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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Milano - Expo 2015

Daniela De Dominicis

Milano si è preparata con cura a questo appuntamento mondiale assegnatole nel 2008 con un piano complessivo che ha individuato nell’area Nord-Ovest, la Fiorenza-Triulza, il nuovo asse di sviluppo urbano, già sede del polo fieristico Rho-Pero e attualmente la maggiore area espositiva d’Europa.

Expo 2015 è stata l’occasione per ripensare nel complesso la viabilità e le connessioni urbane fatte non solo di strade carrabili e ferrate, ma anche di corsi d’acqua. Il primo tratto di 7,5 Km  delle Vie d’acqua Nord si è appena inaugurato – anche se ridimensionato rispetto all’idea iniziale di Naviglio del terzo millennio – affiancato da una pista ciclabile attraverso il Parco delle Groane, così come si è conclusa l’apprezzata riqualificazione della Darsena, l’antico approdo cittadino fuori Porta Ticinese; abbandonato invece il progetto Vie d’acqua Sud, osteggiato da varie associazioni e arenato nelle inchieste della magistratura.

E’ stata anche l’occasione per intervenire sulle aree irrisolte e abbandonate, prima fra tutte quella di Porta Nuova – una ferita nell’ambito del tessuto urbano fin dagli anni ’60, a pochi passi dal centro storico – che ha visto coinvolti nei lavori di riprogettazione architetti di fama mondiale come César Pelli, Pedersen Fox, Stefano Boeri, Nicholas Grimshaw.

Anche la zona Fiorenza-Triulza è una zona depressa ed è stata scelta dallo Studio 5+1AA, cui era stato affidato nel 2006 il progetto iniziale per l’Expo, proprio per colmare un vuoto territoriale tra la città e i centri satelliti, come volano di uno futuro sviluppo. E’ il loro progetto che nel 2006 viene presentato al Bureau International des Expositions, ma tre anni dopo questo Studio genovese viene sostituito da una Consulta architettonica formata da Jacques Herzog, Richard Burdett, Stefano Boeri, William MacDonough, Joan Busquets. Il masterplan definitivo presentato nel 2010, dopo la nomina ufficiale del Bureau, si distacca notevolmente dall’idea iniziale pur mantenendone gli assi ortogonali di riferimento. 

Il sito destinato all’esposizione universale si articola infatti su un asse Est-Ovest di 1,5 km, il Decumano, e l’ortogonale Nord-Sud, il Cardo, di 350 metri: dall’alto l’intera superficie ha la forma di un pesce con una grande testa e una coda lunga e sottile per un totale di un milione e cento mila metri quadrati.

Il tema scelto è: Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita.

140 paesi, più Organizzazioni Internazionali, ONG, Aziende e Organizzazioni della Società Civile sono invitati a ragionare sui propri modelli di produzione e di consumo in un ottica compatibile con la sostenibilità globale. Il concetto di nutrimento presente nel titolo implica infatti l’idea di tutela, di mantenimento in buona salute per un Pianeta che è stato fin’ora depredato delle proprie risorse senza troppi scrupoli, ma che nella prospettiva dei 9 miliardi di abitanti alla metà del secolo, deve essere protetto da contromisure radicali. L’Expo ha indubbiamente l’obiettivo di sensibilizzare su queste tematiche tutti i governi e il più ampio numero di persone possibile ma, trattandosi di uno spazio espositivo frequentato da un target universale, presenta modalità comunicative spettacolari e coinvolgenti che, a volte, finiscono per semplificare i contenuti banalizzandoli o per investire su messe in scena fini a se stesse.

I discorsi per gli addetti ai lavori hanno luogo nei convegni a latere durante i quali si è messa a punto la Carta Milano che vorrebbe essere per l’alimentazione ciò che il Protocollo di Kyoto è per il clima. Carta appena scritta ma già tanto contestata perché non si esprime sulle logiche del libero scambio, le ormai famose TTIP.

I concetti di base che emergono fin dal Padiglione Zero (quello che apre il percorso con una mostra che analizza dalla preistoria il rapporto tra l’uomo e la terra che lo ospita) sono chiari:

1. la produzione attuale è già sufficiente a nutrire tutti gli abitanti della terra.

2. il problema è la concentrazione produttiva: 800 milioni di persone (cioè una persona su nove) soffrono la fame mentre il 30% di ciò che si produce viene sprecato.

Si ha dunque simultaneamente scarsità e abbondanza di cibo a causa allo squilibrio tra le diverse economie.

Visitando velocemente gli 80 padiglioni  e le 9 aree tematiche (definite cluster) che raggruppano più partecipazioni nazionali, le proposte innovative risultano essere da una parte l’agricoltura verticale, impostata cioè su pareti di griglie metalliche con zolle di terra pressate che permettono una produzione doppia e un risparmio idrico del 95% rispetto a quella tradizionale a terra, dall’altra l’agricoltura urbana, cioè coltivazioni ospitate sui terrazzi degli edifici. Se è vero che, come sostiene il sociologo Laurence C. Smith in un libro di recente pubblicazione, nel 2050 su 9 miliardi 6,2 vivranno nelle città, questa proposta potrebbe non essere trascurabile (Laurence C.Smith, The World in 2025, 2010).

E veniamo ai padiglioni. Tutti affacciano sul grande viale centrale lungo – come già ricordato – 1,5 Km e largo 36 metri. Una confortevole copertura di tende bianche, in parte concave, in parte convesse, trasforma questo grande boulevard in una sorta di mercato globale. Per le ragioni già dette molti padiglioni hanno orientato la scelta su soluzioni spettacolari con un’ostentazione di investimenti che rasenta talvolta il cattivo gusto. Tra questi, quello degli Emirati Arabi Uniti (architetto Norman Foster) con due alte pareti di calcestruzzo pigmentato ad imitazione delle dune di sabbia a custodire una sorta di camera del tesoro dorata al centro, in realtà una sala cinematografica ad effetti speciali per 130 persone. (Chissà cosa ci riserverà Dubai 2020, il prossimo expo….)

Tra i padiglioni meno interessanti, quello del Giappone che pur costituito di un’ingegnosa struttura modulare in legno (architetto Atsushi Kitagawara) propone al suo interno una pedissequa presentazione di cibi che si conclude con un supertecnologico quanto inutile ristorante virtuale cui si è costretti a sedersi negli obbligati 50 minuti di visita.

Di maggiore interesse architettonico sono sembrati i padiglioni senza nessuna pretesa di camouflage, consapevoli della propria temporanea ragion d’essere, con strutture costruttive a vista: gli Stati Uniti che ripropongono uno dei loro granai (architetto James Biber) nonché una fattoria verticale di 860 m2; Israele che illustra le difficili condizioni di vita nelle zone desertiche e presenta anch’esso una parete verticale produttiva (architetto David Knafo); il piccolo villaggio costruito da Herzog & De Meuron per Slow Food alla fine del Decumano; le splendide costruzioni di Michele De Lucchi per il Centro Media e per il Padiglione Zero con le ampie coperture cuneiformi in travi di ferro e legno lamellare; il padiglione dell’Argentina, costituito semplicemente di diversi silos affiancati e interconnessi; Monaco che utilizza container impilati (architetto Enrico Pollini); i Paesi Bassi che hanno concepito un insediamento del tutto disarticolato tanto da richiedere particolare attenzione per percepirlo come unitario, sembra piuttosto un luna park di periferia con stand e chioschi in disposizione apparentemente casuale (studio Totems Gielissen).

Tra le aree  marginali e perciò meno frequentate c’è il cluster delle Zone Aride dove si raggruppano i paesi geograficamente più svantaggiati  tra i quali, per la prima volta, la Palestina i cui organizzatori si dichiarano perplessi di questa classificazione perché il loro territorio non include nessun deserto ma in compenso sono costretti a comprare acqua perché privati della regione delle fonti. In prossimità di questa sezione si trova un investimento straordinario, quello del gigante cinese di costruzioni Vanke, che opera anche negli Stati Uniti. Come autopromozione ha commissionato uno stand a Daniel Libenskind che ha progettato una raffinata struttura tortile rivestita di maioliche rosse sovrapposte a rombo a ricreare le squame di un serpente: all’interno una foresta di bamboo sostiene 80 schermi che restituiscono squarci di vita cinese con un’installazione raffinata, molto suggestiva.

I due padiglioni nazionali che scartano su tutti per il concept e per l’architettura sono quello del Regno Unito e dell’Austria.

Il primo concentra l’attenzione sulle api, elemento imprescindibile dell’impollinazione e quindi alla base della catena alimentare (vi hanno lavorato il fisico Martin Bencsik, lo Studio BDP e l’artista Wolfgang Buttress). Si parte da un prato fiorito rialzato perché il pubblico possa percepirlo come se vi stesse volando sopra a mo’ di ape. Si entra infine in un alveare a scala umana ricostruito con moduli d’acciaio, sorprendente per la perfetta geometria e le dimensioni che lo fanno assomigliare a un grattacielo. I ronzii e i rumori che vi si percepiscono sono quelli di un alveare britannico in collegamento diretto.

Il secondo invece, quello austriaco, ha ricostruito un vero bosco con  12 mila piante e 70 alberi sufficienti a produrre in un’ora l’ossigeno necessario a 1800 persone (Klaus K. Loenhart). Più che sulla produzione alimentare, l’Austria ha optato per una riflessione sulla qualità dell’ambiente perché “si può vivere cinque settimane senza cibo, ma neanche cinque minuti senz’aria”.

Cosa rimarrà di tutto ciò a mostra finita?

Innanzi tutto un’area sul cui utilizzo si ragionerà a lungo; rimarrà il sovradimensionato padiglione Italia (Nemesi & Partners) rivestito di moduli di cemento biodinamico, con un’enorme corte ma angusti spazi chiusi, infiniti e tortuosi passaggi – riempiti per ora di spettacolari, ma anche scontate, proiezioni di bellezze naturalistiche e architettoniche moltiplicate da pareti a specchio ; si conserveranno le costruzioni del quartiere Cascina Merlata (Mario Cucinella, Teknoarch, B22 e Pura), attualmente di supporto logistico al personale Expo, ma in prospettiva insediamento abitativo. Rimarranno inoltre un’infinità di polemiche sulla necessità di mostre così costose ed opulente, numerose inchieste giudiziarie e, speriamo anche, l’avvio di un serio dibattito su tematiche così vitali per le generazioni future.

Due righe per il logo, frutto di un concorso tra 700 giovanissimi designer vinto da Andrea Puppa: 4 lettere sovrapposte a 4 cifre, il font è l’essenziale Museo Sans di Jos Buivenga, i colori (giallo, blu e magenta) sono posti su due piani trasparenti che danno vita a molteplici varietà cromatiche: efficace e vitale.