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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Nuove direzioni fra scienza e arte

Valentina Vacca

Nel corso del tempo –e non solo in epoca contemporanea-, la relazione fra arte e scienza è stata al centro di numerosi dibattiti, nonché oggetto d’indagine da parte di un considerevole gruppo di artisti. Ad emergere in maniera più o meno assidua è la presenza, fra questi due territori apparentemente disgiunti, di un legame viscerale, il quale risulta utile per presagire l’esistenza di una linea di congiunzione limitrofa e attigua fra loro. Comune denominatore fra queste due discipline, è difatti la capacità di indagare nel profondo gli aspetti non superficiali del mondo e della società, stabilendo spesso dei confini labili che vanno a definire i caratteri necessari per la narrazione di tematiche attuali di grande complessità.

All’interno di tale discorso, articolatosi in quella che può essere definita come costellazione arte-scienza, si delinea il tentativo di descrivere una problematica più che mai attuale, la quale costituisce concretamente una delle principali sfide del XXI secolo: quella del cambiamento climatico. Difatti la preoccupazione dell’Europa rispetto a tale problematica, è notevole ormai da diversi anni, e negli ultimi tempi essa si è preoccupata di trovare delle soluzioni risolutive o quantomeno migliorative, rispetto a quella che può essere senza dubbio appellata come una delle più grosse emergenze dell’ultimo secolo. Sono state difatti messe in moto diverse misure, atte non solo ad indagare l’entità effettiva dei danni causati dal cambiamento climatico, ma pure orientate verso una qualsivoglia riduzione degli stessi. Incontri fra esperti con competenze trasversali, organizzazione di campagne informative di sensibilizzazione dei cittadini, educazione nelle scuole e nelle università, sono solo alcune fra le iniziative adottate dalla Commissione Europea per combattere il problema del cambio climatico.

La concretizzazione dei risultati scaturiti da questo gruppo di interventi, si è poi avuta dal 30 novembre al 12 dicembre 2015, quando Parigi –ancora ferita in profondità dai drammatici attentati del 13 novembre-, ha ospitato la Conferenza delle parti dell’UNFCC sui cambiamenti climatici. L’esito di COP21 ha costituito un passo di fondamentale importanza rispetto alla problematica climatica, giacché ha permesso di sancire un rilevante accordo fra i paesi partecipanti: in particolare, è stato stabilito l’impegno da parte di questi ultimi a ridurre le emissioni di gas serra, ai fini di un abbassamento di circa due gradi del riscaldamento globale. Un impegno importante ed essenziale per la vita del nostro pianeta, il cui buon esito però, dipende non solo dal progredire della scienza ma anche dalle iniziative che vengono attuate in merito all’educazione dei cittadini.

La sfida del cambiamento climatico del resto, abbracciando per l’appunto non solo la scienza e la tecnologia ma anche l’economia, e toccando in toto la società contemporanea, è diventata anche una questione sulla quale poter definire e tracciare i caratteri di una vera e propria identità globale. Come tale pertanto, è facile immaginare come un cospicuo numero di artisti contemporanei abbia avuto interesse nel modellare le proprie ricerche proprio su questo tema. Del resto, se riavvolgiamo il nastro che registra impeccabilmente gli ultimi sessant’anni della storia dell’arte mondiale, arriviamo a comprendere come in realtà, fin dalla fine degli anni Cinquanta, il problema ambientale sia stato al centro di numerose tendenze artistiche. Esso è divenuto poi nodale e cruciale per gli orizzonti della contemporaneità specialmente a partire dagli anni Sessanta quando, sulla scena artistica, hanno iniziato ad affacciarsi nuove direzioni rispondenti ai nomi di Land Art, Environmental Art, Ecological Art. Ad ogni modo, entro quelle che sono state le traiettorie di ciò che potremmo definire sinteticamente col nome di Arte Ambientale, si evidenzia come il principale interesse degli artisti coinvolti sia stato l’esame del rapporto tra gli esseri umani e la natura stessa. Tale sistematico approccio lo riscontriamo pure in molte poetiche artistiche degli anni Ottanta, in particolar modo in quelle di Joseph Beuys; è noto infatti com’egli, nei suoi lavori, abbia spesso messo in luce proprio il rapporto conflittuale fra natura ed essere umano, dettando come priorità quella di risanare e ricucire tale complicata relazione.

Durante gli anni Novanta assistiamo invece al sorgere di una sorta di dicotomia artistica: accanto infatti a ricerche che mettono in risalto il rapporto fra esseri umani e ambiente, trovano spazio quelle finalizzate ad aumentare la consapevolezza dei rischi che il pianeta sta correndo. Se prima quindi gli artisti cercavano soprattutto di comprendere che tipo di relazione si potesse instaurare fra loro e la natura, durante gli anni Novanta essi provano invece empatia per il pianeta malato, preoccupandosi in maniera quasi maniacale dei rischi ambientali, del continuo sorgere di catastrofi naturali ed eventi traumatici per il pianeta e, di conseguenza, pure del futuro dell’uomo.

Questa tendenza, che può essere considerata come un ramo figlio dell’Environmental Art, esplora il legame tra arte e fenomeni attuali. Questi ultimi trovano la loro identità nelle energie rinnovabili, nelle pratiche di riciclo e, non da ultimo, nel problema del cambiamento climatico.

Negli ultimi dieci anni, tale orientamento legato alle tematiche ambientali è stato portato alla luce da numerose mostre. Fra queste, possiamo citare Covention. Current art to transform ecologies tenutasi nel 2002 al Contemporary Arts Center of Cincinnati; Beyond Green. Toward a sustainable art, organizzata nel 2005 allo Smart Museum of Art dell’ Università di Chicago; Weather report: Art and Climate Change, al Museum of Contemporary Art di Boulder (USA) nel 2007; Green Platform. Arte / Ecologia / Sostenibilità, al Centro di Cultura Contemporanea Palazzo Strozzi di Firenze nel 2009; Radical Nature. Art and Architecture for a Changing Planet 1969-2009, al Barbican Art Gallery di Londra e infine ReThink –la più interessante e corposa fra queste esposizioni, tutta incentrata sul cambiamento climatico-, allestita presso la Galleria Nazionale di Danimarca nel 2009. Rimarchevole è inoltre la creazione, nel 2010, di un vero e proprio museo virtuale -greenmuseum.org-, nato proprio sulla base di esperienze d’arte ambientale.

Non potevano mancare poi, in concomitanza con COP21 -la conferenza parigina sul clima-, eventi ed esposizioni dedicati a questo fenomeno. Fra questi si può citare il festival ARTCOP21, il quale ha coinvolto all’interno della sua programmazione un numero considerevole di giovani artisti interessanti ad indagare il cambio climatico. Oltre ciò, non poche sono state le gallerie e le fondazioni parigine che, durante COP21, hanno dedicato la loro attenzione ad opere ed artisti il cui sguardo indagatore ha toccato il problema del cambiamento climatico. Fra questi centri si può menzionare la Fondation EDF, ed in particolare la sua esposizione Climats artificiels, che ha avuto luogo dal 4 ottobre 2015 al 28 febbraio 2016.

Inoltre, si deve tener presente che l'interesse per questa problematica ha colpito anche le arti performative, ed in particolar modo il teatro. Nel corso degli ultimi anni infatti, non sono state poche le produzioni teatrali sensibili al problema del pianeta malato, ed in particolare a quello del cambiamento climatico. A tal proposito, si può citare il London Theatre Consortium Sustainability Group, il quale ha basato i suoi interessi proprio sul principio della sostenibilità, dimostrando come le reti culturali possano essere determinanti nella creazione di un vero e proprio settore environmental-friendly. Inoltre, rimarchevole è stata una produzione del Teatro alla Scala di Milano intitolata CO2, la quale il 16 maggio del 2015, pure in relazione alle tematiche dell’EXPO, ha mandato in scena uno spettacolo avente come tema proprio il cambiamento climatico.

Alla luce di tali considerazioni quindi, tale sfida globale sembra essere di largo interesse pure per gli artisti contemporanei. Per tracciare un sintetico quadro di coloro che nelle loro linee di ricerca artistica si sono resi sensibili verso il problema del cambiamento climatico, interessante sarà partire dalle scelte dettate dalla curatrice Lucy Lippard in merito alla mostra del 2007 al Boulder Museum. In questo caso, la maggior parte delle opere protagoniste dell’esposizione hanno costituito il prodotto di una vera e propria fertilizzazione di idee fra artisti e scienziati, dimostrando quindi come arte contemporanea e scienza possano generare insieme dei nuovi modi di conoscenza anche su una tematica attuale e complessa come quella del riscaldamento globale(1).

L’artista americana Mary Miss (1944), che non di rado ha fatto dell’ambiente il protagonista indiscusso delle sue ricerche, nel lavoro Connect the Dots: Mapping the High Water, Hazards and history of Boulder creek (Fig. 1) realizzato per la mostra, ha condotto gli spettatori a riflettere sui devastanti effetti di circa cinquecento anni di alluvioni –evento che col cambio climatico avviene più spesso di quanto dovrebbe- del torrente della città di Boulder(2). Collaborando con geologi e idrologi, l’artista ha portato alla luce l’altezza del livello medio dell’acqua previsto durante le alluvioni mediante un’installazione di tanti punti blu luminosi attaccati ad alberi ed edifici circostanti. Tali punti blu, corrispondono in realtà proprio all’altezza raggiunta dall’acqua del torrente durante le alluvioni; da essi lo spettatore sembra non liberarsi mai, ed ha anzi la sensazione di esserne inseguito. L’installazione della Miss quindi, instilla paura e terrore, rendendo il pubblico sensibile al problema del cambiamento climatico. Lo spettatore difatti per mezzo dell’opera della Miss, riesce a comprendere come l’acqua, in caso di alluvione, lo possa sommergere ed uccidere. Grazie a tale espediente, l’artista riesce nel difficile intento di rendere empatico il pubblico verso il pianeta e la grave situazione in cui versa.

Gli effetti del cambiamento climatico su animali e piante sono stati invece portati alla luce dall’artista Brian Collier’s con The Pika Alarm. Con questo lavoro l’artista ha voluto dimostrare, mediante il pianto del pika, gli effetti del global warming. Egli ha narrato infatti, le vicissitudini attraversate da questo animale, concentrandosi in particolar modo sui suoi tentativi di sopravvivenza rispetto al riscaldamento globale: costretto a recarsi ad altezze sempre maggiori per sfuggire ai devastanti effetti del cambiamento climatico, il pika troverà difatti la morte, giungendo infine all’estinzione(3).

Il sodalizio composto da Helen Mayer Harrison e Newton Harrison si esprime attraverso il video The Mountain in the Greenhouse (2001, Fig. 2), definito dai due artisti come un little drama. Il video, estremamente poetico, si articola mediante la definizione di un’estetica proriamente tragica e drammatica. I protagonisti di questo dramma sono tre specie di fiori bianchi e viola delle Alpi, costretti a crescere sempre più in alto dal momento che la montagna –la quale in un passato ormai lontano rappresentava la loro accogliente e fertile dimora-, si comporta ormai come una sorta di serra a causa dell’aumento delle temperature(4). Alla fine del video, i fiori viola avranno raggiunto la vetta della montagna ma cesseranno di esistere; quelli bianchi limiteranno la loro esistenza ad una piccola macchia ma, pian piano, svaniranno anch’essi. Di essi nessuna traccia vi sarà più, ed il loro dramma sarà compiuto in maniera irreversibile e irrevocabile.

L’artista ecologica Aviva Rahmani, ha presentato invece alla mostra in questione il progetto Trigger points, tripping points (2007). Composta da una serie di stampe digitali basate su immagini prese dal satellite -alle quali l’artista ha unito disegni e testi realizzati di suo pugno(5) -, l’opera della Rahamani esamina tre zone specifiche: quella del Gange –a rischio per l’innalzamento delle sue acque-, la sempre più desertica area attorno al Nilo, ed infine quella del Mississippi, costantemente sottoposta ad inondazioni e uragani. L’artista si interroga sul destino delle popolazioni di queste aree sottoposte al pericoloso cambio climatico, notando in realtà come fin da ora gli abitanti si trovino in una condizione di estinzione; a queste zone difatti, corrispondono non solo la calamità del cambiamento climatico, ma pure i sanguinosi conflitti del Bangladesh, del Sudan e del Golfo del Messico. L’opera della Rahamani dimostra pertanto come la problematica del cambiamento climatico, sia spesso connessa, causata e peggiorata pure dalle questioni delle classi sociali e del potere, dalle condizioni di mancata ricchezza e di persistente povertà nella quale si trovano a vivere molte popolazioni del mondo(6).

Il progetto site-specific Arapaho Glacier: what goes around comes around (Fig. 3) di Jane McMahan, sembra invece voler dare un input per una qualche forma di speranza rispetto al problema del cambio climatico. L’artista colloca il ghiaccio proveniente dal ghiacciaio di Arapaho -il quale costituisce una preziosa risorsa di acqua per la città di Boulder-, all’interno di una cella frigorifera alimentata da dei pannelli solari(7). Anziché quindi vedere la natura come uno spazio innocente minacciato dall’uomo, la McMahan –attraverso la presenza della cella frigorifera e dei pannelli solari- reputa la presenza di quest’ultimo necessaria ai fini della protezione e della salvezza dell’ambiente.

Al di là degli artisti presenti alla mostra di Boulder, è possibile citare anche altre interessanti personalità che hanno fatto del cambiamento climatico l’oggetto delle loro ricerche. Fra queste, si può evidenziare la neozelandese Janine Randerson e l’australiana Nola Farman(8). La prima, col complesso progetto Animocinegraph (2006-2007), si concentra sull’interazione fra tecnologia, sistemi ecologici e meteorologia; nello specifico, porta in risalto i cambiamenti climatici attraverso una micro stazione metereologica capace di registrare le emissioni di carbonio su una specifica area della Nuova Zelanda. La Farman invece, con The Ice Tower (1998), realizza un prototipo pienamente funzionante di fontana di marea cinetica, progettata per rispondere al problema del movimento delle maree intorno alle isole Macquarie subantartiche nell'oceano del Sud(9). Tale opera è fondamentale perché permette di comprendere come già durante gli anni Novanta, gli artisti si sentissero coinvolti e partecipi rispetto al problema del cambiamento climatico.

Arrivando ai giorni nostri e dal momento che si è citato ARTCOP21, non possiamo non menzionare l’artista islandese- danese Olafur Eliasson(10), il quale in occasione di tale evento, ha realizzato un’interessante installazione a place du Panthèon. Ice Watch (Fig. 4), creata pure con l’aiuto di un geologo, era composta da ottanta tonnellate di ghiaccio prelevato da un fiordo della Groenlandia. Essa ha assunto la valenza di un’opera d’arte pubblica dal momento che, collocata in una delle piazze più animate di Parigi, aveva come scopo quello di sensibilizzare i cittadini alla problematica del cambiamento climatico. Il fine dell’opera era proprio quello d’ispirare una vera e propria azione collettiva contro questa calamità per mezzo dello scioglimento dell’opera stessa, fattore questo che ha contribuito a dare una percezione al pubblico degli effetti del cambio climatico.

Riguardo invece l’esposizione Climats artificiels, numerosi sono stati gli artisti che ne hanno preso parte: da Marina Abramović a Yoko Ono, fino ad arrivare a Hicham Berrada, Spencer Finch, Laurent Grasso, Hans Haacke, Ange Leccia e Pavel Peppertsein. Tuttavia, come pure evidenziato da Joseph Nechvatal in una recensione sulla mostra(11), le opere presenti non sembrano offrire molto in termini di esperienza estetica; piuttosto esse sembrano essere state pensate e concepite ad hoc per compiacere il pubblico in termini di spettacolarizzazione, con la registrazione di quella che può essere definita più come una sindrome da “evento” piuttosto che d’esposizione d’arte. Tale mostra dunque, nulla ha avuto a che fare con l’empatia verso il pianeta malato che alcune artiste -come la già citata Mary Miss-, sono state in grado di far provare attraverso le loro opere. L’unico lavoro presente in Climats artificiels che forse regala una maggiore sensibilizzazione rispetto alla problematica del cambio climatico, è Sillage (2012-2015, Fig. 5) di Cécile Beau e Nicolas Montgermont. L’opera si compone di una scultura con una superficie rettangolare sulla quale è stato instillato dell’inchiostro nero; questa si riflette su uno schermo video, ove in realtà si va a costituire la topografia del Cile. Di tanto in tanto, prendono forma delle onde concentriche che deformano l’immagine proiettata sul muro e, in contemporanea, si odono i rumori del terremoto registrato in Cile nel 2008. E’ la trascrizione di un’attività intra-terrestre che sale in superficie, deforma la terra e spaventa chi la vive. In questo caso, gli spettatori non possono che essere turbati, terrorizzati ed empatici rispetto al terremoto, fra le cui cause vi è probabilmente lo stesso riscaldamento globale.

L’arte contemporanea insomma, sembra essere sempre più interessata al fenomeno dei cambiamenti climatici. Tuttavia il campo degli studi entro tale ottica, risulta purtroppo circoscritto solo a qualche centro di ricerca europeo, ed in particolare legato prevalentemente a due sole nazioni: Danimarca e Gran Bretagna. Quel che ci si auspica pertanto, è che tale problematica venga sviluppata e studiata al più presto pure in altri centri di ricerca d’ arte contemporanea; quel che si spera, è che ovviamente tali linee di ricerca, coinvolgano pure l’Italia. L’intento del resto, potrebbe essere dei più nobili: l’educazione e la sensibilizzazione dei cittadini nei confronti di un problema di grande portata e attualità come quello del cambiamento climatico, la cui comprensione è fondamentale per la stessa vita dell’uomo.

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1) Cfr. DUNAWAY, FINIS, «Seeing global warming: contemporary art and the fate of the planet», in Environmental History, n. 14, January 2009, p. 12-13

2) Ibidem

3) Ivi, pp. 14-15

4) Ibidem

5) Ivi, pp. 15-16

6) Ibidem

7) Ivi, pp. 25-26

8) Cfr. RANDERSON, JANINE, «Between Reason and Sensation: Antipodean Artists and Climate Change», in Leonardo, vol. 40, No. 5, 2007, pp. 442-448

9) Ibidem, pp. 445-446

10) Cfr. GAYFORD, MARTIN, «Olafur Eliasson. A new Romantic». In Apollo, January 2015, pp. 46-50

11) NECHVATAL, JOSEPH, « Ecological Art that Miniaturizes (and Minimizes) Climate Change», in Hyperallergic, February 17, 2016