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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

La disgregazione culturale e la schiavitù degli intellettuali nell’epoca della burotecnocrazia

Domenico Scudero

Siamo in un’epoca di grandi rivoluzioni, il cui movimento possiamo osservare anche sostando nei luoghi meno significativi della nostra esperienza vissuta. Ovunque, come descritto nei paesaggi di Wenders di Fino alla fine del mondo (1991), un mondo virtuale incalza e sostituisce quello reale. Ma non siamo dentro la scheda Matrix.

Dopo aver sperimentato lo spazio sociale del digitale ci siamo ritrovati nell’assurda situazione di vivere insieme una vita reale in una sola identica dimensione: immobili davanti ad uno schermo. Ciascuno di noi ha invertito la sua rotta verso l’egospazialismo, un luogo chiuso nel sé più profondo e solo apparentemente aperto al mondo.

Siamo molto concentrati nel non lasciarci travolgere da questa rivoluzione che non soltanto ci riguarda, addirittura ci trita nel suo grande mix (Joshua Cooper Ramo, The Culture of Today's Changing World - Departures, 2009). E come in un incubo frequentato dagli zombie di Romero ci ritroviamo a lottare in un mondo in cui l’unica realtà sembra essere quello della merce, da comprare o da vendere, che ci circondati. Prigionieri in un centro commerciale. Gli intellettuali, in realtà, hanno poca merce da vendere. Si diceva che sarebbero stati anni virtuali e che gli intellettuali tutti ne sarebbero stati favoriti. A vederli adesso, proni ai desideri proiettati su di loro dai guru del marketing, non si direbbe proprio.

Ci si interroga spesso sull’identità degli anni tecnologici, sul significato e sul come possa influire sulla cultura questa nuova realtà, quali tecnologie risultino più perniciose o propositive. Tuttavia la varietà della cultura prodotta nei nostri anni per quanto caleidoscopica sia, dimostra che l’intelligenza dell’uomo non basta a comprenderla. Le macchine analizzano meglio quasi tutto, già adesso. Ciò che oggi dobbiamo ammettere è che non esiste una visione umana che possa realmente spiegare il senso di questa rivoluzione culturale – usando il termine nel significato complesso ed antropologico -.  E successivamente è lecito porsi la domanda se non sia arrivata la fine della cultura umana. Le macchine inizieranno a produrla al nostro posto? Di sicuro in questi anni si è specificamente lottato contro gli intellettuali; uccidere la libertà di pensiero è sembrato essere la sola occupazione comune di tutti i potentati. Il desiderio di libertà espresso dalla rete si è scontrato con la brutale repressione. Se non c’è stata repressione si è alimentata una cultura mercantile sbandierata come giusta per principi di attribuzione intellettuale ma in fondo costruita per controllare e incassare nuovi dazi. Non passa giorno in cui non arrivino notizie di ulteriori freni e bavagli alla libera comunicazione. D’altra parte il processo è in atto da tempo e non sembra volersi arrestare. Se la rete è la nuova realtà e non può essere usata creativamente dagli intellettuali, dov’è la libertà esistenziale per questa categoria di persone?

Uno dei segni più evidenti dell’odierna condizione degli intellettuali deriva dalla constatazione che essi convivono in una situazione postdemocratica, o meglio in quella postdemocrazia di Croach (Postdemocrazia, trad. it. di C. Paternò. Laterza, Roma Bari, 2003) in cui il coefficiente di partecipazione intellettiva del singolo è ridotto alla mera sottoscrizione di paradigmi eterocliti dovuti alle elargizioni “accessorie” del supercapitalismo globale. In cui non esiste possibilità alcuna di un pensiero altro, o esterno, perché in quanto esterno non ha diritto alla comunicazione e senza comunicazione non ha alcun diritto d’esistere. E inoltre, poiché economicamente ingestibili e dannose, le tensioni culturali sono patrocinate in modo propagandistico, vuoto ed altalenante, e vissute come mera elemosina sociale quando elargite a microcomunità. La postdemocrazia ci rende schiavi consenzienti e nemici di coloro che più di altri potrebbero e dovrebbero essere i nostri solidali. Il cerchio si chiude nel solipsismo. Il solipsismo degli intellettuali si manifesta nel non voler adempiere al loro compito socialmente e nel rinchiudersi nel magnifico sogno di dominio intellettivo, mentre al contempo una rete occhiuta e non creativa, obbligata nelle scelte dal controllo digitale e commerciale diviene l’unica cultura accettata.

Come molti altri, anch’io mi sono chiesto cosa possa significare realmente per la nostra vita il fatto di rimanere controllato da stringhe di comandi e tracce elettroniche. I dati che seminiamo possono ricostruire in pochi secondi tutta un’esistenza, tutto quello che è stato fatto, quali treni e aerei un singolo individuo ha preso, quali e quanti numeri di telefonia ha chiamato, cos’ha visto e cosa ha comperato in rete, cos’ha scelto di comperare al supermercato, quali film ha visto, quali mostre ha visitato. Non c’è più nulla che non sia tracciabile o che non essendo tracciabile di per sé non sia collegato in qualche modo ad un tracciatore digitale. Tutto ciò che siamo e che saremo può essere ricostruito in un blocco di dati. Virtualmente anche la biosemiotica facciale, le impronte, i dati ospedalieri e bancari confluiscono in questo ipotetico moloch individuale, l’ammasso numerico digitale che è il tratto indissolubile della nostra identità. Ammesso che la mia vita possa mai interessare qualcuno, non c’è cervello umano che possa realizzare una simile operazione. Sono i nuovi super elaboratori digitali a poterlo fare. Sono le uniche intelligenze che attualmente riescono a ricompattare la frammentazione del sapere e possono fare anche questo. E non c’è né pensiero né sapere umano in tutto questo.

La parcellizzazione dei saperi ha di fatto prodotto la sperequazione della banalità del male, diffondendo ciò che nella nota definizione di Hanna Arendt era attribuibile sostanzialmente alla disumanizzazione dei processi di produzione e comunicazione sociale. La disumanizzazione ha ferito direttamente quelle categorie che più di altre producevano cultura e sapere. Fomentando nella società il desiderio di liberalizzazione del sapere, che il web sostanzialmente produce in autonomia, il sistema di potere ha volontariamente sostenuto il “dividi e impera” fra le masse, suggerendo in queste l’autonomia culturale e interpretativa, e nelle classi colte un senso di inadeguatezza improduttiva (Yves Charles Zarka, La destitution des intellectuels et autres réflexions intempestives, Puf, Paris, 2010).

Sono quindi gli intellettuali gli schiavi del ventunesimo secolo nelle società dell’abbondanza? In una visione trasversale della cultura certamente no; ovvero se consideriamo cultura quella predicata dal parrucchiere, con le sue forme volubili dovute ad un evocato incontro tra la forma del design con la chiacchiera da anticamera dell’estetica. Ma se consideriamo il produttore di cultura alla stregua di un pensiero elevato sulla poiesis - nel fare inteso come oggettualizzazione simbolica – allora sì. Qualcosa di profondamente oscuro è intervenuto ad incrinare il rapporto archetipale fra intellettuale e società, in quel complesso scambio intrattenuto fra costoro e le nuove società digitali.

Le società postdemocratiche non riconoscono altro che l’esistenza in vita di un singolo individuo, svuotato di specificità professionali, intercambiabile, inessenziale e inattuale (Critica delle nuove schiavitù, a cura di Francesco Fistetti,  Pensa Multimedia, Lecce, 2009). L’intellettuale ha come unica ragione d’essere quella di rinascere ogni giorno in quanto individuo pensante, esattamente ciò che questa società digitale non gli può consentire. La parcellizzazione omogeneizzante del sociale infatti non si delinea solamente nei confronti delle grandi concentrazioni tipologiche ma anche e più visibilmente nelle micro aggregazioni come quelle professionali o categoriali. Sovrapponendo l’esistenza dell’individuo sopra qualsiasi interpretazione di categoria il nuovo patronato senza volto, che nello sguardo massmediale può allusivamente essere simboleggiato dalle grandi multinazionali, ha di fatto desertificato le strutture di difesa collettiva e ogni qualsiasi volontà aggregativa, postponendo al singolo la legittimità di ricorrere in sua stessa difesa. Un compito improbo si è profilato per il singolo, privo di solidarietà nel collettivo, individualizzato anche nei bisogni primari, solo e ingannevolmente alla pari con chi gestisce il potere economico. E in più, nel tripudio del pensiero intellettivo l’individuo pensante riconosce l’ingannevole farsa della libertà di pensiero. Se il pensiero è libero è fuori dalla norma, se è fuori dalla norma è anche fuori della comunicazione, e di conseguenza anche l’individuo pensante è fuori da ogni società.

La riunificazione in dogmi sintetici culturali, in quella che sembrerebbe una sorta di rinascita dell’epoca mitologica della natura umana, è una necessità per garantire le dinamiche liberiste. Una società che condivida l’opinione di inesprimibilità della cultura ha infatti nessuna possibilità di permanenza nell’ordine; la cognizione di un significato è necessario. Qui sorge l’universalità del logo, come luogo definito dall’ipermodernità per circoscrivere l’orizzonte della comunicazione e sacralizzarla.

L’omologazione del liberismo si attua culturalmente attraverso la sponsorizzazione della cultura al fine di sacralizzare il logo. Nell’ambito del sapere il logo sostituisce le icone religiose per dimostrare l’inspiegabile potere delle multinazionali e delle finanziarie globali. Ma il logo è già di per sé un dogma sintetico, la summa di un potere esercitato con ogni mezzo, anche e soprattutto per via del veicolo pubblicitario atto a dimostrarne l’ideologia liberista a fin di bene, per garantire la correttezza allusiva della politica societaria. Nella nostra società ipocrita, la società che compie Il delitto perfetto di Baudrillard, qualsiasi azione, anche la più turpe è accettata al fine di tutelare il buon fine del profitto. La postcultura è assunta come ibridazione societaria per riscaldare al tepore della correttezza qualcosa che, in nome del profitto, corretto socialmente non può esserlo. Di conseguenza non può meravigliare se la cultura artistica, la forma di oggettivazione più manovrabile per la sua fissità immota, è diventata strumento simbolico del potere economico e l’arte corre il rischio di non essere più riconosciuta come valore fondamentale della cultura da chi sostanzialmente ne ha conosciuto e forgiato la vera essenza e da chi la fa: gli artisti, i critici, gli storici dell’arte.

L’inefficacia di risposta del singolo si coglie in qualsiasi momento della vita tecnologizzata dell’uomo contemporaneo. Dalle fastidiose aggressioni della pubblicità non rifiutabile sulle pagine web, che lo stesso visitatore occasionale è costretto a pagare in forma di collegamento web, alle continue pressioni in forma anonima su qualsiasi rete anche privata, per servizi non richiesti e il più delle volte addirittura ingannevoli. Il singolo non ha voce in queste stupidissime aggressioni, figuriamoci in ambiti più complessi: l’abnorme peso pressante dei poteri occulti che obbligano pesanti pedaggi collettivi per servizi divenuti obbligatori – si veda il caso emblematico delle transazioni elettroniche obbligatorie addebitate e al peso che simili tasse improprie possono generare sull’effettivo costo della vita – il nostro mondo è pieno, denso di soprusi legalizzati e falsificati nei chiasmi di un alone libertario inesistente. A simili soprusi non possiamo che rispondere con l’affermazione sincretica di non esserne toccati. Ma un simile desiderio corrisponde alla volontà e agli appetiti delle strutture finanziarie ed economiche del digicapitalismo avanzato piuttosto che al singolo individuo.

La menzogna del sistema sociale ipermoderno consiste nel rivendicare la legalità come valore invalicabile anche quando questa determina azioni inumane, tossiche per la coesistenza. Tutti sappiamo che la legalità corrisponde ai desideri di un allusivo universo di segni determinato da cultura e sapere. Ed è qui che nasce il vero problema degli intellettuali. Si ritrovano alla soglia del potere solo tradendo, per via della loro individualità, il senso stesso dell’appartenenza ad una storia di cultura. Oppure si esiliano dal potere e riconoscendo la vacuità e l’oscurità delle sue trame individualiste si pongono follemente al di là della legge, in un territorio che è già delirio di sapere.

Al valore dell’individuo culturalmente attivo il mondo ipermoderno ha sovrapposto la massificazione, rifluendo le istanze del singolo all’interno di un desiderio collettivo d’esserci che non può manifestarsi nemmeno secondo i dettami del più trito luogo comune volgarizzato nelle masse pop. Il desiderio d’esserci, d’esistere e lasciare tracce di un vissuto intellettivo, è stato talmente banalizzato nella società pop da diventare un riflesso incondizionato dell’essere umano contemporaneo, e che in definitiva è stato poi cancellato dal linguaggio delle macchine, il copia incolla, la sperequazione disuguagliante, l’omologazione dispettosa. L’impossibilità del dialogo culturale, in definitiva, è nella costante, perniciosa, compressione dell’intelletto all’interno di una unicità di vedute, legale, medicale, sacrale, sostanzialmente muta o riflessione balbettante di significati raccolti casualmente, o in misura obbligatoria divenuti pensiero condiviso. Qui allora, appare evidente, gli intellettuali incontrano l’impossibilità d’esistere.