Roberto Mango, Riccardo Dalisi e un’antica raccolta di arti applicate

Brunella Velardi

C'è un lavorio silenzioso ma costante, un incedere deciso tra ostacoli quotidiani, nelle sale di piccoli e preziosi musei che, lontani dai chiassosi titoli della stampa, scelgono di continuare a perseguire l’interesse pubblico della valorizzazione di significative esperienze del territorio e di diffusione della loro conoscenza, per usare una terminologia ‘istituzionale’. Tra incolmabili scarsezze di risorse umane ed economiche, le iniziative dei poli museali regionali fanno spesso da inascoltato controcanto ai nomi altisonanti sfoggiati dai musei autonomi post riforma, davanti ai quali sembra a volte di assistere all’esibizione di un lusso quasi sfrenato, se confrontato con altre realtà, ma più rivolto ai grandi numeri delle inaugurazioni che impiegato in progetti lungimiranti.
Il museo Duca di Martina è uno dei gioielli meno noti tra quelli trasmigrati dalla ex Soprintendenza Speciale di Napoli all'attuale Polo museale della Campania: fa parte del nucleo storico del polo napoletano che fu diretto da Molajoli, Causa, Spinosa e vanta una raccolta unica di ceramiche e porcellane provenienti da fabbriche italiane, europee e orientali. Situato nella Villa Floridiana, che fu acquistata da Ferdinando di Borbone per la sua seconda moglie, Lucia Migliaccio duchessa di Floridia, il museo custodisce la collezione d'arti applicate di Placido De Sangro Duca di Martina, donata dal nipote allo Stato nel 1911. La raccolta copre un arco di tempo che va dal XII al XIX secolo e comprende oggetti ornamentali, servizi da tavola, mobilio, ma si distingue soprattutto per il ricchissimo nucleo di ceramiche, tra i più cospicui in Italia. Documenta, accanto alle pregiate porcellane di Limoges, di Vienna e di Meissen, alle ceramiche cinesi, giapponesi e islamiche, le maioliche faentine e napoletane, le produzioni di Capodimonte, Ferdinandea, Poulard Prad e Stingo, testimoniando la vivacità dell'industria artistica locale e i suoi esiti più raffinati.
È in coerente continuità con questo aspetto della collezione del duca che si è avviata al museo, negli ultimi anni, una serie di mostre di artisti napoletani accomunati da una sensibilità che li avvicina a esperienze internazionali, portando avanti una vera e propria politica di ricognizione dell'eccellenza artistica e artigianale del territorio e di divulgazione di esperienze recenti spesso più note all'estero o rimaste in sordina. Con questo spirito, nel 2014, il museo ha ospitato una mostra di ceramiche di Lino Fiorito, di formazione scenografo, tra gli animatori di Falso Movimento prima e Teatri Uniti poi (quello stesso laboratorio in cui sono maturati artisti come Paolo Sorrentino e Toni Servillo), sempre alla ricerca di nuove forme d’espressione. Si è dato così il via a una nuova stagione di proposte espositive proseguita nel 2016 con "Fiorire è il fine", retrospettiva di Clara Garesio, raffinata e poliedrica artista dotata di un'inventiva fertilissima che si traduce in un'instancabile proliferazione di oggetti dalle più varie morfologie e dai più vivaci accostamenti cromatici, con un'impronta ludica che la avvicina a molti artisti napoletani della sua generazione – si pensi allo stesso Dalisi, a Salvatore Paladino, a Gianni Pisani, solo per citarne alcuni.
Gli sviluppi più recenti della modellazione in ceramica fungono sempre da trait d'union con la collezione storica, e produzioni che si collocano in un terreno ibrido tra artigianato e disegno industriale, in bilico sul filo di un'incessante sperimentazione, rendono immediato ed evidente il passaggio dalle antiche arti applicate al design, passando attraverso una frequente ripresa delle tecniche artigianali. Come nel caso di Roberto Mango, designer raffinatissimo, docente nelle più prestigiose università degli Stati Uniti (Harvard, Columbia, Princeton) e ideatore di sedute diventate iconiche, dalla Sunflowers chair alla poltroncina per Ferragamo, entrambe esposte alla mostra attualmente in corso, "Roberto Mango designer 1950-1968", curata da Ermanno Guida. L'esposizione, esemplificativa di un gusto moderno tutto teso alla massimizzazione di materiali poveri e geometrie semplici tipica del programma di ricostruzione culturale del secondo dopoguerra, in perfetto equilibrio tra funzionalismo e sensibilità organica, delicatamente si inserisce nella sezione delle ceramiche orientali, introdotta da una piccola serie di piatti, cesti e portafiori in terracotta trafilata prodotti da SAV tra il 1954 e il 1955. Lasciato il posto alla più ampia sequenza delle sedute, l’allestimento richiama direttamente quelle seicentesche e settecentesche del piano superiore, in un’ideale successione cronologica del gusto legato a uno degli oggetti più “disegnati” della storia.
Una connessione che risulta ancor più lineare tra la raccolta del museo e la mostra "Dalisi a Pompei", in cui si mettono in scena le giocose suggestioni che l'universo figurativo antico ha suscitato in uno dei più fini maestri del design artigiano, dalle maschere del teatro alla raffigurazione del paesaggio, alle scene di genere. La selezione, pur con l'intento di soffermarsi su una porzione specifica della produzione di Dalisi, ne evidenzia l'agile versatilità, caratterizzata da una passione impegnata e da un approccio sempre lieve che si esprime in una continua mutevolezza di materie e forme, tra ripresa quasi letterale, seppure in chiave moderna, e rivisitazione talvolta ironica, talvolta grottesca.
Il consueto dialogo antico/moderno messo in atto attraverso il confronto tra edifici storici e opere d'arte contemporanea, tra i più frequenti dispositivi di richiamo dell’attenzione pubblica, è divenuto per noi visitatori di oggi un'abitudine senza tempo, che accogliamo spesso senza leggerne più i fili del discorso, le sue consonanze - se non quando sono particolarmente esplicite - o quel gioco di opposizioni che dovrebbe stimolare nuove riflessioni. Più o meno ben orchestrato, più o meno funzionale a una reale operazione culturale o all'allargamento delle fasce di pubblico, quell'accostamento lo diamo ormai per scontato al punto da aver inconsciamente  svuotato di significato il termine 'dialogo'. Breve riflessione squisitamente analitica e volutamente non critica nei confronti della prassi in sé, che va come sempre valutata caso per caso. È invece raro che si svolga come pratica consolidata, con radici nei decenni passati all'interno di una struttura territoriale, e che si configuri come disegno organicamente e fruttuosamente reiterato nel tempo. Insomma, sebbene quella delle mostre d'arte contemporanea nei musei dedicati all'arte del passato sia una formula ormai quasi abusata, qui assume un carattere peculiare, proveniente dall' intuizione del tutto avanguardistica che fece di Capodimonte - fino a pochi anni fa parte della stessa amministrazione del Museo Duca di Martina - il primo museo d'arte antica al mondo a dotarsi di una sezione d'arte contemporanea con opere site-specific proseguendo, a partire dal 1978, l'attività espositiva rivolta alle più significative esperienze nel contesto internazionale che era stata avviata alcuni anni prima già a Villa Pignatelli (1). La proposta espositiva degli ultimi anni in Floridiana, in tal modo, si sta ricollegando a quella stessa sensibilità verso le arti contemporanee che aveva improntato gli ultimi decenni, prima con mostre antologiche che documentavano le tendenze dell'arte a Napoli nel corso del XX secolo(2), poi con l'apertura, nel 2010, del Museo Novecento a Napoli di Castel Sant'Elmo (anch'esso parte della medesima struttura organizzativa).
Riconnettere i fili di un discorso decennale diviene allora un'operazione semplice, ma doverosa e non scontata. Nella sua introduzione al catalogo su Roberto Mango, significativamente intitolata "Per non dimenticare", la direttrice Luisa Ambrosio ricorda che per la mostra Fuori dall'Ombra, che si tenne a Castel Sant'Elmo nel 1991, furono infatti esposti molti  degli oggetti ora al Duca di Martina (come la Lampada a vela, le Sedie a cono e quelle ovali, il tavolo da pranzo ampliabile) e interamente a Mango fu dedicato  il contributo in catalogo per la sezione sul design. Analogamente, a Ugo Marano, presente alla mostra Rewind. Arte a Napoli 1980-1990 (Napoli, Castel Sant'Elmo, 2014-2015), nel 2016 al Duca di Martina è stata dedicata una personale che, mettendone in luce la propensione per l'uso della ceramica attraverso la presentazione di alcune serie di ciotole e grandi vasi, lo collocava a cavallo tra i campi della scultura e delle arti applicate. Guardando in retrospettiva appare allora evidente un'inclinazione naturale dei musei napoletani alla ricostruzione storica e alla restituzione di un quadro artistico che ha sempre incluso personalità di rilievo seppure talvolta sottovalutate dalla critica, una ostinata volontà di rispondere agli obblighi di divulgazione e valorizzazione di esperienze tra '900 e 2000. In questa chiave, i musei napoletani continuano ad essere parte, non solo perché costretti dall'assetto legislativo, di un unico organismo che si muove in maniera coerente, tentando di mantenere compatta una realtà che rischia quotidianamente di sfrangiarsi tra mille difficoltà, un mondo che si vivifica oggi non grazie alla disponibilità di grandi fondi ma, seguendo la scia tracciata dalle precedenti amministrazioni, nella ricerca di sempre più sinergie con il territorio e nella collaborazione con curatori, gallerie, università, rende possibile la costruzione di nuovi progetti a servizio della cultura e della città.

Luglio 2017



1) Racconta Nicola Spinosa, all’epoca funzionario in Soprintendenza: «con Lucio Amelio s’avviò il progetto di ‘contaminare’ con opere di artisti contemporanei anche i nostri musei d’arte antica, complice inizialmente perplesso, poi consenziente e sempre più entusiasta Raffaello Causa. Era il ’76 e si cominciò con Mario Merz, a Villa Pignatelli, per poi invadere, due anni dopo, addirittura le sale del secondo piano di Capodimonte, con una mostra di Alberto Burri», in N. Spinosa, A. Tecce (a cura di), Museo Nazionale di Capodimonte. Arte contemporanea, Electa Napoli 2002, p. 11.
2) Si pensi alle personali a Villa Pignatelli (Barisani, Alfano, Spinosa, Emblema, Pisani solo negli anni ’70) e alle antologiche (Fuori dall’Ombra: nuove tendenze dell’arte a Napoli 1945-1965, Castel Sant’Elmo, 1991; Arte a Napoli dal 1920 al 1945: gli anni difficili, Villa Pignatelli, 2000; Castelli in aria. Arte a Napoli di fine millennio, Castel Sant’Elmo, 2000) e poi ancora alla stagione di mostre personali a Castel Sant’Elmo degli anni Duemila (Fermariello, Giliberti,  (CIT NOTA MOSTRE PICONE, impass naufr., villa pign, FDO, CAST IN ARIA, personali di gilib fermar ecc).