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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

L'arte contemporanea strangolata dalla finanza

Domenico Scudero

In un articolo recentemente pubblicato su e-flux Stefan Heidenreich si sofferma sui significati del freeport come modello simbolico per la comprensione dell'arte attuale (1).

Fenomeno complesso, quello del freeport, e non recente, ma che solo di recente, grazie anche ad alcuni scandali e affari ancora sotto indagini processuali, ha interessato pittosto l'informazione stampa generalista che non il sistema dell'arte direttamente coinvolto.

Il Genève Freeport, il più celebre, è un blocco territoriale al di fuori della giurisdizione elvetica, privo di obblighi doganali. Già da più di cento anni assolve il compito di gestire merci in transito e non soggette ad alcuna tassazione. Tuttavia in anni più recenti con la costruzione dell'aeroporto internazionale il Genève Freeport è diventato una sorta di lobby internazionale in cui poter parcheggiare beni mobili e preziosi con il privilegio di poterne nascondere la natura e il valore evitandone la tassazione. Sebbene il Genève Freeport sia nato sostanzialmente per merci di passaggio è diventato negli anni un porto franco in cui sono stivati preziosi e opere d'arte con una densità talmente alta da impensierire persino le grandi compagnie assicurative. Inoltre, dagli anni ottanta in poi si è assistito ad un radicale cambio nell'ordine dei materiali preziosi e con una sempre maggiore presenza di opere d'arte finanziate con denaro in nero proveniente dai cartelli della droga sudamericani, come pubblicato dall'Economist (2). Oggi si dice, sebbene il fatto non possa essere corroborato da dati attendibili, che l'attuale blocco di edifici del freeport svizzero, pari a circa lo spazio di 22 campi di calcio, contenga migliaia di opere e abbia un'assunzione di valore pari a quello di un qualsiasi museo nazionale. La sua importanza è ritenuta strategica per l'economia e il suo modello è stato esportato in varie altre sedi nel mondo dove sono molti i freeport in costruzione o da poco terminati, dalla Cina a Singapore sino agli USA.

Uno degli eventi maggiormente indagati dalla cronaca dei nostri giorni è il caso legale, denuncia, arresto e successivo rilascio, di uno dei protagonisti e proprietario di radicati interessi nel mondo del freeportismo internazionale; Yves Bouvier, opposto al magnate miliardario russo Dmitrij Evgen’evic Rybolovlev. Quest'ultimo, dopo aver per anni collezionato opere d'arte di enorme valore grazie alle mediazioni di Bouvier lo ha denunciato accusandolo di aver gonfiato a dismisura le transazioni e di aver lucrato sulle vendite fino alla iperbolica somma di cento milioni di dollari in un'unica transazione per un Rothko, che tuttavia il magnate russo non ha mai pagato (3). A seguito di questa denuncia e di un successivo fatto di cronaca che vede un importante gallerista inglese accusato di traffico internazionale di opere d'archeologia, alcune di queste frutto di furti su richiesta, il provvido e oscuro mondo dei freeport è stato illuminato dal fascio di luce dell'informazione globale (4).

Tralasciando la cronaca, la quale in ogni caso induce ad alcune complesse analisi circa la reale consistenza di questo apice oscuro del sistema dell'arte e del suo mercato, va detto che il sistema del freeport è fortemente simbolico.

In primo luogo palesa la volontà di provvedere alla persistenza di alcuni capolavori d'arte, dall'antichità al contemporaneo. Questa clinica attenzione alla conservazione non corrisponde allo scopo tradizionale dell'opera d'arte. Sebbene le sale siano standardizzate nei sistemi di climatizzazione, alcune addirittura al sicuro da cataclismi impensabili per l'uomo comune, la possibile eternizzazione dei singoli lavori posti in questa infinita quarantena non prevede il «corrompimento» della fruizione. Dalle immagini che abbiamo possiamo dedurre che gli spazi del freeport siano allestiti come i caveaux dei grandi musei, ma con la differenza che nel freeport sono soltanto i mediatori, oltre che i responsabili dello spazio, a poter visionare e spostare eventualmente i lavori d'arte. Piuttosto che luoghi in cui conservare e preservare l'arte, il freeport ricorda un cronicario, una clinica sotto atmosfera iperbarica atta al mantenimento di casi comatosi irreversibili, simile ad alcuni incubi cinematografici tipo Matrix. Non esistendo né un catalogo, né un elenco, non essendoci alcuna possibilità di conoscere i proprietari dei singoli box e del loro contenuto, il freeport è esattamente l'opposto di una galleria d'arte ed è molto più inerente ad un moderno gulag clinico, in cui, ovviamente la sostanza comatosa è proprio quella dell'arte. I quadri e le installazioni, gli oggetti e i documenti sono proposti al pubblico per un'eventuale vendita solo in trattative private, di cui si sconosce alcun dettaglio. Se la galleria è un luogo aperto al pubblico il freeport è negato a questo. Se lo scopo di un lavoro d'arte è quello di manifestare contenuti e significati nel freeport il significato e il contenuto dell'opera sono ripiegati e sepolti nel buio della contrattazione economica al chiuso dell'ambiente iperbarico.

Il simbolo di prestigio e di sicurezza economica, così come descritto da Packard nei suoi «persuasori occulti», o persino quegli stessi strumenti che permettono l'accesso ad un mondo simbolicamente privilegiato, devono essere maneggiati strumentalmente con molta cura, ma evitando che lo si sappia. In qualche modo devono obbligatoriamente essere celati all'analisi e allo sguardo del mondo per poter assurgere definitivamente a simbolo, quindi astratto, invisibile (5).

Che l'arte sia diventata attraverso il freeport - o freeportismo come scrive Stefan Heidenreich (6) - un oggetto alienato dalla percezione comune è fatto sintomatico ma anche paradossale. E di questo paradosso gli artisti sono o non sono consapevoli? Ci si potrebbe senz'altro chiedere che la partecipazione di artisti viventi a situazioni che degenerino nei sordidi luoghi del freeport debba moralmente terminare anche in seguito al loro specifico intervento, tuttavia sarebbe come definire il solco, la trincea, che separa un'azione artistica votata al bene da un'altra che appare inequivocabilmente protesa al male. Nulla di tanto manicheo e moralistico può essere realistico, ma di sicuro quando un artista si accorge che la sua opera, i suoi lavori, sono cementificati all'interno di un gulag detto freeport qualche domanda è supponibile debba formularsela. La prima: se l'opera è diventata merce simbolica e come tale non ha nessuna necessità di esporre il suo significante (forma), poiché chi detiene il suo significato (valore) è di fatto interessato solo a questo, che importanza ha la reale consistenza della sua natura? La seconda: se la forma reale dell'opera, diventata invisibile per via dell'avvenuta museificazione finanziaria del suo significato, non può essere vista, che importanza ha che sia effettivamente custodita in un cronicario? Di fatto, nel momento in cui un'opera d'arte contemporanea entra nel paradosso del circuito del freeport potrebbe venire distrutta e assumere così le sembianze ideali d'essere solo significato, ovvero solo valore economico. La differenza fra chi distrugge materialmente un'opera da chi la cela nell'oscurità per sempre non è molto diversa. Il collezionista di tradizione avanguardista, persino il collezionista di opere provenienti dal mercato nero, ammirava l'oggetto e sebbene di questo apprezzava enormemente il valore economico era un appassionato della realtà dell'opera. Il nuovo collezionista si appropria dell'oggetto per farlo sparire anche dal suo sguardo e al suo posto ammira e idolatra il suo unicum monetario, ovvero il suo significato economico. Al di là dell'oggetto che fa da garanzia, il nuovo collezionismo finanziario del trading online e dei bitcoin apprezza di un'opera solo lo sfarfallio luminoso dei suoi indici di incremento valutario. (7)

La leggenda del sistema dell'arte come un porto franco ha oggi una parabola in più per poter provvedere alla sua oscura luce. Soltanto non è esattamente quello che si intendeva solo pochi anni addietro. In particolare nei primi anni di questo XXI secolo si è spesso parlato di come il sistema dell'arte favorisse la crescita culturale attraverso la sua esibita partecipazione alla società, ma in una posizione privilegiata, quella appunto d'essere una zona franca. Nel dettaglio appare esemplare l'arte espressa da quella stupefacente fucina di eventi e situazioni che è stata la scena cubana dei primi anni dieci che ha proposto una visione dell'arte come luogo privilegiato in cui discutere i contenuti socio economici. A questo enorme cantiere hanno partecipato svariati attori del nostro attuale contemporaneo. A Cuba si chiamava ed è tuttora attivo Zona Franca uno dei principali collettivi che il regime cubano maggiormente osteggiava; nel 2015 si è inaugurata una mostra collaterale alla Biennale di Cuba proprio col titolo di Zona Franca nella sede della Fortaleza de San Carlos de la Cabaña, all'Avana. Se ne è interessata anche «Granma», la rivista ufficiale del regime politico. (8)

Inesorabilmente però dal sistema aperto proposto da Hito Steyerl (9) o dalle considerazioni della celebre blogger anticastrista Yoani Sanchez che indaga sui significati dalla Zona Franca, si è passati alle cronache del New York Times di David Segal, alle inchieste della BBC, e le domande di Simon Bradley su Swissinfo in cui ci si chiede cosa significhi realmente la costruzione di una zona franca facendola coincidere con quei luoghi in cui stoccare la ricchezza, nasconderla e seppellirla come a manifestare qualcosa di perennemente losco (10). In qualche modo possiamo dire che aver assunto la finanza a valore guida dell'arte contemporanea ha significato trasformare l'arte in una zona franca, un luogo finanziariamente proficuo, assolutamente avulso e volutamente distante dal mondo reale dove poter sguazzare negli intrighi internazionali senza dover rendere conto a nessuno. La zona franca piuttosto che la cultura critica della politica e del dissenso attraverso l'arte è oggi, letteralmente, il freeport, lì dove il più complesso segno viene corrotto a tal punto dalla luce perversa della speculazione che l'opera non è più nemmeno se stessa ma diventa un numero in perenne crescita. Le teorie di un recente passato sulla costituzione di un'arte che manifestasse il circoscritto e residuale recinto magico delle libertà è stato occupato dalla spavalda bravura della speculazione del libero mercato. Dalla zona franca culturale al freeport speculativo è stato un breve balzo alchemico, sostanziale e dirompente, della serie: come trasformare sterco in diamanti o viceversa.

La sensazione che nell'arte contemporanea si fosse concentrato un insistente nugulo di interessi criminali è cosa abbastanza nota agli addetti ai lavori, soprattutto a coloro che questo lavoro lo svolgono nella legalità e nella consapevolezza culturale. La pressante presenza di capitali provenienti dall'illecito è però in qualche modo sopportata dai maggiori protagonisti del contemporaneo poiché in questa illegalità finanziaria si ravvede un residuo bohémien e una possibilità ulteriore dell'artista a mantenersi in vita senza cedere ai ricatti di una società standardizzata. La romanticheria dell'esistenza estranea ai dettami del sistema, ma passibile dei lussi contemporanei, suscita in qualche modo fascino e palese ammirazione. Se anche tutto ciò è vero è anche lecito chiedersi quanto influisca una presenza finanziaria così pressante e oscura nel sistema pubblico dell'arte contemporanea e quanto questo possa influire sulla visibilità e l'interpretazione dell'opera. D'altra parte, è altresì consuetudine dell'artista manifestare una volontà ferrea nel controllare passato e futuro dei suoi lavori e possibile interpretazione, anche se non risulta che gli stessi artisti abbiano la forza di poter opporsi ad una transazione in nero. In qualche modo l'interesse privato dell'artista prevede che si prevarichino le regole solo in virtù della conservazione protetta del lavoro d'arte e non in funzione della resa pubblica e politica di questo, anche se frutto di un programma che prevede l'impegno sociale e la complessità politica. Ecco dunque la perfezione del freeportismo, un'arte conservata per l'eternità, ma invisibile(11). In altri termini, l'artista è costretto dalle necessità dell'esistenza, come avrebbe detto Kundera, a diventare il miglior alleato dei suoi nemici, poiché coloro che lo finanziano sono gli stessi che gli negano la possibilità che il suo lavoro sia funzionale allo scopo prefissato, ma si accontenta perché sebbene nascosta la sua opera è eternizzata, forse soltanto un tantino mummificata. Ci si può dilungare sull'effettivo ruolo (nessuno) che gli artisti, e quali artisti, hanno o non hanno in questo gioco di privilegi. Ci si può interrogare sui perché supremazia finanziaria e culturale nate da interessi illegali e ipocritamente invitate al convivio dell'arte abbiano finito per dettare legge, ma qui basti ricordare quanto e come a lungo gli artisti abbiano pensato all'idea che l'azione artistica fosse il luogo stesso dell'agire, la zona franca, e di come questa sia divenuta invece il porto franco degli affari illeciti (12). Gli stessi artisti, beneficiati dal successo hanno forse dimenticato che anche loro prima di diventare «simboli» da dieci milioni a opera hanno dovuto attraversare la realtà del sistema dell'arte il cui spessore era stratificato in gallerie, critici, pubblico e che grazie a queste stratificazioni è stato possibile che questi pochi, adesso, possano arrogantemente arroccarsi nel loro empireo.

Ma non è tutto, ovvero le forze in campo non sono soltanto quelle di una finanza estremizzata dalla vacuità reale dell'oggetto garante. Come ha scritto recentemente Piroschka Dossi su «artnet» ciò cui stiamo assistendo in questi turbinosi anni di trasformazione è l'evolversi del sistema dell'arte da un contesto di pochi virtuosi amanti dell'arte ad un ampio ed espanso sistema globale dalle caratteristiche postindustriali. Il sistema economico dell'arte non è infatti quello scaturito dall'epoca dell'avanguardia e che in qualche misura ha continuato ad essere luogo di riferimento privilegiato per uno sparuto, internazionalmente, numero di collezionisti. La situazione è totalmente cambiata in particolare dal momento in cui è stato possibile realizzare la trasformazione del vecchio collezionismo in mercato finanziario in cui l'elemento speculativo non è prettamente accessorio ma necessario; e la sostanza denaro, per quanto volubile, ha determinato un nuovo modello di relazione fra «collezionionista» e sistema creativo, fra sostanza finanziaria e materia creativa. Tutto ciò determina e determinerà sempre più l'aderenza dell'andamento del mercato agli standard degli indici telematici, con picchi storici e cadute paradossali (13).

Le domande poste in essere da un simile post-collezionismo non interessano più il contesto culturale o la presunta validità dell'opera d'arte, ineriscono piuttosto il tipo di produzione di un artista, la risposta e la velocità di acquisizione di valore nelle indagini del mercato. Diversamente dal collezionista ispirato, modernista, il nuovo collezionista altermoderno, come lo definirebbe Bourriaud, proteso alla celebrazione del presente sotto forma di indici d'incremento valutativo, non ha alcun interesse reale nell'oggetto comperato. Questo collezionismo conduce esclusivamente ad un luogo concreto in cui poter fissare un valore dato da convenzioni esterne al sistema culturale. Manifesta la nuova cultura.2, definita dalla quantità di materia economica virtuale che può essere collocata all'interno di un singolo oggetto, null'altro. Questo collezionismo finanziario era già in nuce nelle prime operazioni realizzate da trust e multinazionali che avevano eletto l'arte ad oggetto di rappresentanza. Ma adesso il mondo dell'arte è diventato anche luogo privilegiato e crocevia di interessi «Deep Web» e scambi illegali, transazioni possibili all'interno delle zone franche del freeport. Le recenti rivelazioni su Panama Papers, dovute alla fuoriuscita di documenti dallo studio legale Mossack e Fonseca di Panama, illustrano cosa succede all'interno di una delle più grandi fabbriche di società offshore del mondo e quali mondi nasconda. Qui, in questi luoghi anonimi, o come riferisce un reportage de «la Repubblica», mete turistiche prive di alcuna qualità, fra architetture sgretolate e povertà, il flusso invisibile dei soldi si inabissa nei gorghi incomprensibili del nostro contemporaneo. Non è questa una descrizione del Deep Web?(14)

La possibile economia di mercato come principio a cui ascrivere il sistema dell'arte direttamente interessato è certamente uno dei modelli interpretativi su cui anche i più interessanti critici del presente insistono; ne accennano Bourriaud nel suo Il Radicante, Boris Groys in Art Power. Entrambi parlano di un esito non scontato del postmoderno ma accettano di far parte di un contesto in cui i sistemi significanti producono significato che potrebbe essere frainteso e di conseguenza rimane nascosto all'interno di quella idiosincrasia che è la supremazia linguistica dell'inglese, la zona franca linguistica. Entrambi estranei a questa lingua franca del nostro presente non raggiungono l'equazione totalizzante che segnala l'affermarsi di un mercato virtuale, il trade online che garantisce il valore, e che determina i due principi vincolanti per la cultura artistica: la zona franca disegnata dal linguaggio, l'inglese che svilisce le differenze, e la sua inequivocabile traduzione sotto forma di coefficiente d'incremento finanziario. L'arte è così la merce simbolica e per contiguità identificativa, il sistema di mercato del mondo dell'arte, se vogliamo continuare a chiamarlo così, è l'exemplum rilevante del turbo capitalismo digitale (15).

Il sistema dell'arte, infatti, come rilevato dagli economisti, da Marx in poi, assume un comportamento monopolista con discriminazione dei prezzi derivato dal desiderio e dal potere d'acquisto. Tuttavia a questa concezione, che poteva andar bene per la situazione degli anni settanta e ottanta, se ne sovrappone oggi una ulteriormente complicata dall'alienazione visiva dell'opera, la sua pretestuosa «non pubblicabilità» e visibilità d'incanto, un'immagine vissuta solo come eco: un valore allusivo determinato dall'essere oggetto simbolico di una supremazia linguistico economica che non ha bisogno di essere vista, osservata, e percepisce semmai l'inalienabile persistenza del suo potere proprio in virtù del suo nascondersi agli occhi della moltitudine massa (16).

Se a tutto questo sommiamo la palese veridicità di un sistema dell'arte che procede a singulti, in cui flussi enormi di capitali sembrano piovere inspiegabilmente e allo stesso modo spariscono (17), ci si può realmente domandare se è arte ciò di cui stiamo parlando o di qualcosa che fa parte di un altro mondo, un mondo che non riguarda coloro che l'arte la vivono, la fanno e la studiano. E inoltre ci si può chiedere se questo sistema di collezionismo finanziario non sia esattamente ciò che sta uccidendo l'arte e la sua creazione come le conoscevamo, o che questi siano i segni inequivocabili di un mondo che sta gestendo la creazione di un'arte.2 e che quest'arte.2 non avrà più bisogno di critica e cataloghi «chiacchiere e distintivo», di atti d'autentica e fotografie, ma soltanto di un wallet digitale su cui registrare il valore in bit coin. Senza alcuna tracciabilità, s'intende.

2016 04 11

1 - Stefan Heidenreich, «Freeportism as Style and Ideology: Post-Internet and Speculative Realism» , Part I, e-flux # 71, 03 2016

[http://www.e-flux.com/journal/freeportism-as-style-and-ideology-part-i-post-internet-and-speculative-realism/]

2 - The Economist, 2013.

[http://www.economist.com/news/briefing/21590353-ever-more-wealth-being-parked-fancy-storage-facilities-some-customers-they-are]

3 - Sam Knight, «The Bouvier Affair», The New Yorker, 2016/02/08

[http://www.newyorker.com/magazine/2016/02/08/the-bouvier-affair]

- John Letzing and Max Colchester, «Oligarchs and Orchestras: Inside Luxembourg’s Secretive Low-Tax ‘Fortress of Art’ Warehouse», Wall Street Journal, Sept. 23, 2015

[http://www.wsj.com/articles/art-dealers-woes-put-scrutiny-on-high-end-storage-facility-1442857233]

4 - Nick Squires, «Disgraced British art dealer's priceless treasure trove

discovered hidden in Geneva», The Telegraph, 01 02 2016.

[http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/switzerland/12134541/Disgraced-British-art-dealers-priceless-treasure-trove-discovered-hidden-in-Geneva.html]

- Lorena Muñoz-Alonso, «Trove of Looted Antiquities Belonging to Disgraced Dealer Robin Symes Found in Geneva Freeport», artnet, 2 feb 2016

[https://news.artnet.com/art-world/trove-looted-antiquities-belonging-disgraced-dealer-robin-symes-found-geneva-freeport-418157]

5- Vance Packard, I persuasori occulti, 1989 Einaudi Torino (ed. or. The Hidden Persuaders, McKey, New York, 1958)

6 - Stefan Heidenreich, op. cit.

7 - Giovanni Benedetto, Flavio Miglioli, Trading online, Il Sole 24 ORE, Milano, 2000.

7 - Adam Lindemann, Collecting Contemporary, Taschen, Koln, 2006.

8 -Virginia Alberdi Benítez, «Zona franca para el arte cubano», Granma, 21 de mayo de 2015

[http://www.granma.cu/bienal-de-la-habana-2015/2015-05-21/zona-franca-para-el-arte-cubano]

- Zona Franca - XII Bienal de la Habana, 2015

- «Pushing the Limits: Yoani Sanchez Interviews Omni Zona Franca», April 17, 2012

[http://translatingcuba.com/pushing-the-limits-yoani-sanchez-interviews-omni-zona-franca/]

9 -Hito Steyerl, «Duty-Free Art», e-flux #63, 03 2015

[http://www.e-flux.com/journal/duty-free-art/]

10 - David Segal, «Swiss Freeports Are Home for a Growing Treasury of Art", New York Times, 2012/07/02

[http://www.nytimes.com/2012/07/22/business/swiss-freeports-are-home-for-a-growing-treasury-of-art.html]

- Imogen Foulkes, «Geneva's art storage boom in uncertain times», BBC, 02/01/2013

[http://www.bbc.com/news/world-europe-20696126]

- Simon Bradley, The discreet bunkers of the super-rich

[http://www.swissinfo.ch/eng/the-discreet-bunkers-of-the-super-rich/40474208]

11 - Adam Lindemann, op.cit.

12 - Franco Broccardi, «Porti franchi e mani libere. L’arte ai confini della legge" Artribune, 22 novembre 2015

[http://www.artribune.com/2015/11/porti-franchi-arte-legge/]

13 - Piroschka Dossi, «Speed! Money and the Global Marke"t, artnet, Feb. 24, 2012

[http://www.artnet.com/magazineus/features/dossi/money-and-the-global-art-market-5-29-12.asp]

14 - Michele Snargiassi, «Due Fotografi in paradiso fiscale», La Repubblica, Roma, Domenica 10/04/2016, pag 34.

15 - Nicolas Bourriaud, Il Radicante. Per una estetica della globalizzazione, trad. it. Postmedia, Milano, 2014 (Radicant: pour une estétique de la globalisation, 2009); si veda il capitolo «Transfert», in cui si evoca il passaggio, la traduzione come modello esistenziale. Boris Groys, Art Power, trad. it. Postmedia, Milano 2012 (Art Power, The Mit Press, 2008). A pag. 170 Groys sottolinea le implicazioni della globalizzazione sostenendo che a ben vedere l'unico anello codificato di questa è il mercato.

16- Karl Marx, «La merce», Il Capitale, vol I, cap I (1867) ed. it. Utet, Torino, 1974.

17 - Tefaf, nov 2015

[http://www.tefaf.com/DesktopDefault.aspx?tabid=15&pressrelease=16959&presslanguage]

Il valore globale del mercato dell'arte ha raggiunto un suo record nel 2015, con 51 miliardi di euro, secondo il report di Tefaf, European Fine Art Foundation, che monitora le maggiori fiere d'arte europee. Nel 2016 si sta assistendo ad una contrazione, ma gli analisti sono concordi nel sostenere che i valori riportati non sono conclusivi poiché persiste un'ampia zona d'ombra.