

[12] Si veda, a questo proposito, Laura Mulvey, Cinema e piacere visivo, (a cura di Veronica Pravadelli), Roma, Bulzoni, 2013.

[13] Cfr. da questo punto di vista anche la scena di Totò, Peppino e il pennello proibito (Steno, 1959) in cui al discorso del critico d’arte sulla qualità fortemente materica del sangue nella pittura di Goya si associano la distrazione erotica rappresentata dalla procace turista e lo humour complessivo della situazione: una sintesi eccezionalmente spassosa ed efficace delle modalità con cui si può movimentare lo spazio apollineo del museo.