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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Posologia della Biennale di Venezia 2015

Domenico Scudero

La Biennale di Venezia è sempre di grande utilità. Ci si informa di alcuni lavori d'arte contemporanea che in altro modo non sarebbe possibile vedere, si rinnova l'impegno alla conoscenza del contemporaneo. D'altra parte è anche vero che la visita ad una Biennale, che nella fattispecie è anche la più antica istituzione periodica sull'arte contemporanea, produce alcuni interrogativi che interessano non soltanto la fattispecie della mostra in questione ma l'identità stessa delle istituzioni. Possiamo dire che la Biennale di Venezia è l'opera principe di tutto un modello espositivo. Dalla sua origine quale strumento di misurazione delle stato nazionale della cultura figurativa, la biennale distribuita in padiglioni, è adesso una più complessa e globalizzata struttura espositiva.

Le domande che attualmente ci si può porre sono svariate. In prima istanza ci si interroga sulla necessità e sulla reale qualità di una mostra di siffatta maniera. Ad una osservazione planata risulterà chiaro che la volontà d'internazionalità della Biennale è una delle possibili chiavi d'interesse, tuttavia è anche vero che la diversificazione in padiglioni e la successiva sovrastratificazione di una mostra complessiva, curata generalmente da un personaggio di spicco della contemporaneità, complica la lettura generale. Se è vero che la sistemazione a padiglioni è anche un lascito della società post ottocentesca, in particolare di quell'Occidente che si voleva a guida universale, è anche vero che la realizzazione di una spazialità coordinata da un unico sguardo curatoriale produce nel complesso alcune disarticolazioni nel pensiero critico sulla manifestazione. Ulteriore complicazione è nella domanda se effettivamente la Biennale, ma qui per Biennale intendiamo assumere simbolicamente il senso di mostra periodica internazionale, abbia ancora un valore; o meglio se ancora sia possibile realizzare una mostra che voglia essere internazionale e che risponda effettivamente alla richiesta fattuale di produrre uno sguardo integralmente artistico culturale. La domanda che ci si pone devia quindi inesorabilmente dallo sguardo critico, sull'identità interna di ciò che è in esposizione, all'identità complessiva di ciò che è diventata una grande mostra internazionale; quali sono le persone che possono a vario titolo parteciparvi, a quali interessi risponda, e quali sono i possibili beneficiari di tutto questo insieme.

Per rispondere alla prima parte della domanda, ovvero quale sia effettivamente l'identità di una grande mostra internazionale periodica sull'arte contemporanea, basterà partire dal presupposto che questa è, sulla continuità dell'idea che era alla base di Documenta all'epoca della sua fondazione, un documento testimoniale di un determinato periodo storico. Periodo che defininiamo  «presente contemporaneo» e che una volta cristallizzato nella sua installazione definitiva diventa testimonianza di un relativo passato. Questa identità di mostra che sia documento testimoniale e identificativo di un tempo specificamente sincronico al nostro vissuto è vera anche nel caso in cui la mostra produca opere e contesti che non sono esattamente contemporanei, attingendo ad alcuni esempi che nella cultura producano di volta in volta riferimenti significativi. Così,  nella biennale di Enwezor, ha un significato importante l'opera di Fabio Mauri, quella di Marcel Broodthaers, quella di Terry Adkins, tutti artisti scomparsi. Questo principio fornisce l'esempio basilare per comprendere quali siano, nello sguardo della selezione sulle tematiche intraprese, le oggettive considerazioni nei confronti di una storia recente di alcune frazioni tematiche o di alcuni movimenti specifici. Documenta al suo sorgere faceva esattamente questo, testimoniava quelle storie che risultavano attive nel presente e che erano state lacunosamente dimenticate dalla storicizzazione a causa del movimento di restaurazione e di nazionalizzazione vissuto nei centri di divulgazione culturale. Quando Documenta ha finito di raccontare questa breve storia, rubricando un patrimonio formale che era ancora attivo, ha iniziato a rivolgersi sempre più specificamente al tempo presente. Probabilmente è l'edizione di Szeemann del 1972 quella che sancisce il definitivo affiancamente sincronico fra tempo dell'arte e tempo della storia, forse la prima Documenta integralmente testimoniale.

La Biennale di Venezia , come sappiamo, pur essendo la madre di tutte le grandi mostre, ha sofferto per molti anni, da quell'edizione di Documenta del 1972, di un'identità fuori tempo a causa della sua fondazione in tempi più antichi. Se Documenta poteva raggiungere il presente con una rincorsa decennale o poco più, la Biennale ha dovuto reinventarsi e trasformarsi da modello a inseguitrice. Il senso dell'operazione assimilativa del tempo presente per la rassegna veneziana è continuato anche e prima dell'avvio della piattaforma espositiva di «Aperto» (1980) rilocato negli spazi delle Corderie permettendo lo sganciamento dall'impostazione nazionale. In questo modo il modello di mostra internazionale poteva verificare sia lo stato dell'arte nazionale, attraverso i vari padiglioni, sia la mappatura periodica assunta a modello di riferimento tematico di un preciso presente storico.

La grande mostra internazionale è ancora oggi proprio questo, un modello sintomatico di riferimento che è possibile considerare come simbolo culturale di una specifica area di lavoro e di tempo. La particolarità di una grande mostra come quella periodica è però quella di interessare un notevole settore del sistema dell'arte contemporanea, ma non di tutto. Se così non fosse la mostra periodica piuttosto che essere votata allo sguardo selettivo, e quindi critico, sarebbe impegnata in un impossibile rispecchiamento realista e questo risulterebbe identico nella sua istantaneità, al modello nazionale che era nell'origine, ma riportato ad un livello sovranazionale, un impavido universalismo.

La mostra internazionale, diversamente dal modello nazionale non ha lo scopo di determinare la visione della cultura figurativa in funzione diplomatica. Ha invece lo scopo di lasciar trasparire alcuni significati evidenti nella produzione creativa e ragionare sulle domande e sulle risposte che questi significati hanno nel mondo contemporaneo.

La grande mostra periodica internazionale è diventata quindi questo; una discussione su alcuni significati espressi dalla cultura artistica e sulle domande e sulle risposte che questa ci pone. Il successivo quesito che ci si era posti consisteva nell'identificare chi e perché ha la possibilità di essere rappresentato da una simile manifestazione internazionale. Il sistema selettivo nel sistema dell'arte contemporaneo è qualcosa di esclusivo, oscuro, sobilla infinite dispute, liti, maldicenze. Nulla di nuovo, chiunque abbia una sia pur minima frequentazione della storia dell'arte sa che è densa di aneddoti su questi argomenti. Si dirà che è quello che succede in qualsiasi specifica attività di libero arbitrio dell'uomo, con l'aggravio che nel mondo dell'arte contemporanea la maggior parte delle scelte e delle motivazioni di queste rimangono oscure ai più e comunque non chiare anche ai conoscitori dello stesso sistema. Qualora ci si rivolga ad un qualunque protagonista del sistema espositivo, forzando volontariamente la ricerca di una qualche verità alla base del successo di questo o quell'artista, invariabilmente la risposta sarà elusiva, semplicemente perché non esiste alcuna risposta. L'identità del successo e la necessità di questo non corrisponde ad alcuna regola, né ad alcuna effettiva strategia che non sia quella dell'elusivo «impegno», della «caparbietà» e della «volontà» del singolo artista. Tuttavia anche queste doti, che comunque non hanno esattamente luogo nel territorio specifico della creatività, risultano deviate dal fatto che in ogni caso esse sono impiegate non tanto nell'ambito espressivo, quanto in quello lavorativo più generale, e con lavorativo si intende il complesso modello di realizzazione fattuale del produrre, organizzare, pianificare, delegare, ma anche di vendita, attraverso socializzazione, promozione, strategie. Tutto ciò determina il successo del lavoro di un artista anche quando lo stesso artista piuttosto che gestire individualmente il proprio lavoro è soggetto delegante di alcune di queste attività pratiche e a suo volta delegato dal garante di mercato che assume l'onere di rappresentare, commutare, smerciare e valutare il prodotto in questione. Ne consegue che se la rappresentanza sociale del lavoro di un artista è un soggetto diverso dal produttore, questo rappresentante diventerà in qualche modo l'interlocutore privilegiato, o anche il soggetto che determina nel bene o nel male la presenza o l'assenza del soggetto produttore. La dimostrazione di questo la si può verificare nei casi in cui alcuni artisti da produttori hanno voluto assumere anche il controllo di rappresentanza del loro lavoro, scontrandosi brutalmente con la stessa entità di rappresentanza. (Il caso di Damien Hirst è emblematico) (1).

Quindi è evidente che sebbene il produttore artista sia anche l'autore creativo è anche vero che per poter entrare in contatto con il suo lavoro è di norma necessario prendere accordi con una terza persona. In qualche modo, inoltre, sono i rappresentanti a decidere quali siano le presenze dell'autore artista. Poiché la determinazione dei lavori, la possibile gestione di questi, gli eventuali sponsor e assicurazioni, hanno una quasi obbligatorietà nei confronti della figura del rappresentante economico, questo rende difficile dimostrare che la gestione del successo, delle strategie, le doti di impegno, caparbietà e volontà, estranee al mero talento artistico, siano determinanti per il successo artistico. Risulta meno difficile, invece, poter affermare che siano i rappresentanti i custodi degli interessi interni di una grande mostra d'arte e siano anche costoro a garantire e in qualche modo a decidere chi e in che modo possa partecipare. Tutto ciò si è fortemente radicato nel sistema dell'arte in conseguenza della progressiva diminuzione del sostegno statale nei confronti della cultura artistica, condizione che ha di fatto enormemente aumentato il potere di interessi privati nell'ambito artistico.

La terza parte della domanda che ci eravamo posti era di cercare di individuare i beneficiari di una simile struttura espositiva e i possibili fruitori interessati a questa. Identificare gli effetti benefici di una così imponente struttura espositiva è difficile e incerto da una parte, evidente e rassicurante dall'altra. Le grandi manifestazioni sono oramai in massima parte enti a gestione indipendente, sottoposti piuttosto a vincoli di sussistenza uguali ad ogni impresa commerciale che si rispetti. Sono essenzialmente luoghi di dominio privato e di interesse privato, di singoli o di piccole collettività gestionali, e quando avviene che ci sia l'intervento di istituzioni statali questo accade sempre con un oculato progetto di sopravvivenza economica. Nessuno stato o nazione, che non sia in uno stadio di sviluppo arretrato assicura la sopravvivenza di manifestazioni artistiche se queste non hanno alcune garanzie commerciali, per via dei costi di gestione e mantenimento. I modelli sviluppati, e la Biennale di Venezia è «il modello», hanno anche la precisa volontà di garantire utili, e di conseguenza generare profitto allo stesso modo di una qualsiasi altra azienda, usando tecniche, marketing e strumenti idonei affinché fra promozioni, sponsorizzazioni e merchandising l'evento espositivo si trasformi anche in occasione economicamente positiva, favorendo l'indotto turistico e altre attività commerciali integralmente connesse a questo.

L'interesse della mera organizzazione societaria non è quello di garantire significati cuturali ma far sì che i significati culturali generino profitto o al minimo sussistenza e autonomia. Quella che nelle presentazioni ufficiali viene illustrata come autonomia nelle scelte altro non è che una fase autonoma dalla politica, poiché gestisce l'identità della rassegna facendo sì che essa cresca, si sviluppi, «autonomamente» intendendo con questo termine il senso di autonomia finanziaria. Ma come si costruisce l'autonomia finanziaria nell'odierno sistema dell'arte? Ovvero esiste una possibile autonomia finanziaria di una simile occasione internazionale dedicata al mondo dell'arte, alla sua creatività? Naturalmente sì, fermo restando che il punto di riferimento debba essere quello di un'arte che produce reddito, di un'arte che sia rappresentata, di un'arte che grazie a questa rappresentanza economica può generare sostegno alle spese e contare anche su un utilizzo funzionale della sua stessa partecipazione. La storia delle grandi rassegne internazionali è piena di presenze artistiche che dopo essersi mostrate ad una platea ampia sono state riassorbite dalle sabbie mobili dell'indigenza, un paradosso che lo stesso sistema dell'arte, per poter funzionare, combatte inesorabilmente. La chiave per poter assicurare la piena adesione al progetto di autonomia e di soluzione profittevole per ogni autore partecipante è quella di comprovare la qualità di sostegno economico che l'autore riceve. Se un lavoro artistico non è rappresentato, non è un lavoro artistico (2). Plagiando Szeemann si potrebbe dire che l'arte è, per le manifestazioni internazionali, quello che gli artisti fanno con la garanzia del mercato e della rappresentanza. E gli artisti che possono partecipare sono quindi quelli garantiti e rappresentati da un preciso sistema di mercato, di gallerie e di collezionisti. Ne consegue pure che possono partecipare alle grandi manifestazioni internazionali e possono giungere alla piena funzionalità di lavoro artistico quegli autori che sono preventivamente selezionati da un congegno economico che si identifica fra fiere, gallerie, collezionismo. Il fatto che la prima scelta sia quella del mercante è del tutto elusiva in fase di selezione, ovvero non costituisce fenomeno, ma «determina».

Quello che non sembra essere scritto in tutto il barcollante conglomerato di falso «criticism», dall'indagine sociopolitica, a quella trilobata religiosa sulle dispute fra i tre monoteismi concatenati, o l'hyper «national geographic» global territoriale tanto di moda, è che il soggetto di ogni disputa su cui discutiamo è sostanzialmente una scelta di pochi che giocano con l'arte così come fanno con le barche e nel frattempo speculano in borsa. Chi sta tirando le fila di un complicatissimo sistema è solo un'oscura minoranza su cui nulla è stato detto e di cui non potrà dirsi sia interessata alla funzione espressiva o al significato culturale. Il risultato è  evidente. Le grandi manifestazioni artistiche sul contemporaneo hanno smesso di essere in primo luogo spazio di riconoscimento sui significati del tempo e della relativa cultura e sono diventati principalmente eventi, eventi che hanno successo o determinano degli insuccessi in relazione alla visibilità pubblica, al numero dei visitatori, ai biglietti pagati e all'indotto generato. Le nostre chiacchiere, aleatoriamente permanenti nella scrittura critica, non hanno alcuna dimora negli interessi di chi gestisce e misura l'esito e programma gli sviluppi futuri delle grandi mostre. La critica è palesemente invisa, molestamente evitata, programmaticamente evitata: se ancora pochi anni fa i vernissage erano occasioni, le poche che contavano, per incontrare un ambito, sono oramai la vetrina planetaria di un mondo gossippato. (3)

Quanto sopra discusso attiene al significato complesso e generale di una grande esposizione di cui la biennale sembra essere l'origine. Al suo interno tuttavia coesistono anche ulteriori segni. Questi segni sono spesso interessanti anche al di là dell'impostazione curatoriale imposta dall'incaricato. Fra questi, nell'ultima edizione della Biennale di Venezia, l'operazione compiuta da Christoph Büchel. L'artista in questione è noto per aver realizzato grandi installazioni spesso provocatorie, un sex club alla Secessione viennese (2010), carrelli di homeless newyorkesi venduti al Frieze New York (2012). Per l'occasione veneziana, invitato a rappresentare il padiglione islandese, Christoph Büchel ha trasformato una chiesa sconsacrata, Santa Maria della Misericordia, in una moschea. La chiesa è stata riallestita con tappeti, candelabri, stuoie, parlatoio, recinzioni, perfettamente usufruibili. Nella canonica è stata anche sistemata una macchina automatica per bevande e cibi halal. La realizzazione di quest'opera d'arte è stata volutamente verosimile, o piuttosto talmente realista che, col beneplacito dell'artista, nel giro di poche ore si è trasformata davvero in una moschea. Considerando il fatto che nel circondario della città lagunare gravitano diverse migliaia di musulmani e che per loro non esiste alcun luogo di preghiera si capisce perché già durante l'inaugurazione il sito era gremito di fedeli riuniti in preghiera, inginocchiati verso La Mecca. Un visitatore della Biennale che chiedeva di entrare senza doversi togliere le scarpe ha ricevuto un secco no dai custodi incaricati di gestire il flusso e di conservare l'integrità del luogo. L'uomo, molto determinato, ha allora chiamato alcuni vigili, dice la cronaca, che hanno constatato il fatto. Con immediata sollecitudine la curia locale ha espresso forte malumore perché, si sosteneva, la chiesa, adesso di proprietà di un privato, non risultava, secondo le loro fonti, sconsacrata. Del fatto se n'è occupata la polizia municipale, la quale, considerando che la chiesa veniva usata come luogo di culto senza autorizzazioni, ha ordinato nel giro di pochi giorni la chiusura del padiglione. Questa la cronaca.

L'idea di usare un luogo sacro per una mostra o un'operazione artistica non è nuova, molti artisti lo hanno fatto. Che un artista stravolga uno spazio che ha avuto una storia particolare e lo riproponga sovvertendolo, anche questo non è una novità. Non è inusuale che un pubblico inconsapevole consideri un'opera solo nella sua funzione allusiva, molte altre volte un pubblico all'oscuro di quanto succedeva ha partecipato ad un evento artistico. Tuttavia qui, come ha detto l'Imam all'indomani della chiusura del luogo, si è scherzato con il fuoco in un pagliaio. Escluderei che l'artista non abbia capito esattamente dove stava facendo la sua installazione, né tantomeno che non sapesse quali tensioni potesse generare la frizione fra differenti fedi e in particolare in un territorio quale quello veneziano e nello specifico nella sede di Dorsoduro, noto per essere il quartiere del Ghetto ebreo. La sensazione che deriva da tutta questa storia è che l'artista si sia lasciato prendere la mano e non abbia realisticamente valutato le conseguenze del suo gesto. In primo luogo sull'affidabilità di chi gestiva il luogo. In secondo luogo, l'interpretazione dell'oggetto d'arte sarebbe stata possibile solo a chi ne fosse stato informato, mentre gli inconsapevoli frequentatori e fedeli nulla avrebbero potuto sapere di questo se non che si fosse finalmente aperto uno spazio dedicato al culto. Difficile spiegare a queste persone che anche loro erano attori di un'installazione, e difficile anche poter spiegare loro che questa installazione non sarebbe stata nemmeno duratura poiché risiedeva in un luogo mai smesso dalla sua primigenia funzione sacra. Difficile poter dire loro che stavano fornendo, pubblico e funzione religiosa, l'immagine di un tableau vivant in un gioco dissacrante il cui oggetto era la loro stessa fede. D'altra parte è difficile per l'artista spiegare al quartiere o anche ai fedeli cattolici che una chiesa era stata  adibita a moschea senza alcuna autorizzazione. Difficile anche spiegare al pubblico, ad un pubblico di non addetti ai lavori, perché un'opera che doveva essere un'installazione era diventata di fatto un luogo di culto all'interno del quale vigevano regole che non sono esattamente quelle dell'opera d'arte. La sensazione allora è che Christoph Büchel, tanto bravo quanto sprovveduto, per una volta abbia sbagliato tutto e non ne sia uscito troppo elegantemente, perché ciò che di lui rimane non è tanto l'idea che abbia giocato con il fuoco ma piuttosto che abbia giocato a fare il furbo. Non credo che lo stesso artista avrebbe mai potuto trasformare una vecchia moschea in chiesa cattolica neanche nel più moderato dei paesi islamici senza procurarsi minacce e maledizioni divine. Ed è qui la furbizia di un'operazione del genere, ovvero quella di manifestare l'aperta supponenza di una superiorità della cultura europea, libera, aperta, egalitaria, in un mondo che invece non lo è. Forse l'artista avrebbe fatto bene ad attenersi ad un vecchio proverbio, scherza coi fanti ma lascia stare i santi, che va bene oggi e specialmente in un momento in cui chi scherza troppo finisce imbottito di piombo. Se l'idea era quella di provocare, inoltre, è gioco facile farlo con questi temi, se era quella di professare solidarietà invece è stato un fallimento e direi anche una vergogna per tutta l'arte perché ha dimostrato di voler esistere al di là del mondo reale, professando una sconsiderata freddezza che etichetterei con il termine «razzista» verso i più deboli.

Infine alcune osservazioni su un tema prettamente locale, ambiguamente localistico, il Padiglione Italia. Primo: la nomina di un curatore che ha un curriculum approssimativo come curatore non può non farmi dire che, comunque sia, la sua specificità non è quella di organizzare e allestire mostre, e questo è un fatto. Probabilmente è vero che bisognerebbe smetterla di lagnarsi che il Padiglione Italia è inadatto, lo era prima e lo sarà anche dopo il suo trasferimento dai Giardini, lo è semplicemente perché rispecchia lo stato confusionale di questa nazione, se così si può ancora chiamarla. Potrebbe mai un simile sistema sociale partorire un autoritratto alla Dorian Gray? E se lo facesse non sarebbe un esempio di realismo posticcio? Probabilmente è anche accaduto marginalmente in questo P.I.. Era posticcia l'installazione di Greenaway, ennesima conferma che la mano dell'artista nell'organizzare lo spazio deve andare ben oltre la pura paesaggistica scenografia del cinema. Scadente anche la presenza, peraltro rispettabilissima, di William Kentridge, con un lavoro malamente installato e che d'altra parte conferma lo stato della nazione di cui si è detto sopra. L'opera di Kentridge è in realtà il progetto gratuito proposto al Comune di Roma per abbellire i muraglioni del settore centrale del Lungotevere. Se la condizione di Roma non fosse quella di una città gestita quasi completamente da una mafia assoluta, di certo uno sguardo d'attenzione alla proposta di Kentridge qualcuno l'avrebbe dato. Ma non è stato così. E allora Kentridge per «omaggiare» l'Italia dimostra quanto sia ottusa la politica nazionale e quella della sua (per così dire) capitale.

Il Padiglione Italia merita d'essere quello che è, e non certo perché residuo di una visione dell'arte e dello Stato che è appannaggio di quasi due secoli, ma semplicemente perché l'Italia di oggi è questa miniera di pressapochismi. Il P.I. è un incubo di spazi mal illuminati, mal distribuiti. Tuttavia proponeva anche alcune personalità interessanti: Nino Longobardi, Mimmo Paladino, Andrea Aquilanti, e poi Vanessa Beecroft e soprattutto Marzia Migliora. Ma l'insieme dell'allestimento era imbarazzante, era come entrare in una fiera, una di quelle modeste. Solo l'intelligenza degli artisti ha salvato il loro lavoro. E, visti i tempi, in alcuni casi citati bisognerebbe dire: solo l'intelligenza manageriale degli artisti li ha salvati dal crack, dal default, dallo spread.

(05/07/2015)

1) Julian Spalding, Con Art. Why you should sell your Damien Hirsts while you can. [Amazon/Kindle] (2012)

2) Eloquente a questo proposito ricordare che proprio Enwezor con queste tematiche ha ricevuto un'attenzione particolarmente proficua dopo aver pubblicato il suo libro insieme a Olu Oguibe. Olu Oguibe, Okwie Enwezor, Reading the Contemporary. African Art from Theory to the Marketplace, INVA, London, 1999.

3) Può essere utile rivedere Julian Stallabrass, The Decline and Fall of Art Criticism, Magazyn Sztuki (Gdansk), no. 18, 1998, pp. 85-92; il capitolo sulle privatizzazioni in Boris Groys, Art Power, pp. 187 - 195, Postmedia Book, Milano, 2012 (ed. or. MIT press, 2008); il testo a cura di James Eljins e Michael Newman, The State of Art Criticism, Routledge, New York -London, 2008.