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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

La casa di Gropius a Dessau

Daniela De Dominicis

E' giusto ricostruire ex novo un’architettura che la storia ha distrutto? O vale piuttosto mantenere in vita esclusivamente ciò che esiste, anche se parzialmente, intervenendo solo con integrazioni discrete e reversibili come le teorie brandiane ci raccomandano di fare?

In tempi recenti la Germania ci ha familiarizzato, in questo campo, con sperimentazioni tanto radicali quanto discutibili. Tra gli esempi che hanno suscitato maggior scalpore è il rifacimento dello scomparso Castello degli Hohenzollern a Berlino. Il concorso per il riutilizzo dell’area, conclusosi nel 2008 con la vittoria dell’architetto Francesco Stella, ha imposto infatti la fedele ricostruzione di tre lati dell’antica costruzione, lasciando libertà progettuale per il quarto. Questa variante, la differenza dei materiali che si intende utilizzare, la nuova destinazione d’uso che verrà messa in campo, non sono riusciti ad attenuare lo sconcerto per questa antistorica scelta di fondo.

Il sito non è nuovo a rovesciamenti repentini. Il Castello seicentesco infatti, miracolosamente scampato alla seconda guerra, negli anni ‘50 è stato completamente demolito, tra le accese contestazioni internazionali, per far posto al Palast der Republik, cuore politico e sociale della DDR. Si potrebbe giustificare una simile aberrazione solo riconducendola ad un tempo ormai lontano, a scelte imposte dall’alto, tipiche dei regimi totalitari. In realtà però lo stesso meccanismo si è imposto anche a Germania unificata, quando ormai il senso della conservazione storica sembrava condiviso. Tra il 2006 e il 2008 il Palast der Republik, diventato anch’esso una testimonianza storica del concluso regime socialista, è stato a sua volta interamente smantellato. Le argomentazioni ufficiali alla base di questa scelta non sono sembrate del tutto convincenti, lasciando ipotizzare il riproporsi di una motivazione ideologica. La necessità di bonificare l’amianto presente nell’edificio infatti, non era incompatibile con la sua conservazione, come dimostra per esempio il restauro in corso del Kulturpalast nella città di Dresda che, pur parimenti inquinante, viene risanato ma preservato.

Anche l’Accademia di Architettura di Schinkel a Berlino, demolita nel 1962, sostituita dal Ministero affari esteri fino al 2000, ha nuovamente ripreso il suo posto, seppur soltanto riprodotta fotograficamente al vero su teli di plastica sostenuti da un’impalcatura metallica in attesa di più concrete decisioni.

E qualcosa di analogo si è registrato a Dessau, la città della Sassonia-Anhalt famosa per aver ospitato la scuola della Bauhaus dal 1926 al 1932. Due delle famose Meisterhäuser, le case dei Maestri, costruite da Gropius sulla Ebertallee (1925-26), quella destinata a propria residenza nonché quella per Moholy Nagy, sono di nuovo al loro posto. Non restaurate, perché entrambe completamente distrutte nei bombardamenti della seconda guerra, ma ricostruite sulla base delle documentazioni fotografiche dell’epoca.

Autore di questa operazione – vincitore del concorso bandito nel 2010 – è lo studio berlinese BFM Architekten (Pietro Bruno, Donatella Fioretti, José Gutierrez Marquez) che ha riproposto gli ingombri volumetrici dei due edifici.

Il materiale utilizzato si presenta però diverso dall’originale: il cemento Dämnbeton è ricoperto con una pellicola che lo rende uniforme e compatto; le finestre, così importanti nelle opere di Gropius per creare effetti di vuoto e di profondità, nella nuova versione sono sorde superfici opache che nulla riflettono e nulla lasciano intravedere. L’interno non è stato ricostruito a causa della scarsa documentazione e pertanto è stato lasciato a tutta altezza, illuminato da luci artificiali. Si è voluto certamente solo evocare la casa di Gropius, non imitarla; proporla cioè come un modello al naturale, nulla a che vedere con una casa reale: l’effetto però è veramente spettrale e deviante.

Sull’architettura razionalista tedesca hanno pesato a lungo non solo le condanne ideologiche del Nazismo prima e della DDR dopo, che ne hanno promosso trasformazioni, camouflage o abbandono, ma anche le originarie documentazioni fotografiche in bianco e nero che le hanno sempre fatte apparire austere e respingenti. Ora però quest’architettura vive un secondo momento aurorale. In tempi recenti infatti gli insediamenti promossi durante la Repubblica di Weimar sono stati accolti nell’ esclusiva ed ambita lista dei 1007 siti tutelati dal World Heritage Site dell’Unesco (gli edifici costruiti sotto l’egida della Bauhaus a Dessau lo sono dal 1996, mentre i sei insediamenti razionalisti a Berlino dal 2008) e questo ha dato luogo a rigorosi e filologici interventi di recupero.

Sono così emersi anche preziosi frammenti cromatici che hanno permesso di riproporre le ardite sperimentazioni parietali di Hinnerk Scheper nella sede della scuola e quelle dei maestri (Klee, Kandinskij, Muche, Schlemmer) nelle rispettive abitazioni; i montanti metallici delle finestre – che si ritenevano tutti uniformemente neri – si sono rivelati grigi fuori e bianchi all’interno. Hanno ripreso vita ambienti pieni di fascino per l’essenziale volumetria, luminosi ed accoglienti, con i colori che giocano un ruolo avvolgente e costruttivo all’interno. Gli arredi – purtroppo perduti – erano concepiti per ottimizzare gli spazi e i movimenti, con duplice o addirittura triplice funzione, il tutto finalizzato alla creazione di un efficiente meccanismo abitativo cui le documentazioni fotografiche originarie non sono in grado di rendere giustizia.

Mentre un attento restauro dell’esistente ha quindi il senso di poter cogliere almeno in parte la consistenza di queste sperimentazioni architettoniche e restituire loro il giusto ruolo nella storia, sfugge la finalità di una ricostruzione ex novo di ciò che non esiste più, per giunta nella versione commemorativa di un triste ed inutile cenotafio come quella proposta per la casa di Gropius a Dessau.