Una narrazione “negoziata” nella Collezione Donata Pizzi

Simona Antonacci

«Quello che hanno in comune le storie raccontate dalle donne è l’esserci profondamente, che si siano trovate dentro l’immagine o dietro l’obiettivo. Quasi mai fredde testimoni, sempre coinvolte partecipanti […] con una propensione speciale, innata, a non riuscire ad essere turisti distratti, distaccati voyeur. La fotografia stimola la partecipazione e il “sentire insieme” e questa dimensione si rivela la più adatta alla psicologia delle donne»(1) scrive la storica della fotografia Federica Muzzarelli.
Questa “propensione speciale” ad esserci, ad essere attori partecipi del presente e ancor più al “sentire insieme”, sembra essere proprio l’attitudine che ha guidato la fotografa Donata Pizzi nel progetto di costruire una collezione - o più precisamente di costruire una narrazione - della “fotografia fatta dalle donne” negli ultimi cinquant’anni.
Obiettivo implicito di questo progetto non è individuare un eventuale “specifico femminile” - intenzione che sembra ormai definitivamente superata perché, a suo modo, sentita come una etichetta ghettizzante per il lavoro delle donne stesse - ma piuttosto tessere il filo di una storia che è stata indubbiamente in parte rimossa e che necessita di essere portata alla luce nelle sue diverse declinazioni e forme espressive.
Del resto il rapporto tra le donne e la fotografia, come sottolinea Federica Muzzarelli(2),  affonda le sue radici alla fine dell’Ottocento e si configura a partire da una comune “alterità” rispetto al sistema dominante e dal conseguente desiderio di legittimazione: da una parte quello dello strumento “tecnologico” della fotografia che anela un proprio riconoscimento sul piano dell’espressione artistica; per l’altro quello di una minoranza che avvia i primi tentativi di emancipazione e rivendicazione dei propri diritti. Da quel momento in poi il legame tra donne e pratica fotografica diventa un campo di sperimentazione che prende forma nei termini ora della testimonianza, della denuncia e dell’incontro con l’altro; ora dell’esplorazione e dell’affermazione del proprio corpo; ora dell’indagine di sé, della propria identità e del proprio mondo emotivo.
Una storia di cui la collezione costituita da Donata Pizzi a partire dal 2015 dà conto con inedita forza e puntualità.
La sua collezione raccoglie ben 250 opere (non solo fotografie, ma anche pubblicazioni) e, proprio per la sua ampiezza, si offre ad essere un bacino a cui attingere per diverse possibili narrazioni e percorsi di senso. Alla mostra che si è chiusa nel gennaio 2017, intitolata L’altro sguardo. Fotografie italiane 1965-2015, curata da Raffaella Perna a Milano(3) – peraltro prima esperienza del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo nella sede della Triennale - è seguita la rilettura offerta da Silvia Camporesi, fotografa prestata alla curatela, con una esposizione all’interno del SI FEST, il Festival di fotografia che si svolge da ventisei anni a Savignano sul Rubicone, nel mese di settembre(4).
Il primo nucleo storico della collezione di Donata Pizzi è dedicato ai capisaldi della fotografia di reportage degli anni Sessanta e Settanta: il desiderio di dar voce a gruppi emarginati socialmente, come i travestiti di via del Campo a Genova, ritratti da Lisetta Carmi a partire dal 1965; quello di indagare la dimensione di emarginazione e dolore che attraversa i manicomi psichiatrici, nella documentazione realizzata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin poi pubblicata in Morire di classe (1969); quello di denunciare i fatti di cronaca che violentano la città di Palermo, nel lavoro di Letizia Battaglia; quello di restituire dignità a una cultura in via di sparizione come quella dei contadini delle Langhe, ritratti da Paola Agosti alla fine degli anni Settanta. E ancora le cronache e testimonianze di Giovanna Borgese, Lina Pallotta, Elisabetta Catalano.
A questo nucleo si affiancano i lavori altrettanto incisivi, ma per altro verso graffianti, che nascono con l’intenzione di  demistificare i cliché legati all’immagine della donna e quelli che danno forma espressiva alle lotte apertamente politiche di quegli anni. Particolarmente significative da questo punto di vista le fotografie di Gabriella Mercadini e Liliana Barchiesi che, con sguardo differente, documentano le attività dei gruppi femministi. Molti poi sono i progetti artistici che  «utilizzano la fotografia come strumento per raccontare la realtà attraverso l’assunzione di uno sguardo sessuato che esplora le differenze di genere»(5),  come avviene nella maquette del libro Ci vediamo il mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo(6),  prodotto dal collettivo femminista Gruppo del mercoledì, o nelle opere di autrici quali Agnese Di Donato, Tomaso Binga, Verita Monselles, Paola Mattioli, Libera Mazzoleni, Lucia Marcucci e Ketty La Rocca.
La centralità dell’universo familiare e quotidiano, raccontato con un punto di vista preferibilmente laterale e vivificato da una rinnovata sperimentazione linguistica, accompagna gli anni Novanta. Benché le pratiche possano apparire simili a quelle degli anni Settanta, è differente lo spirito con cui operano le artiste, ora anti-ideologico, marginale, precario. Microstorie, narrazioni di fallimenti, memorie che riaffiorano e immagini trovate che vengono riattivate da interventi minimi: Moira Ricci, ad esempio, si riappropria del ricordo della propria madre morta prematuramente inserendosi accanto a lei nelle vecchie fotografie di famiglia. La dimensione familiare è oggetto di indagine emotiva anche nel lavoro di Anna Di Prospero, mentre Allegra Martin offre un racconto minimo, fatto di piccoli spostamenti di luci e movimenti. Nel lavoro di Alessandra Spranzi la manipolazione di immagini trovate, quelle dei rotocalchi degli anni Sessanta, ha implicazioni inquietanti, mentre quello di Michela Palermo testimonia la continuità e la vivezza del reportage fino agli anni Duemila.
Abbiamo rivolto alcune domande a Donata Pizzi per comprendere meglio insieme a lei le linee guida di questo progetto, le cui implicazioni storiografiche e critiche appaiono ben più ampie di quelle legate alla semplice acquisizione di un nucleo di opere per una collezione privata.
1.
L’aspetto che mi ha colpito fin dal principio a proposito della tua Collezione, è il brevissimo tempo in cui la hai riunita: a partire dal gennaio 2015, quando acquisti il primo lavoro di Lisetta Carmi (7).  
Da subito questa urgenza mi ha fatto pensare che ci fosse una ragione forte alle spalle. Un’intenzione che si chiarisce quando si entra nel merito della struttura della tua raccolta: si tratta di una della panoramiche più accurate e puntuali sulla fotografia “al femminile” degli ultimi 50 anni in Italia. Un lavoro di ricostruzione storica così rigoroso da apparire quasi inconsueto per una collezione privata e più affine al progetto strutturato che potrebbe (dovrebbe) compiere una istituzione pubblica.
L’impressione, insomma, è che con la tua collezione tu abbia voluto fare il punto, colmare una lacuna e, allo stesso tempo,  avviare un processo di storicizzazione dall’interno.
Mi sembra tu abbia voluto “mettere le cose a posto”, in modo risoluto e risolutivo, assumendo - con un gesto e una visione prettamente femminili - il compito di farti carico e di prenderti cura della fragile storia della fotografia fatta dalle donne.
Mi ricollego anche a quanto affermi nell’intervista presente nel catalogo della mostra alla Triennale, a cura di Raffaella Perna: «Ho conosciuto a fondo diversi aspetti della professione, rendendomi presto conto della mancanza in Italia di una reale considerazione per il contributo della fotografia nel panorama culturale e per il ruolo professionale del fotografo»(8).
Puoi spiegare da quali ragioni profonde – personali e di contesto culturale - prende le mosse la costituzione della tua collezione?
Dico sempre che ho voluto la collezione per rabbia, sembra esagerato, ma avendo lavorato tutta la vita come fotografa ho visto da dentro e in profondità la situazione che fino a pochissimo tempo fa era obiettivamente di vuoto per la fotografia italiana d’autore, ancora più evidente se confrontata con l’interesse per la fotografia e le mostre blockbuster che ruotano attorno ai grandi numeri del mondo e del mercato dei fotoamatori e dei dilettanti.
Penso che la fotografia d’autore vada protetta, che si debbano allestire mostre anche storico- critiche in sedi importanti e con rigore scientifico: queste possono naturalmente convivere/alternarsi a mostre più popolari, ma una distinzione esiste e il pubblico e il sistema a cui mi rivolgo sono vicini e numerosi se ad esempio per la mostra in Triennale, abbiamo avuto 25.000 visitatori paganti.
2.
Un secondo aspetto che trovo straordinariamente rilevante e inedito – e in questo senso vicino a un gesto “autoriale”, ma ci torneremo alla fine – è il “metodo” di ricerca attraverso cui hai acquisito le opere della collezione: le hai scelte avviando un dialogo direttamente con le artiste, valutando con loro i lavori più significativi, compiendo dunque la “mossa del cavallo” con un movimento critico dialogicamente non lineare e di continua verifica.
L’inclusione della voce diretta delle artiste e la negoziazione con loro di questo discorso mi hanno fatto tornare alla mente le parole di Michel Foucault in relazione alla definizione della contro-storia rispetto alla storia con la “s” maiuscola: una narrazione che tiene conto delle micro-storie decentrate e che si fa carico, in primis, dei “saperi assoggettati”, vale a dire quei «blocchi di saperi storici che erano presenti e mascherati all’interno degli insiemi funzionali e sistematici [ma anche] quei saperi che si erano trovati squalificati»(9) perché ingenui, locali, non sufficientemente elaborati. I saperi delle lotte, che si muovono attraverso grovigli di corpi, di casi e di passioni, secondo Michel Foucault(10).  Un groviglio di cui senz’altro la fotografia realizzata dalle donne fa parte.
Nel recupero di questa storia assoggettata e nella negoziazione con le stesse artiste di questa narrazione, prende forma un percorso di legittimazione che non è calato dall’esterno: questa forma di “autodeterminazione” della propria storia da parte delle stesse autrici - benché per certi versi possa risultare azzardata per il rischio di autoreferenzialità - rappresenta mi sembra una efficace soluzione alla diffidenza con cui le fotografe e le artiste in generale hanno sempre guardato ai tentativi di scrivere la loro storia.
Proprio per la peculiarità di questo approccio vorrei chiederti: come si è svolto il confronto con le artiste in merito alla selezione dei lavori? E come avete lavorato alla costruzione di una storia della fotografia delle donne, con quali reazioni da parte loro?
Per me è stato naturalissimo definire l’area di ricerca attorno alle fotografe italiane: da sempre, anche nella professione di fotografa ho avuto come guida alcune immagini che  ora sono in collezione. Penso alla serie Mondo Cocktail di Carla Cerati, alle femministe concettuali come Marcella Campagnano, Paola Mattioli, Lucia Marcucci al lavoro di Paola Agosti, Giovanna Borgese e di Alessandra Spranzi, e tra le giovani Moira Ricci. Con tutte il confronto è stato intenso anche in incontri brevi, ma proprio tutte hanno contribuito con intelligenza e generosità. Hanno compreso che non si trattava di una scelta femminista  e con sottigliezza hanno suggerito molto, oltre la fotografia. Certo c’è chi si considera un’artista che utilizza la fotografia e chi invece si ritrova nel ruolo più tradizionale di reporter, ma esattamente questo è la collezione, uno scenario vasto, vario e in evoluzione non solo nella fotografia, ma anche la storia di come è cambiata la nostra società e all’interno di quella il ruolo delle donne e la loro presenza sulla scena dell’arte.
Veniamo ad aspetti meno teorici e più concreti: il fatto che tu abbia avuto la possibilità di costituire una collezione di questo tipo in così poco tempo mi fa pensare che ci sia uno stallo nel mercato, insomma che le opere delle fotografe o artiste che lavorano con la fotografia non siano ancora sufficientemente valutate e che anzi le loro quotazioni siano piuttosto basse.
Quale situazione hai trovato da questo punto di vista? Le artiste sono consapevoli del valore dei propri lavori? E il mercato come si comporta? Quali sono state le tue scelte?
Ho dovuto confrontarmi con situazioni differenti: ho prediletto il vintage per le fotografe storiche, e queste sono immagini di piccole dimensioni, fragili, spesso con tirature aperte, di scarso mercato. Per fotografe militanti come Augusta Conchiglia, Gabriella Mercadini, che purtroppo non c’è più, l’idea di vedere una fotografia in mostra era impensabile, in questi casi ho potuto comprare ad esempio una serie di 10 stampe.
Per le più giovani al contrario il mercato, quasi sempre internazionale, è una realtà già da tempo e i prezzi variano nell’ordine delle migliaia di euro, anche tenendo conto che in questi casi abbiamo spesso grandi e grandissime stampe fine art.
Per tutte ho voluto imporre/impormi criteri di valutazione e di trasparenza indispensabili per lo sviluppo di un mercato serio come già quello estero: tutte le  fotografie hanno un certificato di autenticità (COA) che descrive opera, tecnica, tiratura e tutti i valori delle opere sono dichiarati.
Per l’intenzionalità e la forza delle scelte critiche che hai fatto - e a fronte della tua trentennale attività nel campo della fotografia come autrice e non solo - la costituzione della collezione può avere a mio avviso la valenza di un gesto autoriale, che agisce in un campo di produzione di senso partecipata e condivisa.
Come collochi questo progetto nell’ambito della tua esperienza di autrice?
Sicuramente il mio miglior progetto, quello che mi ha maggiormente impegnata e divertita  e che resterà spero come un utile contributo alla collettività quando finalmente riusciremo a vedere la fotografia inserita al pari di ogni altra arte all’interno dei percorsi museali ed espositivi  in una giusta considerazione anche in Italia per il contemporaneo.

[Ottobre 2017]



1) Federica Muzzarelli, «Le donne e la fotografia», in L’altro sguardo. Fotografie italiane 1965-2015. Dalla collezione Donata Pizzi, catalogo della mostra a cura di Raffaella Perna, 5 ottobre 2016 – 8 gennaio 2017 presso Triennale di Milano, Silvana editoriale, Cinisello Balsamo (MI) 2016, pag. 33.
2) Federica Muzzarelli, «Le donne e la fotografia..», op. cit.
3) L’altro sguardo. Fotografie italiane 1965-2015. Dalla collezione Donata Pizzi, mostra a cura di Raffaella Perna, Triennale di Milano, 5 ottobre 2016 – 8 gennaio 2017.
4) Fotografie dalla collezione di Donata Pizzi. Il tutto è maggiore delle parti, mostra a cura di Silvia Camporesi all’interno di SIFEST26, Savignano sul Rubicone, 8 - 24 settembre 2017.
5) Raffaella Perna, «La Collezione Donata Pizzi: la fotografia delle donne in Italia dagli anni sessanta a oggi», in L’altro sguardo, op. cit.  pag. 17.
6) Il gruppo era composto da: Bundi Alberti, Diane Bond, Mercedes Cuman, Paola Mattioli, Adriana Monti, Esperanza Núnez e Silvia Truppi. Si cfr. Cristina Casero, Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo, articolo pubblicato in http://operaviva.info/ci-vediamo-mercoledi-gli-altri-giorni-ci-immaginiamo/ .
7) Si cfr. Silvia Camporesi, «Fotografie dalla collezione di Donata Pizzi. Il tutto è maggiore delle parti», in Ad Confluentes, catalogo di SIFEST26, Savignano sul Rubicone, 8 - 24 settembre 2017, Pazzini editore, Rimini 2017, pag. 82.
8) L’altro sguardo, op. cit.
9) Michel Foucault, Il faut défendre la societé. Cours au Collège de France 1975-1976, Gallimard, Paris 1997; trad. it. Bisogna difendere la società, a cura di M. Bertani e A. Fontana, Feltrinelli, Milano 1998, pag. 51.
10) Michel Foucault, Il faut défendre…, op. cit., pag. 52