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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Oltre la ragion cinica
 
Domenico Scudero

Per la critica d'arte non è più tempo della ragion cinica. Per quanto possa suonare blasfemo superare Derrida e Guattari, per quanto possa apparire demistificante riclassificare il percorso di una disciplina che negli ultimi decenni ha perso il suo slancio e la sua credibilità non si può più girovagare nel tortuoso dilemma tautologico, anamorfetico della ragione cinica. Immersi nell'oblio dell'aporia dello schermo lacaniano, del discorso che riflette se stesso e non rimuove le ambiguità del presente se non smontandole, delegittimandole, lasciandole in balia di un ossessivo ossimoro nichilista è urgente riformulare il desiderio di legittimità del discorso critico. Un discorso che sia storiografico nel senso hauseriano del termine, socio politico, ma anche e soprattutto legato alla profondità esistenziale e pragmatica di una volontà proiettata verso la comprensione dell'esercizio artistico alla luce di una post-complessità quale quella vissuta in questi tempi ipermoderni (1).
Discorso di non facile attuazione, in primo luogo per via delle difficoltà interposte da una cultura massimizzata allo scopo del profitto immediato, fondato sulla tracciabilità dei desideri, residente nel subconscio individuale prima che collettivo. L'idea di una rinnovata forza esperienziale del percorso critico si scontra infatti nell'immediato dilemma: dove svolgere un simile compito? Le università giacciono assopite nella schiacciante follia tecno burocratica di formulari, indici di gradimento e funzionalità implementati in ambienti non soltanto ostili alla disciplina critica ma, oso dire, persino nemici di una qualsivoglia parvenza di utilità del pensiero. Le migliori menti dedite alla elaborazione dei complessi modelli di sviluppo del pensiero sono spesso insabbiate nella spasmodica ricerca di un modo lecito per poter continuare ad esistere come soggetti pensanti adeguando modelli di valutazione incongruenti con la facoltà di pensiero, spesso finendo per spendere tutte le proprie energie nella collazione di elementi transitori della storia quando non periferici. L'idea che una ricerca universitaria sulla filologia iconografica di un autore di un remoto passato, spesso secondario, possa ricevere valutazioni superiori di quelle su una ricerca sperimentale su un campo non storicizzato, come è necessariamente nella critica del contemporaneo immediato, per quanto paradossale, ha una sua veridicità e una sua palese, tecnica, prova disfunzionale (2). Il problema inerente la dubbia scientificità di una qualsiasi fuoriuscita dal campo dello storicismo ha trovato nello schematismo burocratico un potentissimo alleato. Ma questo non può fermarci. Sapere che la critica contemporanea non ha e non può avere alcuna possibilità di dimostrare la validità delle sue teorie e delle sue tematiche non può farci dimenticare che il suo compito non è quello di presiedere un ambito attraverso la sua dimostrazione d'esercizio verificabile, è semmai quello di percorrere un tragitto che porti alla verità dell'opera d'arte. Proprio per questo modo di indimostrabilità le università d'arte che sarebbero dovute nascere sono rimaste bloccate nei meandri di insondabili ragioni di merito. Difficoltà relazionabili ai modelli di gestione tecnica, attraverso cui è ineluttabilmente assodato che una disciplina come l'arte contemporanea non possa essere valutata se non deprivandola della sua stessa ragione d'essere sperimentale, di uno sperimentale che la valutazione tecnica non conosce e non può riconoscere come tale. La ricerca sul contemporaneo si sposta quindi fra spazi autopromossi e accademie che nell'opinione gestionale valgono quanto scuole di secondo livello, o fra le maglie della stessa università affiancando discipline, quali l'industrial design, la moda, ovvero percorsi che prevedono anche una possibile verifica tecno burocratica in quanto funzionali allo scopo oggettivo e non transitorio di progetto eidetico.
Allora di nuovo. Non è più tempo della ragion cinica. Non è più tempo di dileggiarci con l'aporia destrutturante, tautologica, di Derrida, Deleuze, Guattari, del cui lavoro la critica ipermoderna ha testimoniato e in ultima analisi attraverso cui ha legittimato la cosa in sé, il suo essere in quanto immanenza circoscritta nella relazione spazio-tempo, il presente in atto. Il lavoro però è rimasto concluso nel circolo vizioso della destrutturazione oggettuale e nella penombra della panacea intellettualistica: ci si deve rendere conto, adesso, che questo esercizio non basta più per superare l'antagonismo violento e persecutorio imposto dalla nuova realtà tecnologica. Bisogna realizzare un percorso che superi la ragione cinica nella consapevolezza che una dimostrazione di esplicita intelligenza atta a delegittimare l'avverso sistema tecno burocratico rimane un esercizio vuoto e privo di misura nell'astanza con la parte contrapposta se non si conclude in un discorso di chiara visionarietà. Mi piace qui citare il termine brandiano "astanza" per tranquillizzare un'eventuale diffidenza storiografica (3). La critica non è una battaglia contro la storiografia, la critica non è un'istanza legale burocratica, non è un modello d'azione atto a delimitare un campo di ricerca avulso e legittimato dal potere economico del contemporaneo. L'ineluttabilità del potere economico è un semplice espediente del sistema socio politico, così come lo era l'artificio del committente rinascimentale, non può diventare lo scoglio su cui arginare il compito della ricerca e lo scontro fra storiografia, comprovata dalla tecnica, e critica derubricata dal sistema di ricerca. Per l'appunto la ragione cinica: in limited.inc, Derrida si lancia in un dialogo paradossale solo in apparenza, a volte addirittura derisorio nei confronti dell' "illusione" illocutiva della comunicazione di Searle, sebbene nel testo il termine non sia mai reso esplicitamente (4). Di fatto nel caso dello scambio epistolare fra Derrida e Searle, si ravvisa come da una parte ci sia la volontà di decostruire fenomelogicamente l'idea della comunicazione fra i due e dall'altra parte, in Searle che giocava il ruolo di ospitante, quello di conciliare attraverso la persuasione intenzionale le sue buone ragioni. Questo incontro scontro mi sembra perfettamente adeguato per svelare in che modo oggi non abbiamo bisogno di tautologie e aporie decostruttive, né tantomeno di argomentazioni persuasive. In limited.inc chi perde non è il ragionamento o la teoria sulla cosa in sé quanto piuttosto l'utilità che se ne può fare della cosa. In qualche modo se ciò che era una prassi obbligata, quella di smantellare e isolare la cosa in sé riducendone a dismisura la sua esistenza per cogliere l'essenza comunicativa, il suo significato, la sua complessità, oggi può servire soltanto a dimostrare che l'essenza di quel dibattito era "nulla", o al meglio, puro formalismo ideale. La critica può quindi essere nuovamente funzionale(5)?
In Il pragmatismo nella storia dell'arte, Molly Nesbitt identifica il valore pratico di una rivalutazione logica dell'esperienza nell'esercizio della storia attraverso la critica d'arte (6). Sebbene il suo sia un evidente contributo alla mai tramontata idea suprematista della cultura artistica americana, attenta solo al territorio di ciò che produce in sé una parvenza di ricchezza, lo scritto rinnova le aspettative per una lettura della post-complessità che veda l'azione critica come fonte primaria dell'interpretazione (7). Anche se in questa lettura del contempornaeo non è evidenziato il dilemma centrale su ciò che concerne le scelte fra ipotesi teorica della critica e valore immanente delle scelte di mercato, lo scenario che si offre appare evidentemente votato ad una maggiore incisività, per l'appunto nell'azione esperienziale, della critica nel contesto della cultura artistica. La difficoltà di una simile prassi possiamo registrarla, attraverso la lettura di Hal Foster sul realismo delle scelte, fra procedura astrattamente pragmatica e prassi concretamente veritiera, funzionalistica del mercato dell'arte (8). Riuscire a conciliare il quoziente qualitativo dell'arte fra funzionalismo e tecnicismo ma soprattutto alla luce della spavalda richiesta di oggetti da usare nel mercato come simboli estremi del coefficiente di speculazione materialista, come accade nel sistema insondabile del freeportismo (9), appare quantomeno utopistico. E questo risulta ancora più complesso nella verifica della distanza esistente, e addirittura in fase di ampliamento fra la disciplina dell'estetica, la sua radicale volontà di potenza intellettiva e la sua ricaduta nel contesto della critica, dove quest'ultima è radicata come un probabile livello divulgativo quando non addirittura esplicativo di una militanza esclusivamente parassitaria. Di certo in questo gioco di relazione non ha aiutato la cinica risposta della critica quando ha assolto se stessa dalla probabile complicità di esistenza pubblicitaria attraverso il paradossale asservimento al sistema di mercato usato a scopo propagandistico, o addirittura ricattatorio (10). La critica in qualche modo osservando se stessa all'interno di scelte, che spesso non erano nemmeno di sua volontà, ha volontariamente esasperato il suo ruolo ancillare e assopito all'interno del sistema dell'arte, confidando sulla potenza dell'esistere, quindi votandosi al cinismo del mercato e del puro liberismo materialista.
Concretamente, l'ipotesi che la critica d'arte non abbia più ragione d'essere è una realtà tecnicamente accettata nel momento in cui si decide che il suo ruolo sia esclusivamente quello di certificare l'avvenuta esistenza di un oggetto (oggetto-spazio-tempo-azione simbolicamente sottratto al fluire del tempo) all'interno di un sistema dell'arte che è parte del più ampio sistema culturale. Non soltanto, la certificazione notarile della critica in questo cinico incedere nel campo della comunicazione scritta e verbale risiede soprattutto nel voler propagandare la sua avvenuta trascrizione. Una critica quindi che con palese distacco cinico si pone fuori della ragione attributiva di valore e svolge un ruolo burocratico, estimativo, su un bene che è già di per sé consacrato nel sistema economico e della cui scelta la critica non è responsabile. Fa fede di questo passo sghembo l'attività svolta in modo divulgativo in forma di brevissime notazioni, dalla scritta telegrafica su un blog di periferica lettura sino alle più autorevoli scritture scarne e lapidarie sulle più autorevoli fonti. Il principio chiave di questa forma esplicativa della "cosiddetta" critica d'arte è quello della chiarezza, della possibilità di tradurre pedissequamente i contenuti nascosti all'interno dell'oggetto in qualcosa di letterario. Siamo quindi di fronte alla più manifesta delle contraddizioni attraverso una tautologia esplicativa. L'oggetto d'arte attraverso la lettura della critica cinica è una sorta di extraterrestre paracadutato nel sistema dei segni da una ragione chiara e liberticida chiamata mercato dell'arte. Il quale si autosostiene e decide, chiama a sé il meglio e lo offre all'intervento della critica la quale certifica e notabilizza con la pedante chiarezza esplicativa che rende la comunicazione nascosta dell'oggetto visibile attraverso le parole e la scrittura. In realtà quindi una simile lettura dell'opera determina in primo luogo l'inanità della ragione critica, in quanto inefficace nello stabilire un qualsiasi rapporto di qualità negli oggetti che non siano già qualificati dal mercato. Una critica chiusa nella tautologia della superiorità economica del contemporaneo è solo apparentemente vincente. La sua ineluttabilità da primo attore del contemporaneo è elusiva, indimostrabile, e soprattutto non riconosciuta nel sistema complesso della cultura attuale. Qui il gioco della critica si fa più riconoscibile in quanto esperienza votata alla supremazia. Se l'oggetto di cui si fa complice è l'oggetto in cui si concretizza l'esperienza economico-simbolica del mondo delle forme allora la critica è parte di questo mondo, ma è solo un gioco di strategia, un compito fantasmatico certificato da prassi e consuetudine, un imbellimento che il sistema economico usa a suo vantaggio.
Quale potrebbe essere la via di ridefinizione della critica d'arte contemporanea? In primo luogo la critica d'arte ha un obbligo ineluttabile, insuperabile, assoluto, ovvero quello di ritornare ad essere cultura attravero la scrittura. Con un'azione volontaria la scrittura della critica deve ricominciare ad essere una forma estesa e letteraria di fare arte, visione, assorbimento e tecnica teorica dell'opera. Solo attraverso la ricerca del linguaggio specifico e specialistico le forme culturali possono evolvere, non esiste la possibilità che una disciplina evolva e si radicalizzi operativamente attraverso la divulgazione, la descrizione pura e la chiarificazione del già dato. Una disciplina che sia operativa impiega un linguaggio specialistico, prassi comunicative e sistemi di verifica specifici che non sono di uso comune. La ricaduta di una ricerca e la sua divulgazione in termini chiarificatori è sempre una fase successiva. Se una disciplina si rivolge ad una ricerca sperimentale non può essere compresa da tutti e non può essere chiara a tutti, non sarebbe quello che è. La critica d'arte deve anche rischiare di essere incompresa quando ridefinisce i canoni del significare, anzi, è proprio attraverso la sua incomprensione che si determina la validità esistenziale delle sua teorica; se un discorso è facilmente comprensibile a tutti vuol dire che non sta inventando nulla, vuol dire che la sua teoria non ha alcun valore differente dal comune sentire, è una valida banalità, ma pur sempre una semplice banalità. La critica deve anche saper discernere i suoi obiettivi che non possono essere quelli della semplice annotazione a margine di un prodotto già definito economicamente e frutto di scelte che rimangono inesplicabili. Deve quindi saper rischiare di finire nel vicolo cieco dell'interpretazione, da cui poter rinascere. E ancora: la critica non può essere la certificazione di un prodotto che nasce senza contenuto per volere di interessi che non sono partecipati dal sistema culturale e dalla storia dell'arte. Un oggetto nato in queste modalità, come alcuni lavori espressione della nostra immediata contemporaneità già qualificati come preziosi prima ancora di essere comprovati dall'analisi critica, è destinato a qualificarsi storicamente come prodotto di un fenomeno apparente di un'epoca, il suo stile, la sua modalità di rappresentazione, ma non la sua essenza complessa.
La critica, inoltre, non può essere una modalità povera dell'estetica, sebbene con questa abbia notevoli punti in comune e appartenenze. Ma la critica d'arte diversamente dall'estetica è anche pragmatica, in termini filosofici si potrebbe dire che la critica d'arte contemporanea è una fenomenologia epistemologica fondata sul presupposto del tempo presente; diversamente dalla ricerca estetica quella della critica si rivolge anche fattivamente attraverso l'esperienza del comunicare dissociato fra io narrante e autore. Questo è anche il motivo per cui molto spesso la filosofia estetica quando interviene nel campo della contemporaneità commette degli errori anche madornali, allo stesso modo in cui un critico d'arte non sarebbe a suo agio nella trattazione puramente estetica. La critica d'arte è infatti una disciplina che si pratica nel fare speculativo piuttosto che nella dialettica. L'incontro della critica d'arte con l'opera è una reale fattiva immanenza dalla quale non si può prescindere mentre il filosofo può conoscere e partecipare l'estetica senza aver nessun contatto reale con l'espressione concreta di questa.
La critica d'arte deve essere quindi fattuale, informata dalle prassi dell'attualità ma deve poter decidere attraverso il suo sguardo la qualità e la modalità di questa qualità in quanto valore assoluto del comunicare attraverso l'oggetto-spazio-tempo-azione; per questo ha di certo bisogno del sostegno sostanziale di quelle discipline che ne attraversano il territorio ma che non lo delimitano, come lo sono, tra le altre, l'archeologia per le sue tecniche, l'antropologia per le sue argomentazioni sperimentali, la sociologia e l'estetica per un'interpretazione manifestatamente complessa come complessi sono i tempi che viviamo. E inoltre, la critica d'arte non può sentirsi demotivata dalla constatazione ampiamente comprovata di come sia una sorta di buco nero nella genesi culturale, un luogo in cui le altre discipline vengono assorbite ma da cui nulla trapela, limitata al ristretto cerchio di quei pochissimi informati e attivi nel suo campo d'azione (11). E la critica non deve diventare, come reazione in conseguenza di questo sentirsi risucchiati in un gorgo oscuro della comunicazione, un modello di prevaricazione improntato al cinico manifestarsi come disciplina eletta, poiché ricca di proventi, di sostegni, rispetto alle altre forme di cultura artistica. Ma d'altra parte la critica è la compagna fiduciaria dell'arte, la sua più stretta alleata e con l'arte, con il suo oggettualizzarsi, condivide l'aspetto teorico e quello pratico; coopera alla teoria dell'arte e la rende plausibile e come l'opera d'arte ha in sé qualcosa di inesplicabile ma ipnotico, all'interno delle sue espressioni letterarie si leggono concetti estremi, estranei al sentire comune e che ci fanno percepire la sua innata vocazione alla ricerca della verità.
Gennaio 2018
 
1) Uso qui il termine ipermoderno di Lipovetsky per definire quel territorio dell'attualità critica che rinnova il postmoderno alla luce di una maggiore complessità analitica.
Gilles Lipovetsky, Le temps hypermodernes, Bernard Grasset, Paris, 2004.
2) Per quanto assurdo, ancora oggi il testo che rappresenta al meglio un'idea di storia della critica d'arte nel'ambito della ricerca universitaria è la celebre storia di LionelloVenturi, il quale aveva inteso realizzare un modello di visione critica in netto disaccordo con la modalità "separatista" approntata dalla visione formalista e visibilista dello storicismo. Come scrive Nello Ponente nella prefazione all'edizione Einaudi della Storia della critica d'arte, pubblicata nel 1964, Lionello Venturi pochi giorni prima di morire, nel 1961, aveva progettato un'ampliamento della sua storia della critica che abbracciasse le problematiche teoriche dell'arte contemporanea dal postcubismo all'informale. Nello Ponente, "Prefazione" a Storia della critica d'arte, di Lionello Venturi, ed. it. Einaudi, Torino, 1964 (ed. or. 1936, New York). Nessuno storico critico è più riuscito a colmare questo vuoto e l'autorevole Gianni Carlo Sciolla, ancora nel 1995 pubblicava un testo sulla critica d'arte del XX secolo in cui la critica d'arte viene ritratta a frammenti e sostanzialmente relegata al compito accessorio della storiografia. Gianni Carlo Sciolla, La critica d'arte del Novecento, Utet, Torino, 1995.
3) Astanza è il termine usato da Brandi per tentare di circoscrivere l'essenza dell'opera e la sua immanenza nel contesto.
Cesare Brandi, Teoria generale della critica, a cura di Massimo Carboni, Editori Riuniti, Roma 1998.
4) Jacques Derrida, "Limited Inc. A b c ..." in, Limitd Inc., ed. it. Raffaello Cortina, Milano, 1997, (ed. or. Limited Inc., Editions Galilée, Paris, 1990).
5) Il formalismo destrutturalista ha invaso il territorio della critica d'arte già dai primi anni Novanta, quando per l'appunto si inizia a parlare di critica pubblicitaria. Il successivo paradosso della critica è stato quello di beneficiare della posizione dell'opera qualificata dal mercato e di affiancarla tautologicamente in un gioco di rifrazioni insolubili. Sulle implicazioni si veda: Alexander Alberro, Arte concettuale e strategie pubblicitarie, ed. it. Jonas & Levi editore, Milano, 2011 (ed. or. Conceptual art and the politics of Publicity, MIT Mass, 2003. Si veda anche: James Elkins, What Happened to Art Criticism?, Prickly Paradigm Press, Chicago, 2003.
6) Molly Nesbit, Il pragmatismo nella Storia dell'Arte, Postmedia books, Milano, 2017. Il pragmatismo nella definizione di Peirce nasce dalla estensione del termine "pratico", quindi il pragmatismo è sia pratico ma anche programmatico in quanto vettore di scopo razionale. Charles Peirce, "Che cosa è il Pragmatismo", in Scritti di filosofia, ed. it. Cappelli, Bologna, 1978, (ed.or. 1905). Una distorsione del pragmatismo è l'uso dell'ineluttabilità critica, ovvero di trattare l'oggetto in quanto evidenza di un sistema senza dominarne la ragione. Si veda James Elkins and Michael Newman, The State of Art Criticism, Routledge, New York, 2008.
7)Una breve spiegazione si deve per chiarificare la differenza interpretativa fra criticism americano e critica d'arte in Europa. Sebbene i due modelli siano sostanzialmente gli stessi il criticism americano viene visto come pratica di discussione sull'opera nata a ridosso del periodo rivoluzionario in Francia per intenzione di Diderot e poi arricchita attraverso la sperimentazione critica anche di altre discipline come il teatro o il cinema. Una visione che naturalmente privilegia la lettura post rivoluzionaria, poi romantica e anglofona per deviare nel formalismo pragmatico di Fry e Bell. Il patrimonio letterario della critica d'arte in Europa viene visto invece come excursus su riflessioni filosofiche già dall'antichità classica. Per il criticism americano si veda Houston Kerr, An Introduction to Art Criticism, Pearson press, USA, 2013. Sulle fonti della letteratura artistica si veda Julius Schlosser Magnino, La letteratura artistica, ed. it. La Nuova Italia, Firenze, 1979 (I ed. 1977), (ed. or. Die Kunstliterature, Kunstverlag Anton Schroll & Co, Wien, 1924)
8) Hal Foster, Il ritorno del reale. L'avanguardia alla fine del Novecento, ed. it. Postmedia books, Milano, 2006 (ed. or. The Return of the Real. The Avant-Garde at the End of the Century, MIT, Mass, 1996). Una delle note più incisive del testo di Hal Foster è la ricerca di una interpretazione simbolica della stessa teoria dell'arte al fine di relazionare azione artistica e condizione sociale contemporanea al di là dello scetticismo cinico della prassi decostruttiva. Foster fa risalire questa prassi scettica alle origini dell'avanguardia; negli anni Ottanta postmoderni la decostruzione si riduce nel corporeo, nel sociale, nell'abietto e nel site specific e quindi nel ritorno al reale, in cui il modello appropriativo determina una nuova codifica della realtà in quella che Foster chiama estetica della ragion cinica. Si veda anche Peter Bürger, Teoria dell'avanguardia, Boringhieri, Torino, 1990, (ed. or. Theorie der Avantgarde, Suhrkamp Verlag Frankfurt am Main, 1974); sugli stessi temi ho pubblicato il testo Avanguardia nel presente, Lithos, Roma, 2000.
9) Il tema del freeportismo è stato argomento di un precedente articolo su Unclosed n.10, Freeport Art. L'arte contemporanea strangolata dalla finanza. http://www.unclosed.eu/rubriche/sestante/esplorazioni/131-freeport-art.html
10)James Elkins and Michael Newman, The State of Art Criticism, op. cit.
11) Ibidem