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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

I fenomeni street: art/food/fashion e la gentrification globale

Domenico Scudero

Fra i fenomeni particolarmente rilevanti nell'area del contemporaneo quello della cultura di strada sembra essere il più emblematico. Nella confusa babele di segni che è del nostro immediato presente la pressante ascesa di tutto ciò che viene genericamente etichettato come «street» assume contorni svaporati, poco leggibili, ma ineluttabili e obbligati.

Le storie della cultura di strada sono molteplici, inesauribili in un unico percorso. Ciascun filone vuole la sua storia e reclama una sua qualità, in alcuni casi più simile ad una mitologia, e nonostante questo non basta: è come se ciascun protagonista rivendicasse un'autonomia fieramente estranea ad un contesto che non sia quello esclusivo dell'identità di strada. Di qui una serie di esasperazioni, banalizzazioni, estremizzazioni teoriche.

Banale, ossessivamente ripetuta è ad esempio la giusta osservazione che la nascita della cultura di strada derivi dalla pressante richiesta di partecipazione attiva alla vita culturale da parte delle giovani generazioni. La swinging London, la New York underground, la Berlino punkabestia, la Tokyo manga, sono oggettivamente luoghi di propagazione di una cultura che parte dalla strada e dai giovani e si realizza sostanzialmente nello scambio diretto fra ambienti che si identificano in primo luogo nell'età anagrafica. Ma non si tratta di una sola generazione, piuttosto di una persistente ricaduta verso l'autodeterminazione giovanile, un processo in atto già da più di mezzo secolo e che ha conosciuto un'esasperazione con la generazione dei millennials e dei nativi digitali (1). Cosa sarebbe oggi il mito di James Dean, la sua giacca rossa ricopiata in mille loghi diversi ma uguale se non avesse inciso direttamente sulla realtà giovanile?

La banalizzazione della street art è comunque la sua forza, perché la fa assumere ad elemento di distinzione apparente, anche se uguale, come la giacca di Dean, o il suo 101 Lee che tutti potremmo comperare sognando di «essere» mito.

La street culture è un'etichetta passpartout che riempie di volta in volta vuoti o pieni, indipendentemente dalla reale constatazione di qualità o di consistenza. Il suo arbitrio è in una manifesta anarchia totalmente sganciata dalle logiche, per così dire, accademiche, anche se poi anche all'interno della stessa accademia culturale, intendendo con ciò quell'insieme di istituzionalismi convalidati dal potere in atto, la street culture vuole essere un valore. La sua banalità è nella ripetizione, ma questa banalità è il suo valore perché nella ripetizione, che non è quella della pop o della riproducibilità ma della copia «asiatica», c'è il suo spessore culturale, la sua stessa indipendenza dalle logiche piramidali e gerarchiche che fanno tanto cultura suprema. La street culture sarà anche banale, ma di certo non è mai esattamene integrata.(2)

Globalizzazione, emergenza asiatica e relativa acquisizione di potere, riunificazione sotto il vasto termine street di quelle tendenze, dall'hippy al teddy, dal punk all'hip-hop maturate nell'ambito cittadino, per poi definirsi nel vasto calderone del fashion street style degli odierni e già demodé hipsters. La cultura di strada è un vasto insieme ribollente che si manifesta sostanzialmente in un continuo work in progress altamente creativo ma anche fortemente ripetitivo. Anche incomprensibile e riottoso, irriducibile all'etichettatura, proteso sempre a fornire distinguo che separino le differenze, sia pur minime. Ma che inequivocabilmente segnalano la complessa dipendenza di ogni singolo fenomeno legato alla cultura di strada dal contesto generico della metropoli contemporanea. Ma soprattutto: la velocità della crescita delle megalopoli, la discontinuità etnica e culturale al suo interno e la difficoltà a determinare i parametri guida per definire censo e aspettative di questa massa fa sì che l'aspetto estetico e culturale di questo linguaggio sottratto alle strade, accessibile a tutti, sia perfetto per veicolare i nuovi desideri e indirizzare verso nuovi e misurabili .consumi di massa. E questi consumi di un'era liquida, ma anche surrettizia, sono di certo legati ad una tradizione dell'oggetto, ma anche alla sua negazione, poiché i segni della cultura di strada si posizionano orizzontalmente, non conoscono «alto» e «basso» della cultura di potere, ma esistono in quanto elementi accessori e caratterizzanti della vita in un quotidiano vissuto.(3)

La strada si trasforma: qui non è più unione metaforica fra due e più differenti luoghi ma è contesto abitativo. La strada è la casa, l'ambiente che si riconosce come proprio. Alla recente New York Fashion Week 2015 si è molto discusso sul livello qualitativo della sfilata in «homeless style» realizzata dalla rap star Kanye West trasformatosi in stilista; ci si è interrogati anche sul fotografo fashion e modello Mark Reay, un volto molto noto che è stato costretto per sei anni alla vita homeless, ma che ha continuato a lavorare nel sistema della moda. Il tema della strada in ogni caso è preminente nel disegnare un contesto inequivocabilmente abitativo, esistenziale anche se arbitrario. Qui interessa sottolineare di come il soggetto strada sia considerato ambiente vitale, una sorta di casa diffusa, anche una non-casa in termini consuetamente borghesi, che è però possibile abitare e in cui sono rubricati alcuni valori tradizionali in nuovo ordine o anche disarticolati. Segno, contesto e senso coesistono in una linearità temporale che conosce e percepisce la sua stessa temporaneità. Per questo a volte si parla con una certa insistenza di street culture come di un elemento rivoluzionario. Il suo valore rivoluzionario è nella mancanza di aspettative di lunga gittata. La street culture vive il consumo veloce, non crede nell'immortalità.

Quando si parla di rivoluzione si potrebbe pensare alla Francia del 1789, o alla Cina e Cuba in tempi più recenti. Ma in realtà non è così. Infatti di quale rivoluzione parliamo? Forse possiamo dire che la cultura di strada sia rivoluzionaria perché parecchi, e anche fra i migliori, rappers sono rimasti uccisi da colpi d'arma da fuoco? O perché la moda homeless fatta di stracci colpisce a morte gli interessi delle multinazionali della moda? Sappiamo che non è così. I rapper erano violenti per loro natura, la moda homeless pretende che gli abiti siano perfettamente finto/poveri, così come negli anni sessanta si usava la tee-shirt fintamente sudata sotto le ascelle e che certo doveva essere più reale del reale.(4)

You Are Not Banksy, la serie ideata dal fotografo Nick Stern che ricrea con attori alcune scene rese famose dal celebre graffitista e street artist Banksy è indicativa. Questa operazione eleva le opere di street art destinate alla distruzione o al furto riportandole ad un linguaggio da galleria d'arte istituzionale, solidamente inserita nel sistema di mercato. Ma, e qui sta l'incongruenza, le opere di Banksy sono tutto fuorché opere d'arte misconosciute, semmai il contrario, sono talmente note da essere stampate sulle felpe dei ragazzi per strada, forniscono in qualche misura un coefficiente mercantile che è degno di un pop artista quale Warhol. Anche se l'opera di Banksy, ammesso che sia un artista o che invece sia un gruppo, venisse distrutta, ne rimarrebbe sicuramente l'aura in quanto documentazione e quindi elemento di copia e ripetizione, come un qualsiasi  multiplo d'arte. Ciò che si vuole sottolineare qui, in altri termini, è che l'opera di street art non collima esattamente con un gesto rivoluzionario e anche quando lo vuole essere, esigendo di sparire dal mercato, vi rientra suo malgrado sotto forma di gadget, di luogo turistico e di attrazione socio culturale. Diversamente dalla semplice tag di marcatura territoriale, che è più simile ad un gesto di vandalismo narcisista, la street art qualifica i luoghi in cui risiede e nella maggior parte dei casi con il sostegno immediato della cittadinanza e della politica. Le avventure di Banksy nella sua incursione newyorkese sono la testimonianza di come il potere politico sia tollerante nei confronti dell'opera di street art. Nella città che ha inventato la tolleranza zero l'artista di strada Banksy riesce a gabbare l'iper occhiuto sistema di sorveglianza marchiando in vari punti e non certo periferici, Manhattan. Fantascienza; lì non scappa nemmeno chi si accende una cicca nel posto sbagliato, figuriamoci un artista con assistenti, scale, apparecchiature e contenitori. La street art non è rivoluzionaria nel senso comunemente inteso, semmai è irriducibile, come lo sono le frange estremiste del tifo organizzato, al significato dell'immortalità dell'opera d'arte. La street art dichiara la sua rivoluzione ripetendo all'infinito il celebre, per noi, lavoro di Joseph Beuys: «la rivoluzione siamo noi». Ma è una rivoluzione anarcoide, individuale.

In ogni angolo delle città non è difficile trovare giovani armati di super macchine fotografiche passare a setaccio le zone marchiate dalla street art del momento per tradurne il significato nell'ostensione web, per una temporanea, almeno, durata del segno. In altro modo, l'evidente, spesso palese, attivismo socio-culturale insito nella street art, è destinato a trasformarsi quanto più questa operazione ha un suo coefficiente artistico, superando il gap del violento narcisismo di impronta territoriale tipico di alcune crew attive negli ambienti metropolitani. Tuttavia anche il ruolo di questa massiva copertura coloristica di ogni oggetto per sua natura pubblico riconduce al discorso appena accennato di una distorsione visivo emozionale che trasforma l'oggetto pubblico in oggetto riconoscibile, vitale, pulsante di vita e di conseguenza abitativo, arredo esistenziale di un modello di vita che ha il suo habitat essenziale fra le «quattro mura» della metropoli. Subentra così l'ansia opprensiva dei nuovi sistemi di mercificazione. Questi vedono nella crescente onda di frenetica urbanizzazione il nuovo modello di un possibile mercato culturale che vive l'orizzontalità dell'esistenza metropolitana non come una condanna ma come una risorsa. Le nuove frontiere della gentrification diffusa per l'uso delle nuove masse metropolitane, non producono merci da possedere ma situazioni da vivere. In qualche modo la street culture risponde al momentaneo e necessario bisogno del nuovo capitalismo massmediale di creare segni comuni in cui riconoscersi e servizi per adattarsi a nuovi modelli di consumo che non siano proiettati direttamente sul possesso di beni durevoli, come l'arte stessa. Quando si dice che la street art è rivoluzionaria non lo si può dire per via del suo messaggio sociale, che sebbene presente è sempre consequenziale all'impampabilità temporale dell'oggetto realizzato, sia esso una palizzata o una facciata di una abitazione. Chiunque veda il celebre murales di Haring a Pisa, ricoperto da una insulsa parete di plexiglass per poterne preservare l'identità, sa quanto difficile sia coniugare la natura della street art con la permanenza richiesta dall'arte. Diversamente il noto grande Houston Street Bowery Graffiti Mural Wall all'angolo della Bowery cui hanno partecipato molti artisti fra cui Kenny Sharf e Barry McGee, divenuto un cardine turistico dell'isolato, ha mantenuto un carattere temporaneo. L'opera di street art, così come tutta la cultura di strada ha bisogno del suo consumo veloce, ma anche della sua possibile variabilità, come la cancellazione continua del celebre murale alla Bowery. O anche la sua vandalizzazione come successo al lavoro di Shepard Fairey nel 2010 sempre all'angolo della Bowery e taggato la stessa notte della sua inaugurazione, probabilmente perché non era realizzato in tecnica prettamente graffitista. In qualche modo, non volutamente, la street art e la cultura di strada corrispondono così al bisogno essenziale del nuovo capitalismo di creare bisogni continui per poter fare dell'individuo massa, abitante lo spazio domestico della città, un consumatore di servizi che servano alla sua collocazione sociale. Non è un mistero per nessuno che anche l'ultimo degli homeless, il più disastrato fra i nuovi migranti non rinucerebbe mai al suo smart phone e ai suoi abbonamenti settimanali.

La folla di visitatori dal vivo e anche sul sito web del festival Outdoor in programma a Roma nel mese di ottobre 2015, giunto al suo quinto appuntamento e con una marcata propensione al gigantismo, è la conferma di una pressione mercantile esercitata nei confronti di un nuovo mercato che si prospetta denso di consumo. Sono parecchi anni che la cultura di strada viene studiata come possibile nuovo sbocco di nuovi vettori commerciali non più basati su prodotti industriali. Uno dei tratti più caratteristici della street cultura è infatti quella di rispondere ad una richiesta di individualizzazione della forma e del prodotto unitamente alla sua massificazione. Tom Wallace, Presidente di Label Networks, una società di ricerca sui nuovi scenari del consumo, ha recentemente dichiarato che gli obiettivi dei nuovi produttori devono riallinearsi alle richieste delle nuove generazioni e che queste stesse sono sempre più sganciate dal consumo industriale ma sempre più protese ad un gradiente sottoculturale specificamente espresso negli scenari urbani delle città più evolute. I risultati decretano che nella nascente richiesta di nuovi prodotti legati alla generazione dei millennials e anche maggiormente alla generazione che segue (secondo Howe e Strauss la generazione dei millennials termina nel 2005 con la homeland generation)(5), i fattori scatenanti la domanda sono sostanzialmente legati alla corrispondenza segnica con la cultura di strada, che diventa una sorta di linguaggio segnico comprensibile ai più anche senza aiuto di un traduttore. La cultura street quindi è diventata il veicolo attraverso cui le multinazionali di servizi e di nuovi bisogni stanno costruendo i nuovi scenari economici del prossimo futuro, con la complicità inconsapevole dell'arte.

 

1) Neil Howe; William Strauss, Millennials rising: the next great generation, Vintage Books, New York, 2000.

2) Jonathan Ilan, Understanding street culture: poverty, crime, youth and cool, Palgrave Macmillan, London - New York, NY, 2015.

3) Roger Gastman, Street world. Urban culture from five continents, Thames & Hudson, London, 2007.

4) Tom Wolfe, La baby aerodinamica kolor karamella, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1969

5) Neil Howe; William Strauss, op. cit.