Simona Antonacci

 

Ha raccontato le stragi di mafia degli anni Settanta e Ottanta, ma anche la buona società palermitana e memorabili sono i suoi ritratti delle bambine siciliane.

È diventata celebre all’estero ancor prima di esserlo in Italia, è stata tra le prime fotoreporter di cronaca e di mafia, a capo del servizio fotografico del quotidiano “L’Ora”.

La sua fotografia di Giulio Andreotti che attraversa la hall dell’hotel Zagarella insieme a Nino Salvo è stata utilizzata come elemento probatorio nel processo che ha chiarito i legami del sette volte Presidente del Consiglio con Cosa Nostra.

Per questo e per il suo impegno civile è conosciuta Letizia Battaglia. E per molto altro ancora.

Molto è stato scritto su di lei –artista, fotografa, intellettuale, come definirla?- ma il significato, anche esistenziale, della sua ricerca e il contributo in termini di pensiero e di immagini per la nostra società si comprende soltanto leggendo la sua attività in stretta connessione con l’avventura della sua vita.

Nata a Palermo nel 1935, vi torna a dieci anni dopo avere vissuto tra Trieste, Civitavecchia, Napoli al seguito del padre impiegato sulle navi. Come lei stessa racconta in un’intervista a Giovanna Calvenzi, una volta arrivata a Palermo si scontra con il diverso “clima” che le offre la città: osservata dagli uomini, perde presto quella libertà che aveva connotato la sua primissima giovinezza(1). L’esperienza vissuta in questo periodo è alla base della sua predilezione per i ritratti di bambine di dieci anni, giovani colte nella delicata fase dell’adolescenza. In quei tratti ancora acerbi ma già di donne –suggerisce la stessa autrice- rivede se stessa e i suoi sogni di bambina.

Si sposa giovanissima e ha in breve tempo tre figlie, ma è inquieta, insoddisfatta e si ammala: l’incontro con lo psicanalista Francesco Corrao la aiuta a focalizzare la natura anche psicologica del suo malessere e il profondo desiderio di cambiamento che la anima. Nel 1969, mentre avvia le pratiche per il divorzio, si presenta nella sede de “L’Ora”, giornale “comunista” del pomeriggio, offrendosi come giornalista: nella calda estate palermitana, con i redattori in vacanza e le sedi svuotate, inizia la sua collaborazione con il maggior quotidiano locale, tenacemente impegnato nella denuncia dei crimini mafiosi. Nel 1971 la svolta che la porta a Milano al seguito di un amore, quello per il giornalista Santi Caleca. Qui entra in contatto con il mondo intellettuale e comincia a fare fotografie, che le servono all’inizio solo per corredare i suoi articoli. Ben presto, e soprattutto a partire dal 1974 quando torna a Palermo per occuparsi del servizio fotografico de “L’Ora”, fotografare diventa per lei una pratica liberatoria, che le permette di confrontarsi con quanto avviene nel mondo e trovare la propria strada: «La fotografia è stata la mia salvezza. Ero una donna inquieta e attraverso la macchina fotografica ho potuto trovare un equilibrio»(2).

A Palermo l'aspetta la guerra di mafia dei Corleonesi, di cui è testimone con il suo obiettivo. Se la fotografia in un primo momento l'ha “liberata”, l'ha aiutata a trovare la strada per l’emancipazione, sempre più essa si trasforma in uno strumento di sfida a sé stessa e nei confronti di un sistema prevalentemente maschile: «Ero l’unica donna in Italia a lavorare all’interno di una redazione come fotografa»(3), ricorda. Fotografare la stagione di sangue vissuta da Palermo nel corso degli anni Settanta e Ottanta vuol dire infatti confrontarsi con una realtà complessa. Quando, davanti all’ultima “ammazzatina”, le impediscono di passare tra la folla per compiere il suo “dovere di cronaca” è costretta a recitare il ruolo-clichè della donna isterica: «Se sulla scena di un crimine non lasciavano passare i fotografi mi mettevo a gridare: “perché la Rai può passare e io no?” Ero imbarazzante. Poi la polizia ha capito che anche se ero una donna ero una professionista seria»(4).

In questa fase davanti al corpo del morto ammazzato, davanti al mafioso che scalcia per aggredire il reporter (come nella nota fotografia di Leoluca Bagarella in manette), di fronte al dolore muto di chi osserva il corpo riverso del proprio fratello, figlio, amante, amico, vicino, così come ai volti della “Palermo bene”, la fotografia è strumento di empatia, vicinanza, confronto serrato con la realtà dell’altro, per un’emergenza che è prima di tutto morale, etica, umana. Scrive Giovanna Calvenzi: «La passione, il bisogno di giustizia, lo sdegno la costringono a trovare il suo “stile”»(5).

La fotografia sembra essere dunque lo strumento attraverso cui avvicinarsi alla bellezza così come al dolore universale, alla grazia e alla brutalità delle cose, sembra rivelarle se stessa, la sua vocazione a stare nel mondo, ad affrontarlo nella sua pienezza, ma anche l’inevitabilità di portare con sé una porzione di quell’evento, attraverso la traccia sulla pellicola sensibile, attraverso il ricordo: «Perché non è solo la storia di un uomo che è stato ammazzato o di un bambino che aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere, ma è una storia che sento collettiva e io voglio esserci in questa foto»(6).

I frammenti strazianti delle stragi accumulati attraverso le immagini diventano a lungo termine un peso insostenibile. Il 29 luglio 1983, quando viene ucciso il giudice Rocco Chinnici, uno dei fondatori del pool anti-mafia, Letizia Battaglia decide non voler, di non poter fotografare anche questa carneficina.

Comincia a farsi largo l’idea di abbandonare almeno per un po’ la fotografia, addirittura di bruciare il suo lavoro perché le immagini sono troppo dolorose, e di dar forma al suo impegno per la “bellezza” e la “giustizia” con altri strumenti, come quelli della politica.

Diventa così Consigliere comunale con i Verdi. Negli anni della cosiddetta Primavera di Palermo, quando Leoluca Orlando è alla guida della città, Letizia Battaglia viene eletta Assessore alla Viabilità, ai parchi, al verde e all’arredo urbano. «Gli anni più felici della mia vita»(7), li definisce. Intanto il suo impegno militante si dispiega anche e ampiamente nel campo dell’editoria: da Grande Vu’ alle Edizioni della Battaglia, produrrà decine di numeri di riviste nelle quali coinvolge intellettuali, fotografi, scrittori.

A partire dal 2003 riprende in mano le fotografie delle stragi di mafia per includerle in un nuovo progetto che possa salvarne la memoria: Rielaborazioni, spiazzamenti, divagazioni sono i nomi che attribuisce a un lavoro di sovrapposizione e collage visivo in cui ritratti femminili vengono accostati alle immagini scattate negli anni Settanta e Ottanta. In questo processo di ri-significazione è la fotografia stessa che “salva” il ricordo e neutralizza il potere tragico dello scatto originario.

Con il recentissimo progetto per la creazione di un Centro internazionale di Fotografia a Palermo, Letizia Battaglia riconosce ancora una volta alla fotografia il potere di contribuire all’emancipazione civile di un territorio.

Ripercorrendo la storia del suo rapporto con il fotografare, si coglie dunque il valore profondamente esistenziale che esso ha avuto per lei: la macchina fotografica è stata nelle sue mani non solo lo strumento con cui denunciare i fatti di mafia e raccontare la sua Palermo, ma anche quello che le ha permesso di lenire e mediare l’amarezza “morale” provata di fronte alla violenza e alla morte. Il suo lavoro è sempre stato guidato da quel principio di “prossimità” che ha accompagnato la stagione storica del reportage e della fotografia di cronaca: non la distanza di presunzione obiettiva, non freddezza o ironia nei suoi scatti, ma la crudezza del confronto diretto con il soggetto, capace di attivare emotivamente chi guarda.

Se negli scatti per “L’Ora” realizzati negli anni Settanta l’immagine esplicita, impietosa, persuasiva, appariva un dovere, questo principio è per l’autrice ancora oggi imprescindibile: la scelta di non edulcorare o epurare la violenza, ha una radice etica che vale anche per le immagini più feroci che il mondo dell’informazione ci propone oggi. Letizia Battaglia pensa allo scatto del piccolo Alan Kurdi, annegato a largo delle coste turche nel 2015(8): «Quella fotografia è sconvolgente per la grandezza e la bellezza del messaggio. Queste fotografie devono essere mostrate… nessun pudore, sono falsi i pudori, servono solo a nascondere quanto poco valiamo..»(9).

Porsi in modo schietto davanti alla realtà.

Porsi in modo schietto davanti all’immagine e a ciò che fa scaturire: indignazione o compassione che sia.

È forse proprio questo modo di porsi sempre diretto di fronte alle cose ad aver reso Letizia Battaglia una figura nevralgica, seguita e amata da un pubblico ben più ampio di quello degli addetti ai lavori. Un riconoscimento, dunque, rivolto non tanto (non solo) ai suoi scatti, ma alla sua figura di donna impegnata nell’affrontare con franchezza, decisione e partecipazione la sua esistenza e il suo tempo.

E non appare poi così importante capire se possa essere definita “artista”, se occorra riferirsi a lei come a un “maestro”, se sia preferibile chiamarla “fotografa” o se sia meglio, come lei suggerisce, definirla semplicemente una persona che, nell’avventura della sua vita, ha fatto anche delle fotografie.

 

1) «Appena tornati mio padre mi tolse la libertà. (…) Dal momento in cui non sono più stata libera è iniziato un inferno che è durato anche con il matrimonio e che si è calmato solo quando ho incontrato la macchina fotografica. Perché con la macchina fotografica io ho cominciato a essere libera», in Giovanna Calvenzi, Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni, Bruno Mondadori, Milano 2010 p. 3.

2) Dall’intervista a Letizia Battaglia di Mariachiara Marzari e Davide Carbone, L’altro lato del mondo. Letizia Battaglia e l’arte di raccontare la realtà per immagini ,in http://www.venezianews.it/index.php?option=com_content&task=view&id=8299&Itemid=331.

3) Calvenzi, Letizia Battaglia…, cit., p. 20.

4)Idem, p. 21.

5)Idem, p. 22.

6)Idem.

7)Letizia Battaglia ha toccato questo tema in diverse interviste e, in particolare, nell’incontro che si è svolto al Museo MAXXI di Roma il 5 luglio 2016

8)La fotografia di Alan Kurdi, annegato a tre anni davanti alle coste della Turchia, raccolto da un agente turco è stata diffusa a livello planetario scatenando un dibattito sull’opportunità o meno di diffondere questo tipo di immagini. La fotografia è stata realizzata da Nilüfer Demir. Sulla circolazione anche in termini di eco politica si confronti l’articolo di Sergio Benvenuto La foto del bambino, in http://dev6.doppiozero.com/materiali/commenti/historia-lucida .

9)Letizia Battaglia ha toccato questo tema in diverse interviste e, in particolare, nell’incontro che si è svolto al Museo MAXXI di Roma il 5 luglio 2016.

Ottobre 2016