www.unclosed.eu

arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Qualche ipotesi sull’opera d’arte totale nel terzo millennio

Brunella Velardi

Nell’epoca dell’Europa Unita, delle grandi ondate migratorie e dell’iperespansione dei network, si impone, in tutte le sue declinazioni, il tema dell’abbattimento delle barriere. Siano esse geopolitiche, architettoniche o ideologiche, sembra che la maggiore necessità dell’uomo negli anni Duemila, salvo qualche eccezione in controtendenza, sia proprio la loro distruzione. Se tracciamo una cronistoria di questo tema in ambito artistico, ci accorgiamo che non viaggia parallelo rispetto agli eventi degli ultimi anni, ma che in qualche modo ci parla della medesima necessità.

Com’è noto, il consapevole annullamento dei confini nell’arte e l’esplicito richiamo allo spettatore nelle opere, assieme all’uso congiunto dei diversi linguaggi artistici ha la sua origine con il Barocco, e «proprio in questo molteplice superamento di limiti sta il carattere identitario profondo del Barocco. L’obiettivo ultimo è quello di abbattere i confini tra lo spazio, fisico e psicologico, della realtà e lo spazio dell’arte»(1). Fin d’allora, dunque, il movimento è duplice, e coinvolge la «connessione multimediale di tutte le arti in un’unica opera d’arte, ma soprattutto un’altra connessione: quella fra l’arte e la realtà»(2).

Quel dispositivo di suggestione che nel Seicento era funzionale alla veicolazione dei valori controriformati e si descriveva in termini di “inganno”, ritornerà, due secoli e mezzo più tardi, con una connotazione prettamente filosofica, e verrà definito, con Wagner, Gesamtkunstwerk. Profondamente incardinata nella temperie filosofica tedesca da Schlegel a Nietzsche, tale nozione si pone come «rito celebrativo di affermazione della nuova religione antropocentrica», intesa come sistema di esaltazione dell’uomo in quanto essere sensibile, cioè intrinsecamente legato al suo corpo e dunque alla natura (3). La tensione verso l’opera d’arte totale avviata con il teatro wagneriano attraversa, qualche decennio dopo, anche le avanguardie storiche. Se per artisti come Kandinskij il luogo privilegiato della sua realizzazione è ancora nel teatro, per gli espressionisti essa si concretizza più specificamente nella scenografia. Non va comunque dimenticato che molti di quegli artisti che procedevano verso una fusione delle arti, furono coinvolti nell’esperienza del Bauhaus, le cui ricerche congiunte nei campi dell’arte, dell’architettura e del design si sarebbero tradotte in un’operazione a tutti gli effetti “sociale”(4); e che simili intenti muovevano in quei decenni anche movimenti come il Costruttivismo e il Neoplasticismo.

Sebbene sia caratteristica intrinseca del teatro, una riflessione più consapevole sulla dimensione temporale dell’esperienza estetica si ha nell’ambito della scultura, e ancor di più con quegli ibridi scultura-architettura sempre più frequenti dal Novecento a oggi. Nella critica al Minimalismo, Michael Fried, pur nella loro accezione negativa, mette in evidenza proprio i due aspetti che più ci interessano ai fini del nostro discorso, vale a dire il literarism, mediante il quale i minimalisti si rifanno al mondo delle cose facendo sconfinare l’estetica nella realtà, e la teatralità(5), che gioca proprio sulla durata della fruizione delle opere, «non più creazioni artistiche che si offrono alla pura contemplazione estetica, ma oggetti da percepire o addirittura veri spazi da percorrere»(6) Su questi elementi si basa la tesi di Rosalind Krauss, secondo la quale il coinvolgimento del fruitore nelle ricerche scultoree del secolo scorso diviene sempre più totalizzante, con il trasferimento di senso dall’oggetto artistico, alla sua epidermide, all’ambiente in cui è inserito, fino a concretizzarsi nella coscienza di chi lo esperisce (7). Pochi anni prima della diffusione del Minimalismo, nel Manifiesto Blanco ispirato da Lucio Fontana, si affermava: «L’uomo è esausto di forme pittoriche e scultoree […]. L’arte nuova prende i suoi elementi dalla natura. L’esistenza, la natura e la materia sono una perfetta unità. Si sviluppano nel tempo e nello spazio. Il cambiamento è la condizione essenziale dell’esistenza. Il movimento, la proprietà di evolversi e svilupparsi è la condizione base della materia. Questa esiste in movimento e in nessun’altra maniera. Il suo sviluppo è eterno. Il colore e il suono si trovano nella natura legati alla materia […]. Concepiamo la sintesi come una somma di elementi fisici: colore, suono, movimento, tempo, spazio, la quale integri una unità fisico-psichica. Colore, l’elemento dello spazio, suono, l’elemento del tempo, il movimento che si sviluppa nel tempo e nello spazio, sono le forme fondamentali dell’arte nuova […]. La nuova arte richiede la funzione di tutte le energie dell’uomo, nella creazione e nell’interpretazione. L’essere si manifesta integralmente, con la pienezza della sua vitalità» (8). In queste frasi emergono due aspetti fondamentali: l’aspirazione all’unione delle dimensioni e degli elementi dell’arte e una visione organica del mondo, luogo di integrazione dell’esperienza dello spirito e della materia, dell’oggetto e del movimento, come in un recupero dell’originaria elaborazione del concetto di gesamtkunstwerk.

Una riflessione sulla linea di ricerca organica contribuisce per certi versi all’analisi del nostro argomento, poiché attua un tipo di relazione con il fruitore che è forse il fine ultimo dell’opera d’arte totale. L’opera di Henry Moore, spaziando nella sua ricerca dalla scultura etrusca a quella africana, da quella protoellenica a quella maya, e riprendendo tra l'altro motivi cari alle prime avanguardie, arriva a coinvolgere il corpo non solo per la necessità spontanea che insorge nel fruitore invitato ad abbracciare visivamente la scultura camminandovi intorno, osservandone i risvolti, le prospettive, le metamorfosi; ma anche nel senso classico dell'einfuhlung, dell'instaurarsi di un rapporto di immedesimazione e riconoscimento tra individuo e opera stessa. Non è quindi un caso se dalla fine degli anni ’50 egli inizi a volgere l’interesse verso la scala monumentale, riconoscendovi una maggior capacità di relazione con il corpo umano (9). È ciò che avviene con alcune opere più recenti di Anish Kapoor, in cui quel rapporto si attiva attraverso le medesime modalità che entrano in gioco con Moore, con cui l'artista indiano si pone in diretta continuità (pensiamo in particolare a Leviathan). In quest’ottica, le dimensioni fisiche dell’opera assumono un’importanza fondamentale nel loro conformare ambienti abitabili, virando sulla totalità dell’opera in senso architettonico, come peraltro era già accaduto, ad esempio, con il Merzbau di Schwitters o con Le Jardin d’Hiver di Dubuffet e ne rappresentano cronologicamente l’ultimo esito, in questi mesi, le installazioni in situ di Daniel Buren al Madre (Comme un jeu d’enfant e Axer/Désaxer).

D’altra parte, se già con l'avvento della fotografia si vanificò l'impulso artistico mediato da una riproduzione fedele della realtà, oggi non possiamo ignorare il potere costruttivo-immaginifico delle nuove tecnologie multimediali, dai touchscreen alle realtà virtuali, che entrano a gamba tesa nel nostro spazio vitale ampliandone i confini.

In opere come quelle di William Kentridge e Studio Azzurro, che si caratterizzano per la multimedialità nel primo caso, unita all'uso delle nuove tecnologie digitali nel secondo, vi ritroviamo quella stessa, profonda ricerca sul genere umano (versione aggiornata di quella “religione antropocentrica” derivante dalla filosofia tedesca), che innerva le esperienze precedenti, intessendo un fil rouge che passa attraverso declinazioni diverse di gesamtkunstwerk, e concretizzandosi in un coinvolgimento globale tanto delle tecniche utilizzate quanto dei sensi chiamati in causa. Se prendiamo ad esempio un’opera come The Refusal of Time ciò appare quanto mai evidente. Le parole di Renato Barilli gettano luce proprio su questo aspetto del lavoro di Kentridge: «Scatta in lui un’invenzione di straordinaria portata, che consiste nell’”animare” quei suoi disegni, moltiplicandoli nelle sequenze di quelli che si dicono appunto i “cartoni animati”, i cartoons, e cioè egli dà movimento, cinesi, flusso temporale alle singole immagini che così si agitano[…]. In tal modo l’arte visiva si discosta dal suo “destino” spaziale, quale le aveva assegnato il Lessing, per investire il ruolo delle arti del tempo, del racconto. I cartoni animati di Kentridge sfidano i due mezzi tradizionali con cui l’arte del Novecento ha tentato la carta del movimento: il film a passo ridotto, e soprattutto nella misura massiccia che si è vista, il videotape. Ma contro la “mancanza di anima” che è propria di quei mezzi di racconto affidato a un filtro meccanico la via sperimentata da Kentridge è invece ricca di coefficienti artistici nel senso più pieno e anche, se si vuole, tradizionale della parola, il “fatto a mano” si prende una sua rivincita sul fatto a macchina» (10).

La sempre maggiore diffusione delle opere site-specific, dell'installazione monumentale e delle tecnologie multimediali, testimonia la necessità di ricreare ambienti immersivi e di sperimentare nuove modalità di costruzione e fruizione dello spazio. Al contempo, la diffusione del dialogo tra opera contemporanea e contenitore antico, che dagli anni '80 a oggi è divenuto quasi un cliché, sembra spingere la funzione dell'opera verso l’annullamento tanto della distanza temporale quanto dell'indiscussa autorità paterna che l'edificio storico inevitabilmente rappresenta, in un tentativo di ricucire la dimensione sensoriale con quella temporale.

Se una delle ragioni di un così frequente e spesso conflittuale dialogo tra opera e contenitore può essere rintracciata nel bisogno di sopperire al ruolo sempre più assente dell'architettura (11) - che in Europa aveva valicato i confini tra le arti l’ultima volta con Van de Velde  -, è però indubbio che la tecnologia va rapidamente verso lo sviluppo di realtà virtuali sempre più sofisticate e verosimili (basti pensare alla nascita del cinema 4D, che unisce la tecnologia 3D a effetti speciali fuori pellicola, dal movimento delle poltrone a diffusori di luci, odori, fumi e correnti d’aria), e l'arte si dimostra spesso in linea con la ricerca di un’immersività sempre maggiore. D'altra parte, ormai assuefatti all'immagine fotografica, all'immagine a colori, all'immagine in movimento,  visitatori e artisti contemporanei trovano un terreno di incontro assai più immediato nelle sfere della comunicazione corporea (per dirla con le parole di Kapoor: «Voglio che lo spettatore abbia una sorta di choc, estetico ma anche fisico […]. Memoria e corpo sono gli elementi che costituiscono il guardare la scultura» (12) e delle tecnologie digitali (videoproiezioni, touchscreen, 3D), mediante le quali si attuano al massimo grado la sintesi delle arti e il coinvolgimento multisensoriale.

Il lavoro portato avanti da Studio Azzurro va appunto in questa direzione, e ne sono prova gli allestimenti interattivi elaborati ad hoc per alcuni musei italiani.  La dimensione architettonica è sostituita da quella virtuale ottenuta mediante videoproiettori, mentre alla multisensorialità si unisce la possibilità/necessità di intervento da parte del visitatore: «Se la distinzione tradizionale delle arti avveniva in base ai sensi, ora l’arte tecnologica trascende tali categorie e parla trasversalmente i diversi linguaggi sensoriali, con l’opportunità di risensibilizzare un’umanità anestetizzata. […] La relazione non è più soltanto tra sensibilità reali, ma anche tra di esse e una nuova sensibilità virtuale» (13) .

Prendendo le distanze da un’arte «rinchiusa in se stessa, autoreferenziale» che «perde il contatto con quanto accade realmente sul territorio [e] fatica a cogliere i segnali di mutamento della società e a trovare sorgenti autentiche per nutrire il proprio immaginario», e che «non riesce a interpretare ed esprimere efficacemente la mutazione antropologica in atto nelle società contemporanee» (14), la commistione di linguaggi, insieme alle ricerche improntate alla riformulazione di nuovi spazi di fruizione, si configura allora non solo come naturale trasformazione delle modalità di espressione artistica, ma anche, forse, come aspirazione alla costruzione di un mondo “organico”, in cui l’uomo, con il proprio corpo e il proprio pensiero, possa trovare quel giaciglio che l’evoluzione ha negato essere nella natura.

1) T. Montanari, Il Barocco, Einaudi, 2012, p. 17.

2) O. Marquard, Opera d’arte totale e sistema dell’identità. Riflessioni a partire dalla critica di Hegel a Schelling, in Estetica e Anestetica, Il Mulino, 1994, p. 195.

3) Cfr. E. Sambroia, Gesamtkunstwerk, in Op.Cit., n. 101, 1998, pp. 10-11.

4) «Gli artisti del Blaue Reiter […]avvertono, come risulta dagli articoli dell'almanacco, l'assurdità dell' ‛arte da museo' e del ‛quadro da parete' nella società contemporanea. La soluzione che essi offrono è, per il momento, più teorica che effettiva; effettiva in parte diventerà conil lavorodidattico di Kandinskij e Klee al Bauhaus e con la relazione istituita tra la ricerca figurativa, la funzionalità architettonica e la strutturalità del design. La soluzione per ora consiste nel recupero di un' ‛arte monumentale', di una Gesamtkunstwerk che è aspirazione alla sintesi di tutte le arti e all'identificazione di arte e vita in un atteggiamento estetico integrale. Qui vanno tenute presenti almeno due radici: la coralità e l'aspirazione al trascendente dell'arte medievale (ossia il ‛mito della cattedrale' come sintesi delle arti, ripreso nell'architettura espressionista e nel programma del Bauhaus), e la Gesamtkunstwerk wagneriana», J. Nigro Covre, Espressionismo, voce in Enciclopedia del Novecento, Treccani, 1977.

5) Cfr. M. Fried, Art and Objecthood, in Artforum, 1967.

6) A. Nigro, Estetica della riduzione. Il Minimalismo dalla prospettiva critica all’opera, Cleup, 2003, p. 33.

7)  Cfr. R. Krauss, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art, Bruno Mondadori, 1998.

8) L. Fontana et. al., Manifiesto Blanco, 1946, in Lucio Fontana. Catalogo generale, Electa, 1986.

9) Cfr. Henry Moore. Late large forms, catalogo della mostra tenuta a Londra, Gagosian Gallery, 31 maggio – 18 agosto 2012.

10) R. Barilli, Prima e dopo il 2000, 2006, pp. 198-199.

11) La questione veniva già sollevata negli anni ’50 da Lucio Fontana, che imputava agli architetti la responsabilità di essere «solo occupati in un problema funzionale e non umano […]. L’architetto può creare e creerà la nuova architettura solo abbinato con artisti che […] aspettano che alla rivoluzione dell’architettura provocata dal cemento sia abbinata la funzione d’arte spaziale dell’artista contemporaneo. La fusione di artisti e architetti nel problema architettura spazio, architettura luce, porterà al Partenone dell’arte contemporanea, architettura spaziale». L. Fontana, Perché sono spaziale, 1952, cit. in  A. Zevi, Peripezie del dopoguerra nell’arte italiana, Einaudi, 2006, p. 10.

12) A. Kapoor a proposito di Leviathan, Monumenta 2011, Parigi, Grand Palais 11 maggio – 23 giugno 2011, in http://anishkapoor.com/768/Leviathan.html.

13) A. Balzola, P. Rosa, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, Feltrinelli, 2011, pp. 60-62. Riportiamo alcuni passi successivi del volume: «[…] nella dimensione dell’interattività abbiamo sostituito tutta la parte del display televisivo con le videoproiezioni. Le videoproiezioni si sovrappongono al mondo reale, prendono le sembianze del reale, non hanno più un limite geometrico prefissato e acquistano una diversa dimensione compositiva. Finalmente ho avuto la sensazione di liberarmi dall’oppressione di un’estetica legata ancora alla forma», e ancora «[…] la produzione artistica diventa l’embrione di un’estetica nuova, che si sposta più sul lato performativo, dove quindi risulta centrale la teatralità, che trova il suo fulcro nel momento relazionale» (pp. 101, 105).

14) Ibidem, p. 167.