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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Le case d’artista nella Tuscia viterbese

Charlotte Blasi

Una casa. Un artista. Un legame misterioso che trascende l’ordinario abitare. Uno spazio di vita e di creazione complesso perché, la storia della casa si intreccia con la storia di chi la abita e del suo rapporto con la società in cui vive. Ed è illusorio ridurla ad un tipo architettonico facilmente riconoscibile e corrispondente a specifiche caratteristiche fissate una volta per tutte. Quindi, studiare le case d’artista significa soffermarsi sulla loro essenza ibrida, indugiare sulla soglia della loro indefinitezza che suscita la questione cruciale del nostro abitare il mondo. In Dell’abitare, Maurizio Vitta scrive: «L’abitare può essere descritto in molti modi, ma non può mai essere racchiuso in una definizione unitaria, esaustiva. […] Il fatto è che siamo alle prese con un fenomeno che ci appartiene troppo intimamente perché sia possibile spiegarlo fino in fondo. Esso fa parte della nostra natura in quanto specie: meglio ancora, esso è la natura della nostra specie. Abitare è come venire al mondo, e venire al mondo è già abitare»(1). Non è quindi l’abitare dell’artista ma l’abitare in sé a porre problema, perché ci definisce talmente tanto profondamente in quanto esseri umani al punto da diventare inspiegabile. Se abitare costituisce la nostra condizione dell’essere al mondo, allora, la casa fa parte di quei misteri insondabili della vita che sono difficili da descrivere.
Un esempio unico e eccezionale sono le case d’artista della Tuscia viterbese, provincia dell’alto Lazio e terra d’origine del popolo etrusco. A prima vista niente lascia presagire la presenza diffusa su tutto il territorio di un’ampia schiera di artisti di fama internazionale che vi si sono insediati come Balthus, Roberto Sebastian Matta, Enrico Castellani e Cy Twombly. Tuttavia, non è un caso fortuito se tanti artisti, dopo una carriera in giro per il mondo, siano approdati nel Viterbese.
Un evento, in particolare, ha contribuito a far conoscere la Tuscia a livello internazionale. Difatti, tra la metà degli anni ’50 e la fine degli anni ’60, Plinio De Martiis, una delle personalità più influenti della scena artistica romana e fondatore della famosa galleria La Tartaruga, elegge il proprio domicilio sulle colline del lago di Bolsena e affitta per diversi anni il casale di Rentica dove invita i suoi più cari amici. Fra tutti possiamo citare Enrico Castellani, Mario Ceroli, Tano Festa, Cesare Tacchi, Cy Twombly, Robert Rauschenberg, Gino de Dominicis, Alberto Burri, Giulio Paolini, Luigi Ontani, Emilio Prini, Mimmo Rotella, Willem De Kooning, Karsten Greve, Paolo Pistoi, Lucio d’Amelio, Mario Schifano, Leo Castelli e Jannis Kounellis. Insieme a Giorgio Franchetti, discendente di una ricca famiglia veneziana e finanziatore della galleria, Plinio De Martiis trasforma l’antico casale con vista sul lago in un luogo di lavoro e d’incontro per una generazione d’artisti che segnerà il destino dell’arte contemporanea. Bolsena diventa allora un luogo strategico, catalizzatore di nuove energie creative che piano piano si diffonderanno in tutta la Tuscia, incitando gli artisti a restare definitivamente nel territorio viterbese.
Uno dei frequentatori abituali del casale di Rentica era Enrico Castellani che, a partire dal 1973, trovò rifugio in un piccolo borgo isolato della Tuscia che si erge su uno sperone tufaceo, una località completamente all’abbandono al punto d’aver ricevuto l’appellativo di “borgo fantasma”. Si tratta del borgo medievale di Celleno, abbandonato dai suoi abitanti a causa dei terremoti e delle frane continue e destinato all’oblio senza l’arrivo dell’artista e i suoi innumerevoli interventi di restauro. Pochi anni prima invece, tra l’agosto e il settembre del 1969, Cy Twombly inaugurò a Bolsena una nuova fase del suo linguaggio artistico dai segni sparsi e variegati con la serie Untitled (Bolsena), lontana dalla solennità degli allover grigi delle opere precedenti. Nella trasparenza del ciclo di opere dedicato al lago di Bolsena, la realtà si confronta con un mondo immaginario in perenne trasformazione, dove lo spazio concreto sembra dissolversi a favore di uno spazio assoluto e inafferrabile. Da quest’incontro affettivo con i paesaggi della Tuscia dev’essere nata per Cy Twombly l’idea di stabilirsi nella regione, acquistando una casa nel centro storico di Bassano in Teverina.
In questa fuga verso aree decentrate, alla ricerca di un ritmo di vita maggiormente in sintonia con i tempi dell’attività creatrice, gli artisti possono riconnettersi con la realtà, rifuggire da un fare distratto e ritrovare un senso di coesione tra arte e vita.
In questo contesto, la Tuscia è una terra d’elezione per gli artisti che desiderano allontanarsi dai grandi centri abitati e riscoprire i benefici dell’immergersi quotidianamente nella natura. Ecco perché il fascino romantico e il mistero dei paesaggi di Montecalvello hanno conquistato Balthus a prima vista, dopo sedici anni trascorsi alla direzione di Villa Medici. Ecco perché Roberto Sebastian Matta è rimasto affascinato da Tarquinia, quest’antica città etrusca dove l’artista ha ritrovato lo stesso senso di primordialità che pervadeva la cultura precolombiana delle sue origini. Matta ne era profondamente convinto, solamente in una città come Tarquinia, un luogo fuori dal tempo e legato alle sue origini, poteva realizzarsi un nuovo modo di concepire l’arte. Da questa consapevolezza nasce nel 1971 l’esperienza dell’Etruscu-ludens, un laboratorio artistico concepito in realtà come un progetto sociale volto a mettere in dialogo i cittadini intorno ad uno scambio di saperi artigianali. Tra le attività più proficue dell’Etruscu-ludens, il laboratorio di ceramica costituisce un vero e proprio punto di aggregazione per quei giovani che diventeranno presto la futura generazione di artisti dedita alla ceramica e riconosciuta nel mondo dell’arte.
Ancora oggi, la Tuscia è rimasta una terra d’elezione per artisti provenienti da tutto il mondo. Sembra che gli artisti trovino in questo territorio, nella bellezza della sua natura preservata, nell’aura di mistero che circonda il suo passato etrusco, una fonte d’ispirazione inesauribile. Da Calcata a Tuscania, passando per Sutri, Carbognano o Bagnoregio, in molti hanno deciso di fare della Tuscia un luogo insieme di vita e di lavoro dove incrementare la propria creatività. Ciò che colpisce in questo viaggio attraverso le case d’artista della Tuscia è sicuramente la diversità degli spazi abitativi incontrati: gli spazi teatrali della casa di Alessandro Kokocinski e le case-opere d’arte degli artisti outsider Bonaria Manca e Pietro Moschini a Tuscania; lo spirito comunitario a Sutri delle case adiacenti di Teodosio Magnoni, Paul Kleer, Giuseppe Spina e Nora Kersh; la casa diffusa dell’artista svizzero Paul Wiedmer a Civitella d’Agliano, immersa in un giardino di opere d’arte denominato “La Serpara” ; i ricordi di viaggio della ceramista Giovannna Soldini e le opere astratte di Samuel Montealegre a Bagnoregio; la collezione d’arte che ritma gli spazi della casa di Paolo Angelosanto a Sipicciano; gli spazi di lavoro che a poco a poco invadono gli spazi di vita privata degli artisti Marco Ferri e Massimo Luccioli a Tarquinia; la casa di Giulia Napoleone a Carbognano come luogo di sosta tra un viaggio e l’altro. Un’ampia diversità contraddistingue questi luoghi di vita, segnati tuttavia da una stessa ricerca condotta dai loro abitanti. Vivere nell’arte e per l’arte ponendosi come osservatori di se stessi al fine di capire con più lucidità il mondo circostante.
Ma, se la Tuscia viterbese rappresenta un fenomeno del tutto eccezionale e forse irripetibile, come nasce e si sviluppa l’idea della casa d’artista?(2) In realtà, il fenomeno delle case d’artista ha inizio durante il Rinascimento insieme al processo di emancipazione professionale e sociale dell’artista. Per l’artigiano che ha sempre conosciuto il lavoro di bottega, nasce così la necessità di acquisire una casa in linea con la sua nuova posizione professionale e sociale. Pertanto, piegarsi a certi rituali sociali non vuol dire rinunciare alla propria individualità. Ecco perché, oltre ad essere il riflesso delle ambizioni artistiche e sociali del loro proprietario, le case d’artista di questo periodo hanno spesso in comune il fatto di rientrare in un progetto ancora più ampio che intende affermare l’artista come il diretto prosecutore dell’antica tradizione. Scegliendo di iscriversi nella tradizione della storia dell’arte, l’artista decide di non sacrificare sull’altare del prestigio sociale quel talento artistico che fa di lui un individuo a parte e della sua casa un caso abitativo originale.
A partire dal XVIII secolo, costruire la propria casa significa, per un artista, vivere un’avventura privata e personale, attraverso la quale riuscire finalmente a trovare il proprio posto nell’universo. Piano piano si afferma una nuova concezione dell’artista che presto troverà piena espressione con il Romanticismo, seconda grande stagione per lo sviluppo delle case d’artista dopo il Rinascimento. Mentre il genio dell’artista trionfa fino a raggiungere un livello di sacralizzazione senza precedenti, la casa e l’atelier diventano un tempio, un luogo sacro dedicato all’adorazione del suo proprietario e della sua arte. Col XX secolo tramonta la figura del genio e nell’ambito delle case d’artista si diffonde un generale ritorno alla sobrietà che trionfa con l’affermarsi del funzionalismo. Le case del XX e XXI secolo non devono più ostentare la ricchezza o il potere del loro proprietario e non sono più il rifugio del lavoro solitario dove viene celebrato il culto dell’artista geniale. Con l’avvento delle avanguardie del ‘900 la casa d’artista si presenta come una casa-manifesto aperta sul mondo, volta al cambiamento della società, e diventa il luogo delle sperimentazioni artistiche e delle dichiarazioni d’intenti.
Sotto questo profilo, viene spontaneo pensare alla casa-studio parigina di Piet Mondrian, dove l’artista ha cercato di dare forma concreta ai principi estetici neoplastici rivendicati nella rivista “De Stijl”, fondata insieme a Theo van Doesburg nel 1917. Oppure all’opera mitica di Kurt Schwitters, il Merzbau, costruita a partire dall’accumulo di svariati oggetti. La casa dell’artista diventa un’opera d’arte a se stante, dove arte e vita si confondono irrimediabilmente.
«La casa è l’uomo, tel le logis, tel le maître; ovvero 'dimmi come abiti e ti dirò chi sei'»: la casa è l’uomo, anche quando si può appena dire che casa ci sia […]»(3), scrive Mario Praz. L’uomo costruisce sempre una casa a sua immagine per guardarvi, come in uno specchio, il proprio riflesso confortante. In questo tutt’uno tra la casa e il suo abitante, lo spazio abitativo assume la funzione di rifugio; un riparo dal mondo esterno dove, nell’intimità della solitudine, spogliarsi delle convenzioni sociali, ritrovare il proprio equilibrio interiore e ripartire per incontrare nuovamente l’altro. Come evoca poeticamente Gaston Bachelard ne La poétique de l’espace: «Il semble alors que c’est par leur “immensité” que les deux espaces: l’espace de l’intimité et l’espace du monde deviennent consonnants. Quand s’approfondit la grande solitude de l’homme, les deux immensités se touchent, se confondent»(4).
In Bemerkungen zu Kunst – Plastik – Raum, Martin Heidegger indaga il movimento che porta lo spazio a farsi spazio e il modo in cui l’uomo plasma lo spazio stesso. Nel pensiero del filosofo tedesco, vivere significa per l’uomo dare forma allo spazio in cui si trova. Gettato nello spazio aperto, l’uomo non è un mero corpo in balia degli eventi ma vive il suo corpo nell’atto di modellare lo spazio circostante. Ecco come l’uomo viene ammesso a soggiornare nello spazio, trovandosi già in rapporto con gli altri e con le cose. L’esperienza dell’abitare sembra allora scaturire naturalmente da questo processo descritto da Heidegger, perché abitare lo spazio e abitare la casa pongono l’uomo in una stessa funzione ordinatrice della realtà. Tuttavia, si tratta ancora del momento costitutivo dell’abitare, spiega Maurizio Vitta in Dell’abitare. Corpi, spazi, oggetti, immagini, quando, in un confronto diretto, il corpo si impossessa dello spazio ristabilendo l’ordine primordiale della tana, dell’antro o del nido a partire dal quale si svilupperà ogni forma possibile dell’abitare. Subito dopo, il progetto dell’abitare si organizza, lo scontro iniziale tra il corpo dell’abitante e lo spazio architettonico si trova ormai mediato da un apparato funzionale, l’arredamento, che si impone come la vera essenza dell’abitare. Difatti, a partire dal momento in cui si decide di affidarsi al potere ordinatore delle cose, una mera scatola tridimensionale può trasformarsi nello spazio intimo di una casa. Del resto, arredare deriva etimologicamente dall’aggiunta della particella latina -ad alla parola gotica raidjan («ordinare»), affine al germanico (ga)redan («avere cura»)(5). Quindi, arredare significa avere cura dell’organizzazione dello spazio della vita, tramutando un ambiente inerte in uno spazio vivo dove ogni cosa è parte integrante di un insieme coerente e suggestivo.
Se è l’arredamento a dare la sua vera fisionomia all’abitazione, se sono le cose a contrassegnare la nostra esperienza abitativa, diventa importante cercare di capire come si definisce una cosa, perché la cosa deve essere distinta dall’oggetto e come si attua il nostro rapporto alle cose. Ne La vita delle cose, Remo Bodei ha tentato di rimediare al malinteso che spesso tende ad accomunare «cosa» e «oggetto», dimostrando che le cose e gli oggetti sono in realtà concettualemente opposti, nonostante la loro abituale assimilazione nella vita quotidiana. L’oggetto – dal latino medievale obicere che significa «porre innanzi»(6) - è quello che mi sta davanti come un ostacolo, quello che mi impedisce il cammino provocando in me un arresto. È quindi un termine che implica una sfida con ciò che impedisce al soggetto di affermarsi. Questo confronto si conclude con la disfatta dell’oggetto, il quale si arrende finalmente al possesso e alla manipolazione del soggetto. Diversamente, la cosa – che deriva dal latino causa, ossia «[…] ciò che riteniamo talmente importante e coinvolgente da mobilitarci in sua difesa»(7) - non deve lottare per sottomettere o aggirare un ostacolo, il suo ruolo consiste piuttosto nel mettersi in relazione con l’altro nel rispetto della sua alterità, senza pretendere di volerne prendere il controllo. La cosa ha quindi un significato più profondo rispetto all’oggetto, perché ha a che fare con ciò che coinvolge affettivamente le persone. Per tramutare un oggetto in cosa, bisogna investirlo di affetti, caricarlo di concetti e simboli, trasformarlo in una specie di prolungamento di noi stessi. Amando e rispettando le cose nella loro singolarità, intrecciamo con esse un legame unico che ci spinge ad innalzarle dalla loro condizione precaria trasformandole in piccoli frammenti di eternità. Contrariamente agli oggetti che tendiamo ad alterare nel loro uso quotidiano, le cose sono custodite con cura e preservate dall’azione del tempo. Sottraendo le cose al loro stato di precarietà nello spazio e nel tempo, racchiudiamo in loro, come in un’opera d’arte, il senso profondo dell’esistenza. Ecco allora che, prendendosi cura delle cose, l’uomo rivolge in realtà lo sguardo verso il mistero delle sue origini, inaugurando una nuova relazione tra sé e sé. Proprio questo compie il collezionista che, al pari dell’artista, possiede la capacità rara di rivelare l’uomo a se stesso.
Le case degli artisti racchiudono generalmente un ambiente che da sempre alimenta le fantasie. Si tratta dello studio; luogo intimo della creazione avvolto da un’aura di mistero che irresistibilmente affascina chi cerca di svelarne i segreti più remoti. Un mistero che progressivamente e inevitabilmente ha portato alla formazione di una sorta di idealizzazione e sacralizzazione dello spazio dell’atelier. Eppure, quest’aura di mistero e di sacralità che avvolge l’atelier sembra oggi più che mai destinata a scomparire. Secondo gli studiosi, siamo ormai entrati nell’era del post-studio in cui si riscontra un totale rifiuto del concetto di atelier. La messa in discussione dell’atelier è probabilmente iniziata con gli impressionisti che preferivano abbandonare lo studio per lavorare en plein air. Questa desacralizzazione dello studio si è poi accentuata nell’era del concettualismo, quando l’atelier è diventato un luogo dedito alla riflessione piuttosto che uno spazio di lavoro manuale sulle opere. La Land Art, operando direttamente sulla natura, ha infine completato questo quadro inducendo gli artisti a disertare sempre più frequentemente lo spazio dell’atelier. Tra i grandi precursori dell’era del post-studio possiamo citare Robert Smithson, il pioniere della Land Art, e soprattutto Daniel Buren che nel suo Fonction de l’atelier (1979) descrive lo studio come un ambiente limitante da cui l’artista dovrebbe assolutamente rifuggire per potersi sottrarre definitivamente alla sfera d’influenza di un sistema dell’arte eccessivamente vincolante.
D’altra parte, il fatto di rivendicare con passione l’inutilità dell’atelier, genera forse l’effetto opposto, ossia la sopravvivenza, a dispetto di tutto e tutti, del concetto stesso di atelier. L’idea della crisi dello studio e dell’avvento di un’era del post-studio, può, a sua volta, essere un mito creato dalla critica? Perché, in fondo, lo studio dell’artista è più di un luogo fisico, corrisponde ad un momento di lavoro che non è riducibile unicamente alla fisicità di un ambiente, ma che si esprime piuttosto attraverso l’atto del pensare e del fare. Un pensare e un fare che non necessitano di uno spazio fisico per attuarsi. Ecco allora perché etimologicamente la parola atelier – dal francese antico astelle che significa «scheggia di legno»(8) - perde qualsiasi connotazione di stampo fisico-spaziale, definendosi solamente attraverso ciò che rimane di un lavoro già compiuto (una scheggia di legno). In ogni caso, l’atelier continuerà ad esistere, supererà le sue frontiere fisiche facendosi pensiero e azione per servire la creazione dell’opera d’arte. Anzi, si fa avanti l’ipotesi se non sia giunta l’epoca dell’iperesibizione dell’atelier, piutttosto che l’era della sua definitiva caduta. Ce lo suggerisce Stefania Zuliani individuando un sintomo di questa iperesibizione nel fenomeno di musealizzazione che colpisce lo spazio dell’atelier(9). Un processo che fa dell’atelier e della casa d’artista una specie di feticcio alla moda da esibire, come per continuare a trasmettere in eterno la presenza simbolica dell’artista diventato idolo da venerare.
Dalla casa d’artista alla casa-museo, la trasformazione può anche sembrare trascurabile, eppure il processo di musealizzazione cambia profondamente il senso di uno spazio abitato, perché si passa improvvisamente da un luogo chiuso e inaccessibile (la casa) ad un luogo aperto a tutti (il museo). Siamo di fronte ad un problema di fondo: una casa non nasce per diventare un museo. Anche quando la casa d’artista è la stessa e la sua integrità viene preservata, in fondo si è già perso qualcosa della sua aura. Drammatico sembra allora il destino di quei studi o di quelle case definitivamente trasferiti in altre sedi, com’è avvenuto per lo studio parigino di Costantin Brancusi ricostruito da Renzo Piano di fronte al Centre Pompidou o per lo studio londinese di Francis Bacon ricostituito nella Hugh Lane Gallery di Dublino. Il problema è che all’interno di un atelier ricostruito non succede più niente. All’interno della casa e dello studio di un artista, la vita scorre e il tempo passa; all’interno della loro ricostituzione, lo spazio è come fossilizzato e il tempo si cristallizza. Privato della sua quotidianità, lo spazio di vita dell’artista, una volta ricostruito, si trasforma in una specie di reliquiario che si va a visitare come se fosse un pellegrinaggio. Entra in gioco una specie di voyeurismo che spinge il pubblico a voler spiare l’intimità dell’artista, nella speranza di cogliervi il mistero del suo genio. Alcuni artisti e collezionisti hanno però reagito a questa conservazione post mortem della loro casa. È il caso del famoso collezionista Edmond de Goncourt che, nel suo testamento, esprimeva la sua volontà di andare contro la tradizione della casa-museo: «Voglio che ai miei disegni, alle mie incisioni, ai miei oggetti, ai miei libri, insomma ad ognuna delle cose che hanno reso felice la mia vita, sia risparmiata la gelida tomba di un museo e lo sguardo vacuo di un passante indifferente, voglio invece che vengano sparpagliate dal martello di un banditore»(10). Dev’essere apparsa ancor più radicale la decisione presa da Jean-Pierre Raynaud, nel 1993, di distruggere la sua casa di La Celle-Saint-Cloud diventata l’opera d’arte della sua vita. L’artista francese aveva capito che la sua creazione non poteva sopravvivere in eterno in questo stato di fissità, doveva vivere un destino eccezionale, doveva essere demolita.
Gli atteggiamenti di Edmond de Goncourt e Jean-Pierre Raynaud ci permettono di capire che la trasformazione delle case d’artista in case-museo non sempre si rivela essere la soluzione giusta. Conservare non dovrebbe mai significare mantenere in vita a tutti i costi. Massimo Carboni, evocando l’essenza contingente e effimera dell’arte contemporanea, consiglia di interrompere «l’accanimento terapeutico» cui vengono sottoposte, contro la loro volontà, le opere d’arte contemporanea. «L’azione di tutela», scrive Carboni, «non dovrebbe mai né apparire un’illusione autoconsolatoria né assumere le vesti più o meno esplicite di un culto del ricordo: è lo stesso oggetto su cui si esercita che in tutta evidenza lo impone»(11). Come nel caso dell’arte contemporanea, le moderne logiche di tutela del patrimonio artistico devono ripensare se stesse per adeguarsi ad una nuova categoria del mondo museale, quella della casa d’artista.  Si tratta sostanzialmente di una questione etica che ci richiede di rinunciare alle nostre abitudini di archiviazione compulsiva per accettare un istante l’esistenza della dimensione dell’oblio. Un praticare l’oblio che tuttavia «non ha qui niente a che spartire con l’inerzia o la disattenzione, la trascuratezza o l’omissione», spiega Carboni, ma che piuttosto «si avvale di una calcolata strategia dell’estinzione: consapevole, organizzata, tecnicamente attrezzata»(12). Quindi, dimenticare come atto critico per garantire il rispetto dell’identità viva della casa d’artista, perché non le si può imporre una sopravvivenza che non gradisce. Non è detto infatti che, per tramandarsi, la memoria di una casa d’artista debba necessariamente inverarsi in un oggetto sensibile. Secondo Massimo Carboni, l’inedita forma che il restauro può assumere, in vista del rispetto del diritto dell’opera d’arte contemporanea all’oblio, è quella del dibattito pubblico. Un’idea facilmente applicabile anche alle case d’artista che, attraverso il dibattito pubblico, potrebbe finalmente diventare memoria viva, liberandosi da quella immobilità in cui le tradizionali ricostruzioni tendono a costringerla. È quindi arrivato il momento che il mondo della critica e del restauro ripensi se stesso e accetti di istituire un ricordo della casa d’artista non più monumentale o cultuale, ma vivente. Perché, piuttosto che mettersi al servizio di un turismo di massa, una casa d’artista potrebbe anche rimanere in noi, «[…] come qualcosa di “dimenticato a memoria”, ma proprio per questo indimenticabile»(13).
Luglio 2019
1) Maurizio Vitta, Dell’abitare. Corpi, spazi, oggetti, immagini, Torino, Einaudi, 2008, pp. 3-4.
2) Sulla nascita e lo sviluppo delle case d’artista dal Rinascimento ad oggi: Eduard Hüttinger, “La casa d’artista e il culto dell’artista” in Case d’artista. Dal Rinascimento a oggi, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 3-42.
3) Mario Praz, La filosofia dell’arredamento. I mutamenti nel gusto della decorazione interna attraverso i secoli dall’antica Roma ai nostri tempi (1981), Milano, TEA, 1993, p. 20.
4) Gaston Bachelard, La poétique de l’espace, Paris, Les Presses universitaires de France, 1957, p. 228.
5) Per l’etimologia della parola arredare: Maurizio Vitta, op. cit., p. 204 e la voce arredare del Vocabolario della Lingua Italiana Treccani.
6) Remo Bodei, La vita delle cose (2009), Bari, Economica Laterza, 2011, pp. 19-24.
7) Op. cit., p. 12.
8) Jean-Pierre Latour, “L’atelier et son dessein”, Espace, n. 57, autunno 2001, Montréal, p. 8.
9) Stefania Zuliani, “Post studio? Produzione ed esposizione dell’opera nel Global Art World” in Stefania Zuliani (a cura di), Atelier d’artista. Gli spazi di creazione dell’arte dall’età moderna al presente, “Arte e Critica”, Milano, Mimesis Edizioni, 2013, pp. 181-193.
10) Edmond de Goncourt, La casa di un artista, a cura di B. Briganti, Palermo, Sellerio, 2005.
11) Massimo Carboni, “Tra memoria e oblio. Tutela e conservazione dell’arte contemporanea : l’orizzonte filosofico” in Paolo Martore (a cura di), Tra memoria e oblio. Percorsi nella conservazione dell’arte contemporanea, Castelvecchi, Roma, 2014, p. 14.
12) Op. cit., p. 18.
13) Op. cit., p. 26.