La politica di moltiplicazione dei musei

Daniela De Dominicis

È una storia lunga dieci anni quella della sede del Louvre appena inaugurata negli Emirati Arabi(1), iniziata con l’annuncio avvenuto nel marzo del 2007 di un accordo intergovernativo(2) trentennale tra la Francia e l’Emirato di Abu Dhabi. I termini di questo impegno hanno vincolato la Francia alla realizzazione del progetto architettonico e al prestito delle opere in esso contenute – trecento, su un totale di seicento, quelle di proprietà francese, provenienti da ben dodici musei nazionali(3) – in cambio di forse addirittura un miliardo di euro elargiti con scansione periodica per il tempo di validità dell’accordo(4). Il logo del Louvre garantirà l’alto profilo scientifico di quattro mostre annuali nonché la graduale sostituzione delle opere in comodato, con altre di proprietà. I tempi di realizzazione del progetto si sono in realtà duplicati anche per l’irregolarità dei versamenti monetari dell’Emirato alla Francia. La battuta d’arresto del 2011, in seguito alle rivolte della primavera araba e agli effetti della crisi economica globale, ha fatto paventare la rescissione del contratto, arrivando all’inaugurazione del complesso solo nel novembre 2017 invece del 2012 come originariamente previsto. Un’operazione spregiudicata che ha dato luogo a un’infinità di polemiche sia per l’uso disinvolto delle opere d’arte, trattate come merce ad alto ritorno monetario, sia per la conseguente metamorfosi del concetto di museo in sé, che proprio nella Francia dei Lumi ha trovato la sua più alta definizione teorica, identitaria, educativa.
Il Louvre-Abu Dhabi, realizzato da Jean Nouvel, sorge sull’isola di Saadiyat (traducibile in del benessere o della felicità), proprio di fronte alla capitale dell’Emirato, su un lembo di terra di 27 km di lunghezza destinata ad un turismo di altissima levatura, con alberghi e resort di lusso. Il fiore all’occhiello dell’isola sarà però il Cultural District, un concentrato di ben cinque musei, in collaborazione con le più importanti istituzioni conservative mondiali (oltre il Louvre, il British e il Guggenheim), tutti firmati da famosi architetti.
Ad affiancare l’appena inaugurato museo, sono previsti infatti lo Sheikh Zayed National Museum di Norman Foster, il Guggenheim di Frank Gehry, il Performing Arts Center di Zaha Hadid e il Museo Marittimo di Tadao Ando. Gli ultimi due a tutt’oggi sono in realtà ancora solo un progetto, mentre lo stato dei lavori per i musei di Foster e di Gehry è già avanzato, ma nulla si ipotizza sulla loro conclusione(5), anzi il British Museum, attraverso le dichiarazioni del suo portavoce Hannah Boulton, ha per ora rinunciato alla collaborazione prevista(6).
Gli Emirati stanno investendo massicciamente sull’architettura e sui rapporti culturali con l’Occidente. Nel 2020 Dubai ospiterà l’Expo Internazionale, la prima in Medio Oriente, per la quale sono previsti 25 milioni di visitatori che potranno usufruire di tre diversi aeroporti nuovi di zecca. Dalla seconda metà degli anni Sessanta, con i proventi dei giacimenti petroliferi, questa parte del mondo ha visto villaggi economicamente depressi trasformarsi in poco tempo in città tecnologicamente avanzate, con una rincorsa spasmodica della modernità a tutti i costi che ha saputo superare anche la battuta d’arresto della crisi finanziaria globale del 2008 – a Dubai vi è il grattacielo più alto del mondo, il Burj Khalifa(7), nonché le costosissime isole artificiali a forma di palma(8) – ma a tutto questo non ha fatto seguito una modernità sociale e culturale. La popolazione resta rigidamente divisa in classi sociali, nessuna possibilità di libero pensiero, i mezzi di comunicazione sono sotto lo stretto controllo delle autorità. La Human Rights Watch a partire dal 2009 ha pubblicato tre diversi rapporti sulle condizioni di lavoro sull’isola di Saadiyat, uno dei quali proprio sul cantiere del Louvre, prima che nel 2014 le fosse negata la possibilità di accesso al Paese. Da questi rapporti emerge che i lavoratori migranti – il 90% della forza lavoro delle imprese costruttrici – provenienti principalmente dall’India, dal Pakistan e dal Bangladesh, operano in condizioni di quasi schiavitù, con salari ridottissimi, privati del passaporto, senza sistemi di sicurezza e senza diritto di protesta(9). Tutto ciò ha prodotto notevole imbarazzo in Occidente, soprattutto in Francia, suscitando interrogativi sull’opportunità di fare da sponda a regimi così autocratici.
Ma veniamo al museo. Jean Nouvel ha creato un edificio di grande suggestione, caratterizzato da una tenda circolare ad arco ribassato – universale forma di riparo e accoglienza – con un diametro di 180 metri e realizzata con una tessitura di acciaio a otto trame sovrapposte a forme geometriche. Sotto questo cielo, così lo ha definito l’architetto in conferenza stampa, trovano riparo 55 ambienti diversi – come un piccolo villaggio bianco – nei quali si articolano le sale espositive e le strutture di funzionamento per un totale di 87 mila mq. L’acqua che circonda il museo si incanala in parte all’interno, permettendo così l’approdo anche via mare, mentre dalle maglie della copertura penetra una pioggia di luce zenitale, molto scenografica, che unifica i passaggi da un settore all’altro, attenua i raggi solari di giorno e lascia trapelare l’illuminazione interna di notte, ispirandosi, nel disegno e nella funzione, alle antiche mashrabiye arabe(10).
Il percorso di visita si divide in settori con un’articolazione cronologica che va dalla civiltà sumera a quella contemporanea. Una sorta di museo universale con opere organizzate cronologicamente e per tematiche. Snodo centrale è la sala dedicata alle grandi religioni (cristianesimo, buddismo, ebraismo e islamismo) presentate senza gerarchie di sorta con la finalità dichiarata di creare un ponte tra Oriente e Occidente basato sulla condivisione di valori comuni, tra i quali, naturalmente, l’arte. Jean-Luc Martinez, il direttore del Louvre, ha sottolineato l’idea di un museo che guarda il mondo da Abu Dhabi ed è evidente che questo museo veda nell’Europa, e nella Francia in particolare, un interlocutore privilegiato. Tra le opere in prestito, campeggia la figura di Napoleone a cavallo di J.L. David ed è curioso pensare che in fondo la prima idea di un museo universale, così tenacemente perseguita, sia stata proprio dell’Imperatore e il Louvre-Abu Dhabi sembra in questo, rendergli omaggio.
Il museo parigino è arrivato così a triplicarsi poiché già dal 2012 possiede una seconda sede a Lens(11), nel Nord della Francia. Ma questo fenomeno di filiazione non è inedito, il primo a promuoverlo è stato il Guggenheim di New York che dal 1976 gestisce anche la sede di Venezia, nel 1997 ha inaugurato quella di Bilbao e, come già ricordato, è in attesa di completare i lavori per la sede di Abu Dhabi. Nel 2016 si è assistito anche alla moltiplicazione del Metropolitan, triplicato anch’esso, senza valicare però i confini della città di New York(12).
Ma il complesso museale che ha fatto della delocalizzazione quasi un fiore all’occhiello è indubbiamente il Centre Pompidou. La filiazione inaugurata a Metz(13), nel Nord-Est della Francia nel 2010, non è stata che la prima di una lunga serie in programma. Oltre alla sede spagnola di Málaga(14) già operativa, il Governo francese ha recentemente firmato accordi per le prossime aperture di Bruxelles e Shanghai(15), viceversa l’annunciata ipotesi di un accordo con Seul non sembra per ora essersi concretizzata. Tra il 2011 e il 2013 questo museo ha inoltre organizzato delle strutture mobili itineranti che hanno veicolato parte dei suoi capolavori in sei città francesi(16).
Tutto ciò ha suscitato un nutrito dibattito circa l’opportunità o meno di frammentare e dislocare altrove istituzioni museali, per loro natura profondamente radicate nella storia delle rispettive aree geografiche. I musei che hanno optato per questa gestione disinvolta, sembrano aver derogato al compito di tutela e di conservazione dei beni collettivi del proprio patrimonio, simbolo di identità culturale e, secondo le normative europee, inalienabili. È pur vero che le sedi estere del Louvre e del Pompidou qui esaminate, si basano su un prestito temporaneo delle opere, ma quando questo è trentennale si fa fatica a percepirlo come tale. A ciò si aggiungono inoltre le nutrite richieste di cessioni per le mostre temporanee: Le Fifre di Manet, prima di essere dislocato ad Abu Dhabi, è stato prestato ben quindici volte in tempi recenti, per altrettante esposizioni. Ciò apre un altro aspetto spinoso della gestione museale ovvero l’opportunità di sottoporre antichi manufatti a gravosi stress di sollecitazioni meccaniche e termiche per mostre che nella maggior parte dei casi nulla aggiungono alla conoscenza del patrimonio, ma servono a incamerare profitti da capogiro a beneficio di chi presta e di chi ospita(17). Il problema è che i finanziamenti pubblici sono sufficienti soltanto per le spese correnti e i musei cercano di monetizzare in altro modo per essere competitivi. Il Musée d’Orsay diretto fino al marzo 2017 da Guy Cogeval(18) si è autofinanziato nel 2015 per il 75% proprio con questa politica dei prestiti ad alta remunerazione(19). Il Pompidou con la presidenza di Alain Seban(20) ha visto raddoppiare gli ingressi grazie alla moltiplicazione delle sedi ma l’attuale presidente Serge Lasvignes ha dichiarato che le mostre itineranti e “l’ingegneria culturale” messa in atto hanno incrementato il fatturato del 422% rispetto al 2016(21). Il Louvre che ha gravato finora sulle casse pubbliche solo per un terzo del suo budget, si vedrà ricoprire d’oro – come tutti i musei francesi coinvolti nell’operazione – grazie all’accordo con l’Emirato di Abu Dhabi. Alcuni musei statunitensi si sono visti costretti a mettere in vendita parte della loro collezione, operazione vietata dalle norme di tutela europee: il Los Angeles Country Museum nel 2005 ha alienato 42 opere di cui una di Modigliani, il MoMA nel 2015 un quadro di Monet per 15 milioni(22).
Il concetto di museo si sta indubbiamente trasformando(23), l’idea primigenia di marca illuminista è venuta meno e non se ne è ancora imposta un’altra. Per ora si assiste a questa deriva mercantile con la vendita dei marchi e la spettacolarizzazione delle proposte, dando vita, come sostiene Mario Perniola, all’ennesima “avventura del capitalismo neo-liberistico”(24).
Gennaio 2018

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1)La federazione degli Emirati Arabi Uniti si è costituita nel 1971 e comprende Abu Dhabi, Dubai, Sharjah, Ajman, Umm al Qaiwain, Ras al Khaimah e Fujayrah, governati tutti da monarchie assolute ereditarie. Dagli anni Sessanta lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi ha reso questa zona tra le più ricche del mondo.
2) L’accordo è stato firmato dall’allora ministro della cultura francese Renaud Donnedieu de Vabres e il sultano Bin Tahnoon Al Nahyan.
3) I musei coinvolti si sono appositamente organizzati nell’Agence France-Muséums di cui fanno parte, tra gli altri, il Pompidou, il D’Orsay e il Quai de Branly.
4) In realtà la cifra esatta non è stata resa nota. I giornali hanno riferito numeri diversi ma tutti oscillanti tra i 700 milioni e 1 miliardo di euro. Martine Robert, 2Louvre Abu Dhabi: une manne d’un millard d’euros pour les musées français», Les Echos.fr, 8 novembre 2017.
5)Gli accordi per l’allestimento e la gestione dello Sheikh Zayed National Museum sono stati firmati con il British Museum nel 2009, quelli con la Solomon R.Guggenheim Fondation di New York nel 2006. Per entrambe le sedi era prevista l’apertura nel 2013. Sul sito dello studio Foster + Partners la conclusione dei lavori è indicata per il 2020.
6) Martin Bailey, «British Museum Ends Loan Deal with Abu Dhabi», The Art Newspaper, 28 ottobre 2017; Roslyn Sulcas, «Construction Delays Sink British Museum’s Deal with Abu Dhabi», The New York Times, 30 ottobre 2017.
7) Il grattacielo di Burj Khalifa, alto 829,8 metri è stato realizzato a Dubai dallo studio Skidmore, Owings and Merrill tra il 2004 e il 2010.
8) Palm Jumeirah, Palm Jebel Ali e Palm Deira; a queste se ne aggiunge una quarta, the World, con la forma dei continenti.
9) Sul rapporto più recente di Human Rights Watch cfr. Migrant Woeker’s Rights on Saadiyat Island in the United Arab Emirates, Progress Report, 10 febbraio 2015; Johann Hari, «The Dark Side of Dubai», The Independent, 6 aprile 2009; Bénédicte Jeannerod, «The Louvre Abu Dhabi Unlovely Back Story», Libération, 8 novembre 2017.
10) Le mashrabiye di legno sono pannelli traforati con funzione di raffrescamento passivo naturale, molto in uso nel mondo arabo.
11) Lens si trova nella regione Nord-Pas-de-Calais. Il museo Louvre-Lens, promosso dall’allora direttore Henri Loyrette, con un investimento di 150 milioni di euro e un prestito di 200 opere, è stato realizzato dalla studio SANAA di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa e insiste nell’area delle miniere di carbone dismesse negli anni Sessanta.
12) Il Metropolitan Museum si articola nel The Met Fifth Avenue, The Met Breuer e The Met Cloisters. Il nuovo logo è stato progettato dal gruppo di designer londinesi Wolff Olins.
13) Il museo è stato firmato dall’architetto giapponese Shigeru Ban.
14) Lo spazio espositivo di Málaga si è inaugurato nel 2015, progettato da Francisco Javier Pérez de la Fuente e Juan Antonio Marín Malavé; l’iniziativa ha la durata di cinque anni, la chiusura è prevista per il 2020.
15) Gli accordi per la sede belga sono stati siglati il 27 dicembre 2017; il museo si chiamerà Kanal –Centre Pompidou e sarà ospitato nell’ex garage Citroën costruito negli anni Trenta a Place de l’Yser a Bruxelles; l’apertura è prevista per il 2022 e la convenzione avrà la durata di dieci anni. La sede di Shanghai aprirà all’interno del West Bund Art Museum, realizzato da David Chipperfield nell’ex area industriale del distretto di Xuhui; l’apertura è prevista per il 2019
16) Le città toccate dall’iniziativa Pompidou Mobile sono state: Chaumont-sur-Marne, Cambrai, Boulogne-sur-mer, Libourne, Le Havre, Aubagne.
17) Tomaso Montanari -Vincenzo Trione, Contro le mostre, Einaudi, 2017
18) Guy Cogeval è stato direttore del Musée d’Orsay dal 2008 al marzo 2017, sostituito attualmente da Laurence des Cars.
19) Anna Ottani Cavina, «Una certa idea di Museo», La Repubblica, 1 marzo 2015
20) Alain Seban è stato presidente del Centre Georges Pompidou dal 2007 al 2015, sostituito da Serge Lasvignes
21) Harry Bellet, "Serge Lasvignes, Le Centre Pompidou doit devernir un hyper-lieu", Le Monde, 12 settembre 2017
22) Tomaso Montanari, «Musei in vendita», La Repubblica, 19 aprile 2015
23) Jean Clair, La crisi dei musei, Skira, 2008
24)Mario Perniola, «Quei contenitori di bellezza ridotti a marchi in vendita», La Repubblica, 1 marzo 2015