Alcune considerazioni a margine del libro Schermologie di Maurizio Bolognini

Domenico Scudero

Già dalle prime apparizioni pubbliche di Maurizio Bolognini sembrava evidente che nel suo atteggiamento ci fosse qualcosa di sostanzialmente diverso rispetto a quello che si vorrebbe un modello consolidato. Che prevede atteggiamenti e modalità dell'autore incanalati in un sistema di scambio pratico e non simbolico. In Bolognini l'idea di una autosufficienza del percorso artistico, e relativa quiete della comunicazione interiore dell'oggetto, risulta essere maggiormente rilevante rispetto alla divulgazione in sé, ovvero tutto il circondario mondano che obbliga, ed esige, che l'artista sia un felice venditore di sé al cospetto di determinate categorie di potentati umani. All'inizio le sue opere erano una specie di raptus che attraversava come un delirio il percorso obbligato delle produzioni artistiche, gallerie o spazi espositivi. Si tratta ancora adesso di procedure e strategie rese statutarie per chiunque voglia anche solo pensare alla possibilità di esistere come artista, per di più tecnologico (1).
Il gioco, per certi versi delirante, del sistema dell'arte prevede infatti che durante una fase iniziale l'artista sia una specie di "ostaggio", parafrasando Baudrillard, e che sia protagonista di un lavorio edotto come "dono" primitivo archetipale nel sistema socio economico di alto livello; ciò accade almeno sino a quando la "morte" iniziatica della sperimentazione non lo sganci da simili obblighi e lo renda non soltanto gerarchicamente in posizione riguardevole ma anche in veste contrattualmente positiva e riconoscibile. La nascita dei grandi artisti contemporanei in fondo segue ancora oggi questo processo, simbolico di una procedura di aggregazione, consolidamento e permanenza all'interno del sistema.
Per Bolognini non si è trattato di questo. Chi lo conosce lo sa bene; la sua affermazione passa attraverso il suo percorso unidirezionale, privo di tentennamenti e che lo può far avvicinare più alla determinazione di De Dominicis, col quale peraltro non condivide che questo, che non ai nomi più noti della New media art cui invece Bolognini appartiene. Il problema è che ovviamente per Bolognini le tecnologie dell'arte sono importanti; ma non quanto la volontà di metterle in esercizio dinamico nell'esistenza reale, così come succede per i gadget tecnologici e le nostre attuali protesi obbligate, fra smartphone, tablet ed elettronica intelligente.
L'impatto estetico del lavoro di Bolognini tuttavia incorre spesso nel travisamento determinato dalla sua alterità rispetto alle metodiche di mercato e di riconoscibilità. La sua figura si identifica più nell'ambito della ricerca scientifica che non nel mercato dell'arte e dei suoi gironi stereotipati fra grandi fiere, mostre a tema, "panel" di discussioni in cui spesso non si discute di un bel niente e ci si confronta esclusivamente sui valori di potere. Il rumore di fondo del sistema economico mercantile risulta in Bolognini così fortemente attutito da riservare a sé un luogo distante dal nucleo essenziale della sua ricerca. Sebbene poi, a voler analizzare nel dettaglio il suo lavoro, risulta evidente che sarebbe possibile darne anche una lettura solidamente sociologica e politica.
Ne scrivo oggi spinto da una riflessione autonoma e autoctona pubblicata da Bolognini, Schermologie 1990 – 2017*, in cui l'autore traccia in prima persona un percorso trentennale al di fuori degli standard e dalle etichette attribuite dalla stanca del sistema. Un testo che ridiscute alcune opere e ne spiega il funzionamento come denunciando, senza mai polemizzare, la quasi totale assenza di partecipazione di tutta la critica d'arte e del mondo curatoriale. Se mai polemica possa esserci consiste nell'assenza della territorializzazione in qualsiasi veste o apparenza la si voglia interpretare. La questione socio-politica dell'arte di Bolognini non è di sicuro territorializzabile, e lo si capiva già al suo primo apparire. In Bolognini l'impegno è stato quasi sempre di esclusiva matrice estetica, ovvero quello di connettere l'alta tecnologia alle ricerche più avanzate nel campo della ricerca scientifico filosofica. La discrepanza, si dirà, con le evidenti strategie territoriali che dal decennio Novanta hanno caratterizzato le modalità artistiche è enorme. Nell'arte socio-politica si privilegia lo scardinamento della quiete reale attraverso una soluzione di ri-conoscimento della storia, con una sua visuale più pertinente alla verità. Dall'altra parte la poetica della tecnologia esprime un punto di vista di radicalità teorica, ma può far ingenuamente pensare ad un esercizio di puro estetismo. Il discorso ci porta troppo lontano per poter esaurirlo in questa occasione, basti pensare alle implicazioni teoretiche insite nella problematica dell'intelligenza artificiale e nella connessione fra nuove tecnologie e corpo fisico dell'umano: l'arte che voglia discuterne è certamente arte tecnologica.
Nel testo recentemente pubblicato, il pensiero dell'artista risulta focalizzato in tutta la sua volontà alla sottolineatura delle operazioni complesse che hanno contribuito a sollecitare lo sviluppo della New media art nel sistema dell'arte.
In primo luogo attravero un taglio dinamico, trasversale e fuori dallo schermo come si mostra in Museophagia 1998-1999 in cui lo scenario del presente appare sconvolto da quella che adesso sappiamo essere l'avvento del digitale; in Museophagia rimane in sottofondo il rumore di una deriva analogica che si tinge di presagi naïf o adulcorati dal sentimento nostalgico attraverso la poetica dell'allora trionfante identità del vintage (2). Qui l'oggetto del raschiamento, della voragine all'interno del nucleo essenziale del sistema "arte", manifesta la certezza di una sua fine. D'altra parte anche le maggiori congreghe di quello che appunto si definiva "sistema dell'arte" stanno nel contempo, siamo nel 1998, trasformandosi in universi singolari, parcellizzazioni spesso prive di alcun dominio sul rimanente del sistema oramai slabbrato; sono gli anni di Cream, della Net art, del Relazionale, gli appassionati esordi di un sistema di condivisione sociale attraverso nuovi modelli comunicativi. Bolognini in Museophagia non parla apertamente di tecnologia ma evoca un disordine sopraggiunto e che mai più si sarebbe potuto ricomporre in una restaurazione. E poi, quale restaurazione? Ancora oggi la tensione alla conservazione, in cui spesso si enucleano alcuni fra i più considerevoli malesseri dell'umanità, è una forte avversaria. In realtà ciò che possiamo palesemente vedere in ogni reazione vintage, al di là delle schermaglie economiciste, che forniscono un valido retroterra ideologico per chiunque si voglia aggrappare al concetto di staticità, è l'impossibile stasi di un ideale tecnologico (3). La contraddizione di un mercato che ancora non ha conosciuto il taglio brutale della tecnologia nel suo aspetto meno etico ma comunque massificato e centrifugo e al quale sarà impossibile resistere a meno che non subentrino scenari apocalittici e rovinosi. Il futuro sarà sempre più un mondo in cui sarà più facile che un collezionista comperi opere di realtà aumentata realizzate su uno smartphone, piuttosto che una tela, non fosse altro per via del fatto che una tela ha bisogno di una parete, di un luogo, di una certezza fisica e questo mondo a venire si muove a perdifiato verso una realtà che è sempre meno luogo di certezze fisiche (4).
Così l'arte di Bolognini guarda un mondo ormai artefatto, intenzionalmente plasmato dall'uomo, ma che stenta a comprendere il significato e il sapere di una installazione tecnologica. Per capire cosa si sta dicendo però è opportuno sostare davanti un'opera come Computer sigillati (1992) che negli anni futuri potrà essere vista come archeologia del sapere macchina. Un minimo di conoscenza tecnologica ci consente infatti di percepire che i computer sigillati vivono una vita propria, sono l'equivalente della scintilla di una nuova intelligenza che faremmo bene a controllare se non vogliamo finire, come già appare in molte situazioni, di essere noi il lato debole dell'evoluzione (5).
 Luglio 2018
 
Maurizio Bolognini, Schermologie, 1990 – 2017, Youcanprint, Tricase, LE, 2018
1) Nel caso del lavoro di Bolognini mi ritrovo sempre a pensarlo molto vicino al pensiero di Baudrillard. Nel caso specifico ho usato alcune terminologie dedotte dalla lettura di Lo cambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 2015 (1979) (ed. or. Gallimard, Paris, 1976)
2) Si fa qui riferimento alla poetica del vintage come paradosso degli anni Ottanta che sono stati da una parte spinta verso l'oggettualità hi-tech spersonalizzata e dall'altra restaurazione di tecniche antiquate: la lezione degli anni postmoderni, comunque, ci dice che la tecnologia nell'arte è sempre simultanea alle evoluzioni socio-economiche, anche se in visione di opposizione. In particolare negli anni postmoderni si è dimenticato che anche la dimostrazione economica deve la sua identità alle preesistenti condizioni tecnologiche e che queste dipendono dall'identità del potere in atto. Si veda "Avanguardia e postmoderno", in Peter Bürger, Teoria dell'avanguardia, ed. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1990, pp 123 - 128 (1974, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main).
3) Ne parlava in quegli anni Mario Costa, Il sublime tecnologico, Salerno, Edisud, 1990 e successivamente in una nuova edizione Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Roma, Castelvecchi, 1998.
4) Paul Virilio ne parla in termini terreni in Città panico. L'altrove comincia qui, trad. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004 (ed. or. Galilée, Paris, 2004)
5) Cfr. Mario Costa, La disumanizzazione tecnologica. Il destino dell'arte nell'epoca delle nuove tecnologie, Costa & Nolan, Milano, 2007.