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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

What People Do For Money. Some Joint Ventures

Domenico Scudero

Manifesta 11, The European Biennial of Contemporary Art, dal titolo What People Do For Money. Some Joint Ventures, a cura di Christian Jankowski, ospitata a Zurigo cade perfettamente con una tempistica da orologio svizzero: siamo al cospetto del senso stesso del significato di Europa. E poi, esiste un'arte che possa dirsi europea? E ancora ha senso parlare di Europa, al di là dell'indicazione geografica? Ha senso discutere di arte e di cultura di questo territorio quando si comprende alla distanza che anche coloro che vi sono dentro, spesso, non sanno di farne parte?

Manifesta, la Biennale d'arte europea, distintasi sin dalla sua fondazione per alcune caratteristiche di ricerca e di sperimentazione, indaga quest'anno il sistema dell'arte contemporanea attraverso uno sguardo sul lavoro. L'arte contemporanea deve la sua stessa sopravvivenza alla contiguità con un modello economico, fondato su lavoro e metodi finanziari estremamente complicati, in qualche modo elusivi, esclusivi, e sottoposti allo stress della globalizzazione. Il termine “europeo” per definire qualcosa che abbia un sostanziale significato culturale, promette polemiche infinite fra mugugni nazional popolari, propensioni alla democrazia diretta, sfascismi stile Brexit e in qualche misura incoerenza generalizzata. Il momento storico non è dei più propizi per pensare positivamente all'identità dei sistemi generali; soprattutto per quelli che hanno vissuto gli ultimi trent'anni come una discesa a capofitto verso il negativo, l'impossibile e l'irrazionale, ovvero tutto ciò che nel recente passato, fra ideologie anni settanta e sincronie artistiche, si pensava non potesse accadere. Questa Manifesta arriva nel momento in cui l'ultimo di questi ideali, subisce la prima vera sconfitta, ultimo logos astratto e resistente simboleggiato dalla bandiera europea blu stellata. Dopo aver determinato la fine dell'evoluzione culturale, del raziocinio, dopo aver causato l'inesorabile declino delle risorse umanistiche, e aver decretato la supremazia tecno scientifica, adesso il malevolo virus della distruzione e della separazione attacca anche l'ipotesi vitale, spprattutto per chi lavori nell'arte, di un'idea di Europa pacificata. Grande e libero contenitore in cui gestire idiosincrasie e modelli di nuovi comportamenti. Qui il significato simbolico di Manifesta 11 sul tema del lavoro diventa anche riflessione sull'identità di quest'Europa che ha come unico valore comune il senso del profitto ma non accetta l'omologazione. E di conseguenza quest'occasione espositiva diventa il momento di una riflessione che investe l'identità, la nazione, l'Europa, il mercato e la globalizzazione.

La mostra è stata anticipata da una conferenza stampa alquanto seria. Tutti si dicono molto felici e solidali: Corine Mauch, sindaco di Zurigo, Christian Jankowski, e il direttore di Manifesta Hedwig Fijen, insistono sul ruolo specifico della città di Zurigo e in generale dell'identità del luogo in quanto territorio svizzero, cuore dell'Europa, ma non E.U. Di particolare interesse il discorso fatto da Jankowski: Zurigo è una città che pretende un sacco di soldi, dice l'artista/curatore, e non appena sei dentro questo meccanismo te ne restituisce altrettanti con un movimento vitale. Sarà così. Sullo sfondo rimane la percezione di quanto sia venale questo ampio meccanismo che tende a ridurti al ruolo di consumatore e lo fa mostrando il volto glaciale di un improbabile servizio d'ordine, che nella sede dell'opening ufficiale ha dato vita ad alcune gaffes parecchio divertenti, dovute, si suppone, alla mancata dimestichezza di taluni energumeni con le fisionomie psico-visive dei protagonisti del mondo dell'arte; per cui scambiare un direttore di museo per un infiltrato o un artista per un immigrato clandestino è stato gioco facile. Tuttavia era questo, era esattamente in ciò la posta in gioco di questa mostra complessa da comprendere e, in qualche suo passaggio, allucinante di verità e realismo brutale. Il tema dell'identità dell'artista e del suo lavoro nell'ambito del sistema sociale ha così determinato il rilascio di una vaga sensazione di spaesamento quando ci si è resi conto che a Zurigo la maggior parte degli enti coinvolti aveva aspettative su un pubblico “upper class” e ritrovandosi a relazionarsi con una platea di ricercatori ha mostrato uno sbigottimento leggermente infastidito. Su tutto sembra emblematico il passaggio di Manifesta dal Cabaret Voltaire. Inteso come luogo prioritario per diventare associati dell'evento, il Cabaret Voltaire è però accessibile solo dopo aver partecipato con una joint venture performativa; ma, e qui risiede la più gravosa perplessità, il fine ultimo di questo atto simbolico è forse quello di trasformarci da produttori artistici in consumatori?(1)

Rompendo il silenzio di una platea molto attenta, un giovane critico losangelino ha chiesto in due parole a Jankowski se il suo non fosse un grande, fin troppo grande, unico lavoro d'arte e se questa sua doppia identità artista/curatore non fosse troppo ambigua per poter far riflettere seriamente sui contenuti tematici. L'artista ha risposto un po' faceto: “Certo, è legittimo che lo si possa pensare, d'altra parte”, ha aggiunto, “si tratta sempre della stessa cosa, sia quando sono intento ad appendere un quadro in casa che quando programmo un'azione”. E quindi Manifesta “potrebbe” essere una grande, gigantesca, unica azione, ma anche in questo caso alcuni dettagli sarebbero comunque evidentemente da sottolineare.

A – La sede. Il curatore di Manifesta ha presentato la sua edizione sostenendo che la sede di Zurigo ha alcune caratteristiche imprescindibili. In primo luogo si tratta di una città che da sempre, o almeno dall'aurora della modernità, ha ospitato, accolto e mantenuto, un numero di artisti di varie nazionalità che qui hanno dato vita a momenti centrali della vita culturale europea. Citato più volte, il Cabaret Voltaire è un piccolo ma esemplare momento di quello che potrebbe dirsi il destino di questa città così diversa nel suo essere Svizzera, atipica nell'atipicità di questa regione(2). Come se la città di Zurigo, che è obiettivamente un piccolo centro, ordinato, ricco, pulito, avesse da tempo stemperato la propria ricchezza (zu-reich si dice comunemente significhi troppo ricco, ma se poi lo domandi alla persone in città ti dicono che no, non è vero, è una diceria). Che per stemperare la ricchezza e anche la relativa quiete del clima continentale i zurighesi abbiano assunto l'atteggiamento visivo dei più scafati metropolitani che fissino ad occhi aperti gli improbabili punti focali verso l'infinito, segnando orizzonti fittizi(3). Siamo in un piccolo centro ma si ha l'impressione che si stia in una metropoli gigantesca. E d'altra parte se così non fosse non si potrebbe spiegare altrimenti l'esistenza di un mercante cosmopolita come Bruno Bischofberger. Ed è anche un luogo letterario, la città che vide concludersi la vita di Joyce e in qualche modo è proprio il suo ricordo insieme a quello di Lenin, Tzara e Duchamp ad aleggiare su questa città. Detto questo è anche vero che Zurigo ha un rapporto estremamente funzionale con il lavoro e con la cultura che questo può generare. Proprio qui, fra Ginevra e Zurigo, partì la riforma della chiesa che dopo Zwingli ebbe in Calvino il suo teologo e qui, in queste regioni, si forgia il tema della predestinazione attraverso il lavoro. Si comprende assai bene perché l'idea dell'impegno lavorativo abbia assunto quindi una dimensione così ferocemente liberista e allo stesso tempo sacralizzata nel sociale. Qui nei condomini funziona tutto e in modalità assai simile ad una comune sociale, con l'unica differenza che a Zurigo nessuno farebbe in modo di scaricare i propri consumi sugli altri: pagare per l'uso comune di macchinari domestici dal formato industriale è condizione essenziale di uno status sociale. Manifesta 11 ci aiuta a conoscere questa piega non secondaria della città. L'idea di fondo di Jankowski è quella di affiancare ad ogni artista invitato a realizzare un nuovo lavoro, sono circa una trentina, un professionista di altri settori lavorativi della città. In alcuni casi quest'idea provoca autentici corto circuiti fra la dimensione confessionale e mitica del guadagno professionale e la più prosaica dimensione bohémienne che necessariamente è d'obbligo per chi viva d'arte. Se potessi ritrarre l'espressione del viso della responsabile della Bank Julius Bar, uno dei luoghi satelliti di Manifesta, nel vedermi arrivare, di quale imbarazzo mostrasse e di come abbia poi risolto chiamando la direzione generale di Manifesta per chiedere cosa fare, avrei facile terreno per far comprendere di cosa si tratti. Sono mondi che altrimenti non verrebbero mai a coincidere. Sarebbe bastato questo per capire che la mostra interagisce direttamente sulle relazioni sociali e sulla rottura di determinati canoni comportamentali all'interno di un territorio assunto simbolicamente. La mostra è in qualche misura vivere all'interno il mondo nascosto di questa città così perfetta ma vitrea, impermeabile ai più.

B – Il lavoro. Sostenuto dal contributo della città di Zurigo Christian Jankowski è riuscito a coinvolgere una trentina di professionisti della città affiancandoli ad altrettanti artisti nella produzione di nuovi lavori espressamente realizzati per l'occasione. Se questa era la parte maggiormente interessante della mostra è vero che poteva risultare parecchio dispersiva e in alcuni casi difficile da raggiungere in breve tempo. Ad ovviare questo impedimento per uno sguardo d'insieme sono stati scelti due grandi spazi istituzionali, il Löwenbräukunst e l'Helmhaus, in cui erano presentati sia lavori nuovi sia lavori considerati “storici”, ma che nella maggior parte dei casi erano tali solo in virtù del fatto di essere stati eseguiti al di fuori di Manifesta e qui inseriti come documenti di un percorso. Una sede ad hoc è stata realizzata all'imbocco del lago di Zurigo, il Pavillon of Reflections, grande zattera in legno fornita di platea, bar, piscina (direi piuttosto vasca per pesci rossi) collegata alla riva con una lunga passerella. Qui sono progettati incontri, eventi, spettacoli, e continue proiezioni di documenti realizzati durante la produzione dei lavori creati per l'occasione. Su tutte le opere spicca inesorabilmente quello di Mike Bouchet. Costui ha scelto di lavorare con Philipp Sigg, ingegnere esperto in riciclaggio delle acque di scolo. Bouchet ha realizzato una compressione disidratata delle feci prodotte il 24 marzo 2016 dagli abitanti della città di Zurigo per un totale di 80 mila chili di sostanze fecali compresse in balle cubiche e allestite in modalità minimale. Sebbene, naturalmente, il prodigioso contributo dell'artista e dell'ingegnere abbia mitigato chimicamente gli effluvi aerei di una simile massa di M., la stessa visione a causa del suo odore era insopportabile per più di un paio di minuti. Al di là degli stereotipi volgari della serie “che M. fanno gli artisti” su memoria dell'originale ma ben conservata e sterilizzata Merda d'artista di Manzoni, ci si documenta su quale sia l'impatto ambientale prodotto dall'uomo nelle sue funzioni basilari.

Ma sono tanti gli artisti che hanno prodotto esempi di relazione funzionale, di joint-ventures, all'interno della città: Aslı Çavuşoğlu in un ufficio del turismo, dove peraltro nessuno sapeva spiegare alcunché di quell'installazione; Jon Kessler negli spazi di una gioielleria blindata e squisitamente cortese; Andrea Éva Győri in un elegante negozio di lingerie alla moda; Franz Erhard Walther in un hotel di lusso in cui ogni cliente è trattato con guanti bianchi; Evgeny Antufiev in una delle chiese storiche della città; Leigh Ladere nel bar della prestigiosa Università delle arti, dove stranamente gli studenti erano forse anche disinteressati; Guillaume Bijl all'interno di una galleria d'arte, trasformata in una toilette per cani, con operatrice e cassa in ordine; Teresa Margolles all'interno di un lindo alberghetto nel quartiere a luci rosse; Marco Schmitt, alla centrale di polizia con una videoproiezione formato cinema d'essai; Ceal Floyer nascosta fra le scale dell'università. Molti altri spazi espositivi hanno caratterizzato questa Manifesta e in qualche modo anche la sua narrazione nomade come quella praticata da John Arnold e la sua cucina performativa in molti locali della città, o passeggera, quasi un mix fra miraggio e miracolo come nel caso della complicata performance del redivivo Maurizio Cattelan che evidentemente non potrà mai esimersi dall'esserci, nonostante i suoi sforzi contrari.

C – L'Europa. Così come riferito in apertura da Corine Mauch sindaco di Zurigo, questa Manifesta, che è una grande mostra siglata come attività culturale EU, ma che nei documenti ufficiali, a parte un piccolo logo nel sito, non denuncia alcun finanziamento da parte di questa “cosa chiamata EU” vuole essere un'attività europea. Il problema del significato del termine ha subito interessato la platea che ha borbottato, ma il sindaco ha chiarito: Zurigo non è nella EU ma è naturalmente il cuore stesso dell'Europa. Noi siamo europei e partecipiamo alla cultura di questa Europa. La domanda che può essere fatta, adesso che il risultato referendario della Brexit è risolto, è questa: di cosa parliamo quando citiamo il termine Europa visto che poi non possiamo declinarlo con alcun sinonimo o sincretismo? Europa è solo il suo stesso termine ma non definisce un territorio culturale né una identità politica. Nemmeno ormai un diffuso desiderio d'appartenenza. La differenza posta in essere da Manifesta col suo dichiararsi mostra dell'Europa e con sede in quel cuore dell'Europa che non vuole far parte del progetto politico europeo, segnala l'idea di fondo di questa identità. A mio giudizio aver allacciato la prestigiosa location della Svizzera zurighese al tema complesso del lavoro e a ciò che si fa per soldi in questo territorio, definisce un evidente momento strategico di definizione anche futuro dell'idea di Europa. Un'Europa che non può venir descritta sinteticamente con altro termine che non sia se stesso denuncia la sua irresolubile evidenza di luogo ideale, ma proprio per questo non concretizzabile, astratto e irrealizzabile. Un'Europa che non sia Nazione trattenuta da similitudini culturali, storie comuni, sacrifici, un'Europa che si ritrovi soltanto nelle differenze, nel distinguo operativo della specificità geografica del lavoro, non può che essere una gigantesca periferia di staterelli medioevali, di signorie locali, di piccoli principati forti delle proprie ricchezze ma foglie al vento nel confronto con i giganti politici della globalizzazione. Questa Europa unificata dal senso funzionale del lavoro e che separa metodologicamente “fare” dall' “oziare”, “produrre” dal “pensare”, come unico patrimonio di appartenenza non può che chiudersi in se stessa, erigendo i confini di appartenenza linguistici, dialettali, campanilistici, e oscurarsi nei confronti del mondo globalizzato(4). Il lavoro rappresentato in Manifesta non è un modo di rapporto col mondo ma è un'esclusiva chiusura da questo, realizzata nel migliore dei modi possibili e che richiede la migliore delle risposte economiche possibili(5). Nulla di quello che viene prodotto e qui esposto attraverso il lavoro e lo scambio monetario ha qualcosa di “inutile” ma tutto viene rinchiuso nell'alveo di una postmodernità concreta che non vuole dialogare con il domani già attuale dell'ipermoderno, la diversità, l'alterità. Se la scelta dell'Europa e del lavoro che si offre a suo simbolo è quella della differenza, anche la politica e la sua realizzazione saranno incentrati sulla puntualizzazione di quest'idea(6).

D – La politica. Si tratta in questo caso, naturalmente, della politica attraverso lo sguardo lavorativo, ma anche del lavoro negli anni della globalizzazione. Jankowski, sebbene sia qui in abito da curatore, non dismette di certo la sua figura artistica per vestirne una da scrittore-critico. L'unica citazione sul tema, riportata nel testo, si riferisce al celebre Opinioni di un clown di Heinrich Böll. Jankowski lo spiega dicendo che ha voluto “collezionare momenti” come faceva il protagonista del celebre romanzo e ha auspicato che altri protagonisti del lavoro spiegassero del loro rapporto con l'arte. Un atteggiamento vicino a quanto sostenuto da Beuys ma sembra che il ricordo di Beuys ci metta soggezione perché lo si contraddice negli esiti. Difficile non ricordare infatti che siamo andati esattamente lì dove Beuys pensava che non si sarebbe mai dovuto andare. Che le storie delle differenze, così care a chi non abbia percezione di quanto sia difficile convivere tutelando la diversità e non la similitudine, siano diventate prioritarie e motivo di separazione politica. In particolare il dialogo Arte e politica registrato fra Ende e Beuys ci dice quanto l'idea del lavoro fosse importante ma anche pericolosamente soggetta all'idea di dominio tecnico. E che questo dominio sarebbe stato portatore di separazione culturale, scindendo l'identità socio-politica in dialogo solo tecnologicamente, e aggiungerei, economicamente con il fare, dimentico del pensare. L'idea della separazione del lavoro in politica, rimanendo al tema di Manifesta e al suo curatore, il lavoro attraverso il motto “World Class – Swiss Made” per definire un prodotto turistico affinato dalla cultura della produzione, risulta qui foriero di delimitazioni. Partendo dal presupposto di definire l'arte in quanto processo funzionale visto dagli occhi di professionisti si produce un'opera finita, conclusa in se stessa. Parafrasando Marcuse si sostiene così un'opera “ad una dimensione”, come una funzione esclusiva del lavoro e sebbene lo scopo di Jankowski non sia stato quello di contraddire l'idea di Beuys - odio l'arte, l'arte finita, intendo dire(7) - sembrerebbe dimostrare l'opposto. Di fatto l'indefinibilità dell'arte che nella lezione di Beuys rappresenta il compito finale per l'elevazione del pensiero, qui non può prescindere dalla contiguità con il pensiero funzionalista. Ma c'è di più. C'è la palpabile contraddizione fra potere economico - quell'idea di un'economia immateriale, fluttuante - e la qualità valutabile solo evocativamente degli oggetti creati e all'occasione nascosti nei bunker della sicurezza bancaria. Ma solo quando il proprio intimo concetto di valore abbia travalicato la concreta realtà. Lì dove c'è funzione e logica non c'è mistero e alterità. Questo il limite della visione svizzera sostenuta da un “capitalismo documentale” (Ferraris) nella versione n.11 di Manifesta(8). Un limite ma anche una visione dirompente in negativo nella sua straordinaria verità. L'idea di rivoltare i parametri dell'azione lavorativa, di far quindi ragionare un artista come un professionista, e in qualche misura il pubblico come artista, si conclude nel territorio dell'appiattimento anti globalizzazione, di cui questa Manifesta è in qualche modo maestra. Il lavoro inteso come prassi esistenziale che surclassa le dinamiche comportamentali della massa, che vive di differenza e non di ripetizioni, oltre che un modello inattuabile di una ipotetica società ideale è anche motivo di severa competizione, aggressiva delimitazione delle competenze(9). In una parola la “piega barocca” riportata al suo grado funzionale ed applicata qui, nuovamente, ristrutturandola in un mondo semplificato, avulso dalla complessità. Diversamente da quanto sostenuto da Edgar Morin e Mauro Cerutti, qui non si problematizza la globalizzazione, ma la si rinchiude nell'ambito della specificità tecnica, in un improbabile destino assoluto dei microsistemi(10). Un ordine chiuso gerarchizzato che fa propria l'ipotesi di supremazia culturale grazie al gesto perfetto del lavoro, un improbabile modus operandi della nuova coesistenza. Che è invece foriera di separatismi in questa nuova Europa fondata sulla supremazia del lavoro ma mantenuta dall'immaterialità del capitale documentale e che la Svizzera può ben simboleggiare. Come diceva Camus(11), l'idea di Europa non può rappresentare ogni popolo di questa regione allo stesso modo, ma se lo vogliamo possiamo autodefinirci per similitudini o separarci per dissonanze. Ed è quello che oggi si prospetta e che vuole insegnarci nei fatti Manifesta(12).

La straordinaria verità di questa tensione alla separazione e allo scambio dei ruoli, indice palese di un appiattimento del pensiero al quale non è tributato alcuna importanza, si dimostra nel processo di trasformazione del pubblico in operatore artistico, artista. Nello specifico attraverso il celebre Cabaret Voltaire chiunque voglia accedere all'interno allusivo del sistema dell'arte può farlo creando una “joint venture” con qualcuno, salire le scale secondarie del celebre teatro e proiettarsi nello spazio dell'arte attraverso il palcoscenico del cabaret. Non esiste altro modo per potervi entrare e superato lo shock di dover recitare per pochi momenti la propria esistenza artistica ci si ritrova dentro l'idea dell'arte e dell'artistico; ma proprio a quel punto si comprende che gli artisti invece da lì sono stati espulsi, e stanno banchettando, non si sa bene se ignari o consenzienti, alla grande kermesse di quel sistema professionale del lavoro che non può essere loro, se non momentaneamente. E in quello stesso momento, transitando dal palcoscenico storico dell'avanguardia, ci si ritrova tutti ad essere pubblico, consumatori, in mercé di un sistema che non ci riconosce nessun altro ruolo.

(1) Manifesta 11, Catalogo a cura di Christian Jankowski, Lars Müller Publishers GmbH, Zürich, 2016, pag 259. “These joint-venture performances are only viewable if you first take part yourself: Only producers will become comsumers.”

(2) Ibidem, Sally O'Reilly, One Undred Ways to Cook an Egg, in cui si dichiara l'inessenzialità della conoscenza nei confronti del meccanismo di produzione la superiorità degli effetti, pag.170.

(3) Ibidem, Jakob Tanner, Creative Coups, pag 177.

(4) A questo proposito Bauman sostiene che la mancanza di un riconoscimento d'identità è causa di ciò che può essere chiamata “secessione dei vincenti”, sebbene non sia detto che la formalizzazione identitaria attraverso le differenze possa definire una condizione realmente vincente. Si veda Zygmunt Bauman, Intervista sull'identità, a cura di Benedetto Vecchi, pag. 37-41, Editore Laterza, Roma-Bari, 2003.

(5) Ibidem, Zygmunt Bauman, pag. 92-93. Interessante nell'ambito del concetto di lavoro l'idea che a ridosso di una iperspecializzazione e una successiva qualità “politico-sociale” dell'individuo esista nell'attuale condizione economica il corrispettivo principio di esclusione determinato dal valore di qualità competitiva. Se infatti il lavoro determina una condizione di assunzione responsabile di socialità solo se è espresso nel migliore dei modi possibili è certo che ci sarà anche l'obbligo di pagare socialmente con l'esclusione quando questo lavoro non sia esattamente integrato nel sistema competitivo del turbo capitalismo. E su quest'idea si basano i principi di esclusione determinati da precarietà competitiva – insista nel mondo globalizzato - e la richiesta di contrattualità in divenire - prodotta dal sistema telematico -, fattori che necessitano entrambi per l'individuo un'assidua attenzionalità.

(6) Jürgen Habermas, L'Occidente diviso, ed. it. Laterza Roma Bari 2007 (ed. or. 2004, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main). In un sistema che non è più capace di riconoscere le identità comuni e in cui si preferisce ridisegnare i confini delle differenze non può bastare una unione di mercati e di affinità quindi funzionali del lavoro per creare una identità. Si veda in particolare pag. 53, La creazione di un'identità comune europea è necessaria e possibile?

(7) Joseph Beuys, Michael Ende, Arte e politica. Una discussione, ed. it Ugo Guanda, Parma, 1994, pag. 102 (ed. or. FIU-Verlag, Wangen/Allgäu, 1989).

(8) Vedi anche Maurizio Ferraris, Mobilitazione totale, editore Laterza Roma Bari, 2015, in cui si accoglie la tesi di Piketty sulla sostanziale modifica del capitale, da oggetto a documento, per cui Ferraris parla di “capitalismo documentale”. Non a caso infatti quando si parla di capitalizzazione si intende alla somma e al carico di oggetti documentali.

(9) Documenta 11, Catalogo, op.cit, Franco Berardi, The Superstition, pp 193 -195.

(10) Edgar Morin, Mauro Ceruti, La nostra Europa, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013.

(11) Albert Camus, Il futuro della civiltà europea, ed. it. Lit Castelvecchi, Roma, 2012, (trascrizione di una conferenza ad Atene nel 1955) (ed. or. Gallimard, Paris, 2008).

(12) Jürgen Habermas, L'Occidente diviso, ed. it. Laterza, Roma-Bari, 2005, (ed. or. Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 2004).