Daniela De Dominicis

Chiariamo subito che non si tratta di unità abitative standard ma di alloggi per studenti universitari. Costruzioni economiche e temporanee con un target molto giovane che non soffre ambienti minimi, spartani e aree condivise.

Ciò detto, gli alloggi proposti da BIG (Bjarke Ingels Group) a Copenaghen per la start-up danese Urban Rigger (letteralmente organizzatore urbano), concretizzano due capisaldi del pensiero utopistico dell’abitare: la casa mobile e la costruzione sull’acqua.

Tutto parte dalla necessità di offrire una risposta economica ai ventiquattro mila studenti fuori sede che ogni anno in Danimarca cercano un alloggio per il periodo di studio. Kim Loudrup, l’imprenditore  che nel 2013 ha fondato per questo la società di costruzioni Urban Rigger, ha pensato di utilizzare a tal fine container navali da collocare nelle acque del porto e ha  coinvolto nella  sperimentazione il famoso architetto Bjarke Ingels. L’idea si è rivelata vincente e ha trovato subito  una positiva sponda presso l’amministrazione cittadina. Si tratta di strutture economiche, prefabbricate, che non incidono in alcun modo sul già costruito, interamente reversibili e che offrono una posizione di alloggio centralissima. Il progetto elaborato da Ingels prevede una piattaforma galleggiante di 680 mq a sostegno di sei container, organizzati su due livelli, tre per piano, disposti a triangolo equilatero intorno ad una corte centrale con funzione di giardino pensile.  Il secondo piano dei container è ruotato rispetto al sottostante di novanta gradi a creare, in pianta, una sorta di esagono, diventato anche il logo della società. Le pareti metalliche, per ampie sezioni, sono state sostituite da vetrate a tutta altezza per catturare la luce solare in tutte le angolazioni, mentre di sera lasciano vedere buona parte degli interni secondo quell’etica della trasparenza tipica della cultura protestante che da sempre ha condizionato le tipologie abitative del Nord Europa e che qui viene mantenuta. I dodici studi così ottenuti presentano ciascuno una superficie di 23-27 mq  e sono costituiti di un unico ambiente con letto, tavolo, area cottura e bagno.  A questa vanno aggiunte poi le zone comuni: oltre il  già citato cortile interno con il piccolo giardino pensile e le rastrelliere per le biciclette, ci sono i camminamenti intorno alla corte, la zona barbecue e due tetti praticabili: uno come prato, l’altro come solarium, il terzo, quello non praticabile,  attrezzato con i pannelli solari per il controllo della temperatura. Dalla piattaforma - collegata alla terraferma da un pontile-  si può  scendere  direttamente in acqua con una scaletta, per un accesso anche via mare. L’affitto è di seicento euro al mese, meno della metà rispetto a ciò che offre il mercato per alloggi collettivi e periferici nella costosissima Copenaghen.

Il primo gruppo abitativo è stato inaugurato il 24 settembre 2016, ma il progetto prevede la realizzazione di più nuclei galleggianti. Richieste di interventi simili sono state già avanzate da diverse nazioni del Nord Europa, in primis la Svezia.

L’idea di utilizzare la superficie marina per espandere le città non è nuova. Già Kenzo Tange nel 1960 aveva ipotizzato lo sviluppo di Tokyo intervenendo  sui diciotto chilometri di larghezza della baia sulla quale la città si affaccia e formulando un megaprogetto sull’acqua a struttura lineare a più livelli, polifunzionale, dal quale si diramavano a pettine assi viari perpendicolari con abitazioni  private a forma di pagoda.

La superficie delle acque come area abitabile ritorna anche in progetti più recenti come quello per Lagos in Nigeria firmato dagli studi NLÉ e Zoohaus/Inteligencias Colectivas  che hanno puntato proprio sui corsi d’acqua per ridare senso e coerenza a questo insediamento disgregato e ingovernabile (Uneven Growth–Tactical Urbanisms for Expanding Megacities, MoMA, NY, 2014-15). Del resto Makoko, una delle baraccopoli di Lagos, è costruita per buona parte proprio sull’acqua con case palafitta.

Offrire delle soluzioni all’inarrestabile inurbamento in atto sembra essere la priorità assoluta. Attualmente più della metà della popolazione mondiale vive nelle città, ma secondo il World Urbanization Prospect dell’ONU, entro il 2050, quando la popolazione globale arriverà a nove miliardi, la percentuale salirà al 66%, considerando che ogni ora città come Kinshasa o Dacca hanno 50 abitanti in più. Di fronte alle epocali migrazioni in corso dell’area asiatica a dell’Africa sub-sahariana, qualsiasi soluzione urbanistica passa in primo luogo attraverso una risposta immediata alle emergenze.

Nei recenti meeting internazionali che hanno ragionato su quest’aspetto cruciale del futuro prossimo (Report from Cities: Conflicts of an Urbane Age, Venezia 2016; Habitat III, Conferenza delle Nazioni Unite sugli insediamenti umani e lo sviluppo urbano sostenibile, Quito 2016) emergono due orientamenti condivisi.

Innanzitutto la necessità di puntare su insediamenti che utilizzino materiali ecologici, rispettosi dell’ambiente e delle economie locali. Tra quelli su cui si punta maggiormente è il bambù. Presente a Quito era la società intergovernativa INBAR (International Network for Bamboo and Rattan) fondata nel 1997, riconosciuta dall’ONU, con 41 paesi membri, che indica proprio nell’uso di questo materiale resistente, per giunta facilmente rinnovabile, l’alternativa verde per le tecniche costruttive e per l’architettura (ne fanno già ampio uso, tra gli altri, gli architetti dello Studio Penda, Kengo Kuma, Vo Trong Nghia).

Il secondo orientamento è quello di ridefinire il concetto di città. Gli insediamenti umani, fin dall’epoca neolitica, hanno implicato il concetto di stanzialità, ma le migrazioni e le trasformazioni climatiche in atto, devono innescare un cambiamento concettuale. Le città devono essere pensate, almeno in parte, come temporanee, aggregazioni che si formano, si disgregano, si ricompongono diversamente e altrove. Le soluzioni abitative economiche, da montare velocemente e da smontare senza lasciare traccia, rispondono sia alle emergenze, sia alle preoccupanti espansioni urbane. La sperimentazione di Copenaghen si inserisce dunque in questo ambito e costituisce una proposta praticabile.

Ma anche  in questo caso si tratta di idee con lontane radici. Strutture abitative leggere facilmente trasportabili rispondono, durante i due conflitti mondiali, all’esigenza di sostenere le truppe durante gli spostamenti. I prototipi mobili del Nissen Hut (P. Norman Nissen) del 1916 e la Dymaxion House (R. Buckminster Fuller) del 1927, hanno dato vita rispettivamente al Quonset Hut, rifugio modulare prodotto in 170mila esemplari, poi utilizzati a scopi civili, e al Fuller’s Dymaxion Deployement Unit, case metalliche componibili di forma circolare, anche più recentemente utilizzate dalle truppe statunitensi nel Golfo Persico. Su questi stessi temi hanno lavorato Le Corbusier e Jean Prouvé (le Scuole Volanti, 1940; la Maison Tropicale, 1949) che consideravano la casa come una macchina da abitare, definizione che implica di per sé l’idea della mobilità e del transito (Architecture in Uniform: Designing and Building for the Second World War, cat mostra Montréal, Canadian Centre for Architecture, aprile- settembre 2011).

Le proposte più visionarie e affascinanti, profetiche anticipatrici delle esigenze contemporanee,  restano tuttavia quelle del gruppo britannico degli Archigram. Come non vedere in Plung-in City (Peter Cook, 1963-64) -fantastica città fatta solo di ossature primarie in calcestruzzo alle quali le case/cabina prefabbricate si attaccano- un’anticipazione degli studi galleggianti di Copenaghen agganciati alla struttura del molo? O in Walking City (Ron Herron, 1964) e Instant City (Peter Cook, 1964) la struttura flessibile di città itineranti di cui i citati convegni contemporanei vanno auspicando la promozione? In fondo anche le abitazioni minuscole su cui si è orientata la nuova frontiera degli immobili sociali trovano una corrispondenza nel Living Pod, il baccello abitabile concepito da David Greene nel 1965 o nelle case gonfiabili pensate da Hans Hollein sempre negli stessi anni. Se non proprio dei baccelli, la metà delle nuove costruzioni residenziali a Londra sono costruite per i single, come quelle progettate da Piercy Conner a Wyndham Road o le Micro Compact Home progettate da Horden Cherry Lee con la tedesca Haack & Höpfner, utilizzate anche in Svizzera e in Germania, che possono essere smantellate e ricostruite altrove.

La transitorietà del costruire sembra essere dunque la nuova frontiera del possibile e non è raro imbattersi in architetture effimere realizzate con i container: nel 2006 a Zurigo la società Freitag ha eretto il primo centro vendita con 17 box  impilati a torre (Spillmann-Echsle), a Pechino nel 2008 è stato realizzato un centro commerciale con 150 container (LOT-EK), il Nomadic Museum -struttura espositiva temporanea in funzione tra il 2005 e il 2008- ne ha utilizzati 148 recuperandoli nella città in cui di volta in volta si è trasferito (Shigeru Ban).

Ma è la prima volta che se ne sperimenta l’abitabilità e se la proposta viene dal più autorevole degli architetti quarantenni - formatosi nello studio di Rem Koolhaas e vincitore tra l’altro del progetto Rebuild by Design per proteggere Lower Manhattan dalle mareggiate- essa merita senz’altro attenzione e probabilmente farà tendenza.

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