Soluzione all’alienazione delle città infinite?

Daniela De Dominicis

Chiuso al mondo esterno per più di duecento anni, fino al 1853(1), nutritosi esclusivamente delle proprie tradizioni, il Giappone ha vissuto il rapporto con l’architettura moderna occidentale in modo conflittuale. Gli architetti che per primi si sono formati all’estero, presso lo studio di Le Corbusier, Takamasa Yoshizaka – autore tra l’altro del padiglione nipponico ai Giardini di Venezia – Kunio Maekawa, Junzo Sakakura, hanno introdotto in patria le tematiche razionaliste e utilizzato in modo massiccio il materiale simbolo di questa corrente, il cemento armato. In realtà quest’ultimo era già stato introdotto in Giappone nel primo Novecento, apprezzato soprattutto perché antisismico e ignifugo, ma per essere accettato aveva dovuto dialogare con il ben più familiare legno. Collaborando strettamente con i carpentieri, Antonin Raymond –boemo di origine ma attivo in Giappone per cinquant’anni– era riuscito infatti a trasferire le qualità percettive di quest’ultimo alla sua Reinanzaka House a Tokyo, una delle prime case interamente in cemento, realizzata tra il 1924 e il ’26. Per la Tower House, Takamitsu Azuma, quarant’anni dopo, farà un vanto dell’essere riuscito a conservare nel calcestruzzo le tracce del proprio vissuto così come normalmente accade per i materiali tradizionali. Ma è grazie alle tecniche di prefabbricazione razionaliste, anche se percepite come d’importazione e per questo fortemente avversate, che il Giappone ha potuto rispondere alle urgenze abitative della ricostruzione successive al secondo conflitto mondiale, quando l’incremento demografico ha determinato un inurbamento senza precedenti. Il movimento Metabolism (Kenzo Tange, Arata Isozaki, Kisho Kurokawa,…) fondato nel 1960 ha dato luogo ad edificazioni in grande scala. Nel 1963 il Governo incentiva la costruzione di condomini che costituiscono oggi il 40% degli alloggi giapponesi(2). Tra le soluzioni prefabbricate più radicali, una certa fama ha ottenuto il grattacielo Nakagin Capsule Tower (1969-72) di Kisho Kurokawa, anche per la prossimità con le contemporanee ricerche dei britannici Archigram.
Parallelamente alla costruzione di abitazioni collettive, si è verificato però un fenomeno pressoché unico rispetto ai grandi centri urbani del resto del mondo: la costruzione di migliaia di case monofamiliari in diretta continuità con la tradizione, utilizzando piccole parti residuali di terreno con un impianto costruttivo rivisitato alla luce dell'esigua superficie disponibile. Fin dagli anni successivi alla guerra è stato possibile infatti trovare prestiti per l’edificazione di case indipendenti su lotti di proprietà (nel 1950 viene fondata a tal fine la Housing Loan Corporation), sollevando in parte il Governo da massicci investimenti sociali. L’assenza di progetti urbanistici finalizzati ad una espansione coerente hanno finito per favorire questa libera iniziativa che oggi contribuisce in parte all’immagine di città come Tokyo: confusa, caotica ma vitale al contempo. L’ostilità già ricordata per i grandi insediamenti razionalisti, il fallimento epocale di alcuni di questi come il Senri New Town (1961) mai decollato per mancanza dei necessari servizi, hanno alimentato fin dagli anni ‘50 un forte nazionalismo –nel 1952 il trattato di San Francisco aveva peraltro restituito la sovranità nazionale al Giappone– nonché un nutrito dibattito su quale fosse la casa nipponica di tradizione. Per gli architetti modernisti questa si concretizza nello stile sukiya-zukuri, risalente alla fine del 1500, cui però va affiancato il modello della tipica abitazione monofamiliare urbana del 1600, la Machiya. Il primo presenta una tipologia abitativa orizzontale, con spazi fluidi, elementi divisori leggeri, la nicchia decorativa (toko), gli scaffali inseriti nel muro (chigai-dana) e, ovviamente il giardino; la Machiya è un edificio in legno costruito su lotti stretti e profondi, affiancato ad unità simili a creare un intero isolato. In città è sempre stata impossibile un’articolazione orizzontale degli ambienti e la Machiya ha garantito, con il suo stretto sviluppo verticale, spazi plurali nonché la presenza di un giardino interno, foss’anche minuscolo, indispensabile per un rapporto armonico con la natura. Alcuni progettisti hanno utilizzato questi modelli per risolvere le sfide della modernità con soluzioni abitative che, attingendo alla tradizione, fossero più congeniali alla mentalità giapponese. I lotti urbani di proprietà nel corso del tempo sono stati suddivisi in particelle sempre più piccole –soprattutto in seguito alla crisi immobiliare degli anni Novanta– in grado di ospitare soltanto unità abitative minime. Si tratta di micro-case costruite su commissione, ritagliate su misura in funzione delle esigenze dell’individuo o del nucleo familiare che le abiterà. Rientrare in case progettate di per sé viene ritenuta una valvola di sfogo indispensabile per riuscire a convivere con i ritmi compressi e frenetici di realtà urbane caotiche, un luogo dove recuperare la giusta armonia(3). Tanto ritagliate sugli individui che sono pensate per durare una media di ventisette anni. Nulla in Giappone viene costruito per durare in prospettiva, anche l’antico tempio Shintoista di Ise viene abbattuto e ricostruito ogni venti anni.
Pertanto prestigiosi studi di architettura si sono cimentati in tempi recenti in queste piccole abitazioni di proprietà, ritenute non un ripiego in mancanza di commesse più prestigiose, bensì la via giapponese al contenimento dell’alienazione urbana.
Nel 2003 Kazuyo Sejima (curatrice della 12. Mostra Internazionale di Architettura, Venezia 2010) progetta a Tokyo House in a Plum Grove di circa settantasette mq per cinque persone; per recuperare spazio, le poche pareti presenti sono in acciaio ed hanno uno spessore di appena 16 millimetri, il tetto e altri volumi in quota ospitano giardini; Ryue Nishizawa nella Moriyama House (2005) mantiene il carattere caotico del quartiere di Tokyo sul quale insiste, distribuendo gli ambienti della casa in unità separate da passaggi all’aperto: il più grande ha tre piani, il più piccolo è solo un box doccia. La Split Machiya (Tokyo, 2010) dell’Atelier Bow-Wow riesce nell’isolato stretto e lungo di 54,62 mq a divedere l’abitazione in due corpi di fabbrica raccordati da un giardino che diventa così il cuore della casa; Sou Fujimoto con House NA (Tokyo, 2011) e Ryue Nishizawa con Garden and House (Tokyo, 2013) trasformano l’abitazione in una serie di piattaforme orizzontali, assenti le pareti perimetrali, sostituite –lì dove ci sono– da superfici vetrate. Le case diventano così una sorta di scheletro che si apre totalmente alla città.
Così come la polifunzionalità degli spazi è un concetto del tutto estraneo alla cultura occidentale, lo stretto rapporto tra forma e funzione, slogan manifesto della cultura razionalista, è totalmente privo di senso nella mentalità giapponese. Le diverse aree abitative possono essere utilizzate con finalità totalmente diverse a seconda delle necessità. Una stessa piattaforma della House NA può funzionare come piano su cui dormire, piano di seduta, scrivania oppure come gradino dal quale accedere alla piattaforma soprastante. Gli ambienti risultano vuoti e pertanto flessibili ad usi diversi.
Il giardino, anche nella versione minimale delle micro-case, viene inoltre vissuto come il luogo di contatto con lo spazio pubblico: la città entra nella casa, è lo spazio della relazione. L’esperienza drammatica del terremoto e dello tsunami del 2011 ha attivato in merito allo spazio pubblico interessanti sperimentazioni architettoniche. Toyo Ito è stato il coordinatore di una delle numerose ricostruzioni nella costa Nord-Est che è partita proprio da quella che ha chiamato la Home for All, uno spazio architettonico aperto, punto di incontro che ha permesso di mantenere vivo il senso di comunità ritenuto dagli stessi sopravvissuti il bene primario(4). Un’architettura fatta per gli individui, dalle loro esigenze, tematiche su cui riflettere per affrontare al meglio il fenomeno dell’inurbamento che ci troveremo a vivere nell’immediato futuro.

aprile 2017


1)Nel 1853 la flotta statunitense costringe il Giappone a revocare l’isolamento dei propri porti e a firmare una serie di trattati commerciali con diversi paesi.
2)Hiroyasu Fujioka, «Una storia della casa indipendente nel Giappone moderno», in The Japanese House-Architettura e vita dal 1945 a oggi, Marsilio, 2016, pp. 13-23. Cat mostra a cura del MAXXI di Roma, il Barbican Art Gallery di Londra, la Japan Foundation e il Museum of Modern Art di Tokyo.
3)Pippo Ciorra, «I love japanese culture», in The Japanese House….cit, pp. 25-35
4)Questa esperienza è stata presentata al padiglione giapponese a cura di Toyo Ito, Architecture possible here? Home-for-All, 13. Mostra Internazionale di Architettura, Venezia, 2012.
aprile 2017