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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Simona Antonacci
 
Lo suggerisce Antonello Frongia, storico della fotografia invitato ad animare un dibattito post-mostra su Alfabeto Fotografico Romano, la collettiva ospitata all’Istituto Nazionale per la Grafica, a Palazzo Poli, dal 16 maggio al 2 luglio. E lo ribadisce, in una conversazione informale, anche Maria Francesca Bonetti, ideatrice e curatrice di quella stessa mostra insieme a Clemente Marsicola: Roma è un “museo diffuso” di fotografia. E ancora Carlo Bertelli: «Roma è una capitale internazionale della fotografia» (1).
Chi frequenta la vita culturale romana può rimanere sorpreso da questa constatazione, soprattutto se si prende come riferimento la programmazione degli ultimi anni a fronte della quale si fa fatica a identificare la città eterna come una delle “centralità” della fotografia in Italia.
Ma la dinamicità che ha percorso la città negli ultimi mesi (dal punto di vista del dibattito intellettuale e delle attività realizzate) induce a riflettere su un nuovo possibile corso: appena la settimana scorsa la bella edizione 2017 di Fotoleggendo ha segnato un salto di qualità, aggiornando i percorsi degli addetti ai lavori (con mostre di autori quali  Larry Fink e Michael Ackerman e tanti spazi indipendenti che punteggiano la mappa della città) e chiudendo un paio di mesi intensi per la riflessione intorno allo status della fotografia.
Del merito del confronto che si è acceso intorno a questo tema (in realtà presente sottotraccia da tempo, ma ora finalmente emerso anche agli onori della cronaca) possono compiacersi diverse istituzioni culturali pubbliche che (più per caso che per strategia) si sono trovate ad operare nello stesso momento, sovrapponendo ed intrecciando la propria azione: l’istituzione in seno al MIBACT e per volere diretto del Ministro Franceschini di una Cabina di Regia sulla fotografia, diretta da Lorenza Bravetta, ex direttrice di Camera a Torino; la Giornata in onore di Marina Miraglia, organizzata dall’Istituto centrale per la grafica con la Società Italiana per lo Studio della Fotografia nel mese di maggio proprio a Palazzo Poli; l’avvio di un’operazione di censimento delle raccolte fotografiche italiane e la rete che ha preso forma intorno alla mostra Alfabeto Fotografico Romano, che si sta configurando come una significativa esperienza di dialogo inter-istituzionale. All’esposizione si affiancano infatti un ricco catalogo che funge da “luogo” a un tempo di orientamento generale e di approfondimento, e una programmazione di attività finalizzate alla “reciproca conoscenza” tra le diverse, anzi diversissime, istituzioni culturali pubbliche coinvolte. Ben trenta.
Ideato e curato congiuntamente dall’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione e l’Istituto centrale per la grafica, il “progetto a lungo termine” (così sembra opportuno definirlo) Alfabeto Fotografico Romano restituisce, mediante un percorso articolato attraverso ventuno parole chiave, una trama di storie che si intrecciano e integrano dando forma a un tessuto straordinariamente denso e, in gran parte, misconosciuto.
Un primo percorso di senso riguarda la centralità della città di Roma, definita come «uno dei principali centri di produzione fotografica, oltre che di sperimentazione e di irradiazione delle più precoci tecnologie del mezzo, alle sue origini»(2),  benché l’ingresso della fotografia nei circuiti istituzionali e in quelli editoriali sia avvenuto con ritardo rispetto ad altre capitali europee(3).  Soggetto privilegiato di studio e allo stesso tempo oggetto d’amore di generazioni di viaggiatori, il paesaggio artistico e archeologico di Roma ha prodotto un immaginario che ha viaggiato per decenni attraverso la fotografia lungo tutta l’Europa.
La storia della diffusione di visioni della città eterna e della sua iconografia specifica nel corso del tempo si intreccia con quella della produzione di quelle stesse immagini: alcuni operatori stranieri come l’inglese James Anderson, il francese Eugène Constant, il tedesco Giorgio Sommer, sono esempi del processo “para-imprenditoriale” di commercio e distribuzione di repertori di immagini fin da metà dell’Ottocento. «Un caso particolare - suggerisce Maria Francesca Bonetti - è quello di Henry Parker, tra i primi a commissionare riprese ad altri fotografi. L’esteso repertorio da lui costituito è testimoniato da materiali fotografici di varia natura presenti in parte negli archivi della British School, in parte all’Istituto Archeologico Germanico, ma anche nel Fondo Tuminello dell’ICCD, nelle raccolte fotografiche del Museo di Roma a Palazzo Braschi e all’Accademia Americana»(4).   
Dagli amatori d’arte agli storici dell’arte. Una vasta fetta della produzione fotografica fin dalla seconda metà dell’Ottocento riflette infatti l’interesse dimostrato per questo mezzo da studiosi come Giovan Battista Cavalcaselle, Adolfo Venturi, Giovanni Morelli, Corrado Ricci, che ne hanno fatto un utile strumento di documentazione e ricognizione iconografica, fondando la disciplina scientifica della storia dell’arte(5). Dalla ripresa degli affreschi raffaelleschi nella volta della Sala di Amore e Psiche alla Villa Farnesina, fino alla testimonianza offerta da Gianni Berengo Gardin della contestazione nel 1968 alla Biennale di Venezia, l’immagine fotografica ha rappresentato un luogo di registrazione e restituzione non solo delle opere d’arte, ma anche del mondo che intorno all’arte gira. 
E, ancora, l’esigenza - testimoniata da figure come Giuseppe Ceccarelli e Silvio Negro, giornalisti e scrittori, o Piero Becchetti, collezionista e studioso di fotografia - di raccogliere una documentazione relativa allo stato della città di Roma, permette la formazione di nuclei fotografici che confluiranno in alcune raccolte pubbliche romane come quella di Palazzo Braschi. Una storia, quella della documentazione del territorio, che prosegue con i progetti di Committenza affidati dalla Direzione generale per l’Arte e l’Architettura contemporanee del MIBACT all’inizio degli anni Duemila a diversi autori, i cui risultati costituiscono il fondamento della Collezioni di Fotografia del MAXXI Architettura.
Così i fili narrativi relativi alla produzione, distribuzione e destinazione d’uso delle immagini si fondono per dar forma ad una stratificata e trasversale storia del collezionismo fotografico e delle istituzioni: «Il soggetto centrale di Alfabeto Fotografico Romano in fondo non è la singola fotografia, ma l’archivio – in una accezione che accoglie raccolte, collezioni, fototeche e fondi, o meglio “sedimentazioni fotografiche”, la cui peculiare storia aggregativa dà conto di precipui contesti e circostanze storiche, sociali, culturali che vanno intesi naturalmente come un “tutto”, un intero il cui valore sociale e culturale va ben oltre l’insieme delle singole fotografie»(6), spiega ancora Bonetti. Le loro storie trovano un utile strumento di approfondimento proprio nel catalogo della mostra che si caratterizza per essere uno strumento di studio trasversale. La serie di incontri tra responsabili dei diversi archivi, già avviata con la conferenza  Spunti e riflessioni attorno a un’esperienza di collaborazione interistituzionale, che si è svolta all’ICCD il 28 giugno scorso, dà conto di una rete tracciata, mettendo in luce i nodi chiave che vanno affrontati: non solo l’esigenza di visibilità e conoscenza degli archivi stessi e di un supporto da parte delle istituzioni pubbliche preposte alla tutela, ma prioritariamente l’avvio di un programma strutturato di formazione specifica sulla gestione, conservazione, valorizzazione del patrimonio fotografico.
L’intreccio di tutte queste narrazioni evidenzia la natura peculiare di un linguaggio che si configura come corpo vivo, i cui confini sono sfuggenti per antonomasia. E se si riflette su questo ecco che prende forma un’altra narrazione ancora, quella della “materialità” della fotografia, che solo l’esperienza vivida della visita alla mostra può offrire: la declinazione straordinaria dell’“oggetto” dal punto di vista della varietà dei linguaggi, delle tecniche, dei formati, è restituita a Palazzo Poli dal sorprendente accostamento di stampe all’albumina e stampe inkjet, dagherrotipi e negativi al collodio.
La scelta di articolare l’esposizione intorno al dispositivo narrativo dell’alfabeto si configura dunque come la più adeguata: struttura fondante che definisce una griglia, che pone le “condizioni di possibilità” e apre a infinite discorsività “in potenza”. Da acque a zibaldone, passando per bellezza, giochi, radici, quotidianità, urbanistica, «le parole prescelte non definiscono né categorie, né generi fotografici; sono piuttosto evocative e motivo di suggestione per sondare nella memoria depositata negli archivi, e riportare in evidenza storie, fatti, oggetti, opere, autori, personalità, relazioni, spesso sconosciuti e inesplorati»(7). Uno strumento di indagine, dunque, per un percorso in essere.
Ma forse più di ogni altra cosa, per chi ha avuto la fortuna di vedere la mostra ma anche per chi esplora oggi il catalogo, rimane l’esperienza di un racconto per immagini che testimonia la vocazione del testo visivo nel farsi partitura, composizione di armonie, giustapposizioni, pause, rispecchiamenti, scarti. Di farsi ora silenzio, ora suono, lasciando a chi osserva le immagini la possibilità di ascoltarle, singolarmente e come complesso, di seguirne il ritmo. Ogni fotografia accanto all’altra, nella relazione visiva con l’altra, illumina la precedente, ne fa brillare nuovi sensi e significati. Il risultato è una mostra che funziona.
Merito di chi ha saputo dirigere questa orchestra, in virtù di una conoscenza storica profonda e di una sensibilità sedimentata dall’esperienza nel cogliere ogni sfumatura sonora, ogni profondità di colore di questo inesauribile museo diffuso.
Conoscenza e sensibilità, ci dice sottotraccia il progetto, sono le virtù fondanti per offrire al pubblico – nonostante la scarsità di risorse di cui le istituzioni pubbliche sono tante volte vittime e le peregrine condizioni burocratiche in cui gli operatori culturali sono costretti ad operare – un’esperienza che rimane. Un’esperienza che sembra restituire l’aura all’opera d’arte, anche nella caotica epoca della sua riproducibilità.

Luglio 2017



1)Carlo Bertelli in Alfabeto fotografico romano, catalogo della mostra a cura di Maria Francesca Bonetti e Clemente Marsicola, Istituto centrale per la grafica, Palazzo Poli, Roma, 16 maggio – 2 luglio 2017, ed. ICCD, Roma 2017, pag. XIX.
2)Maria Francesca Bonetti, «Elogio delle differenze», in Alfabeto.., op. cit., pag. XXXIX.
3)Idem.
4)Dalla conversazione dell'Autrice con Maria Francesca Bonetti, 4 luglio 2017, Palazzo Poli, Roma.
5)Stesso discorso vale anche per altre discipline, come l’archeologia e l’antropologia, che hanno adottato la fotografia come strumento di registrazione, dando vita a campagne fotografiche che spesso trascendono la semplice testimonianza visiva per entrare nel campo dell’interpretazione autoriale.
6)Dalla conversazione del 4 luglio 2017.
7)Clemente Marsicola, «Il senso della mostra», in Alfabeto…, op. cit., pag. XXXIII.