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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Visita allo studio londinese dell’artista.

Teresa Lucia Cicciarella

Londra, maggio 2014. L’appuntamento con Ludovica Gioscia, artista nata a Roma nel 1977 e già da vent’anni residente nella capitale del Regno Unito, ci conduce nella vivace zona ex-industriale di Hackney Wick, nell’East End, nota per l’altissima presenza di artisti – “qui si registra il maggior numeri di artisti per metro quadro in Europa”: racconterà Gioscia di lì a breve – e il movimento culturale da essi innescato. Zona, tuttavia, non priva di criticità, in special modo quella – al centro di attualissimi dibattiti sulla stampa londinese[1] – legata all’ambiguo fenomeno della gentrification, ossia la trasformazione di un quartiere popolare in uno di prossima destinazione “signorile” che passa attraverso il risanamento del luogo e la riconversione delle vecchie abitazioni e degli spazi commerciali, non in ultimo mediante agevolazioni atte ad ospitare, seppur di passaggio e in maniera non marginalmente strumentale, una o diverse comunità artistiche.

Lo spazio di lavoro di Ludovica Gioscia fa parte dei Cell Studios, fittissimo block di derivazione industriale ospitante, al suo interno, microcosmi creativi di varia provenienza: l’accoglienza da parte dell’artista è estremamente cordiale e introduce in un archivio-laboratorio coloratissimo, nel quale è immediatamente evidente la coesistenza tra oggetti commerciali – frammenti, residui, fogli su fogli – e strumenti di produzione; materie, forme e immagini eterogenee che preannunciano un universo creativo stratificato e compatto al tempo stesso. Universo che si sviluppa – attraverso un linguaggio e un’estetica manifestamente coesi – intorno ai binomi-chiave di decoro e superficie, indagine archivistica e ironia, accumulo e distruzione, prodotto e scarto e infine intorno all’approccio che si dichiara essere un’ipotesi di lettura antropologica del consumo.

Ludovica Gioscia è artista complessa, capace di essere – parafrasando Susan Sontag – serious about the frivolous[2]; forte di una solida preparazione accademica e culturale – con un percorso compiuto tra Roma, il Chelsea College of Art & Design e la Slade School of Art, Londra – e delle numerose esperienze vissute all’estero (tra queste, le residenze d’artista in Asia e Australia e i viaggi americani) nonché di una rapace curiosità verso i multiformi linguaggi della comunicazione, del design e della moda, ambiti, gli ultimi due, fortemente radicati nel Made in Italy osservato, amato e sviscerato specie nella declinazione assunta negli anni Ottanta e Novanta.

A tal proposito, ponendo l’attenzione sul pattern come elemento-chiave della figurazione degli anni Ottanta del secolo scorso – tra moda milanese e fenomeno, parimenti localizzato in origine, del collettivo Memphis animato da Ettore Sottsass e da un gruppo di giovani architetti-designer – inizia la conversazione con l’artista, che tiene a sottolineare come il suo interesse per la moda e il design non riguardi soltanto la sfera d’espressione creativa ma, allargando il campo: “la dinamica di un’industria – quella contemporanea – all’interno della quale moda e design dettano tutto: il nostro ambiente, come ci muoviamo e come ci rapportiamo alle cose. Impossibile parlare di consumismo senza parlare di moda e design”[3].

Il linguaggio di Gioscia si nutre, in parte ma in maniera significativa, della lezione offerta da Sottsass & co. nei primi anni Ottanta, con la costituzione del democratico collettivo Memphis nel quale il maestro ha lavorato – da pari a pari –  con giovani formatisi nella sfera dell’architettura e del design, proponendo una vera rivoluzione stilistica nella quale struttura e decorazione, come una sola cosa inscindibile, hanno concorso a creare l’immaginario estetico iper-cromatico di un intero decennio. I pattern rappresentativi dello stile-Memphis, “di ispirazione socio-linguistica”[4] e non meramente estetica, da quelli realizzati da Sottsass e De Lucchi a quelli di Nathalie du Pasquier (circa negli stessi anni designer per la storica marca d’abbigliamento e accessori Naj Oleari); le forme parzialmente d’ispirazione Futurista (come non ricordare il Giardino Futurista concepito da Giacomo Balla dal 1916 al ’30?) proiettate negli anni del Post-Modern hanno forgiato in Ludovica Gioscia un gusto che sfocia in forma e superficie al tempo stesso, legandosi all’analisi del fenomeno italiano dei “Paninari” e, parallelamente, a ciò che definisce “pattern-su-pattern”, generando un’evidente vivacità e qualità cromatica. All’Archivio Paninaro, serie di opere che mescolano gli oggetti-cult di un movimento tutto italiano, con lo sguardo rivolto all’America e il portafoglio aperto all’acquisto di merci – e brands – divenuti status-symbol, guardano anche le strutture dell’emblematica sequenza dei Vomitoria, sculture oggettuali nelle quali legno, plastica, tessuti e brani di carte da parati si associano in maniera stridente al nome dell’ipotetico spazio dell’aristocrazia romana antica atto ad accogliere l’emissione di cibo propedeutica all’assunzione – smodata – di altro cibo e altre bevande. Necessario sottolineare, tuttavia, come il termine “funzioni” a un livello di suggestione, giacché le usanze dell’antica Roma non prevedevano un luogo reale per l’espletamento di tali sgradevoli funzioni: il corretto utilizzo del termine vomitorium si riferisce a tutt’altro oggetto, ossia ai corridoi d’accesso ai teatri. Nonostante ciò, è indubbio come il termine favorisca una simile associazione d’idee e oggi, per estensione – come ci suggerisce l’artista – possa metaforicamente rappresentare la paradossale polifagia innescata dal sistema consumistico.

A partire dall’analisi delle dinamiche del consumismo e, mediante questa, tracciando ciò che ama definire “un largo archivio dell’edonismo attraverso la storia”[5], la pratica di ricerca di Gioscia e il suo modo creativo si esplicano diramandosi in vari filoni, ciascuno strettamente legato all’altro; i principali sono: un lungo lavoro di selezione e archiviazione di carte da parati (elemento simbolico di stratificazione culturale nonché, chiaramente, di decoro auto-rappresentativo; rimando a una funzione estetizzante rivolta all’ambito domestico) – dettato da estrema flessibilità e non soggetto ad alcun criterio gerarchico, laddove esemplari di prima ristampa da William Morris possono convivere con esemplari iper-pop e kitsch acquistati su eBay – e, d’altro canto, di immagini pubblicitarie legate al settore del make-up, con rossetti smalti e ogni sorta di merce presentata secondo ben precise strategie di marketing, che sulla carta stampata coinvolgono immagine e contenuto testuale.

Procede parallelamente a tutto questo un preciso lavoro manuale, che fa sì che la spinta di accumulo e selezione d’oggetti si coniughi a pratiche di collage (e décollage, come vedremo a breve), assemblage e costruzione, ma anche – ed è questa una nota peculiare del lavoro di Gioscia – alla concezione e alla realizzazione artigianale di carte da parati, il cui pattern nasce da disegni o elaborazioni grafiche.

Più volte, nel corso della conversazione, Ludovica Gioscia sottolineerà come il suo linguaggio – che ha preso corpo già nei primi anni del Duemila – origini dallo zeitgeist attuale, lo spirito del tempo che vede ormai assodata la rivoluzione digitale e, parallela ad essa, l’affermazione di ciò che il critico Norman M. Klein definisce “barocco elettronico”, caratterizzato dall’esuberante compresenza e dal massiccio inoltro di testi visivi, d’informazione, d’intrattenimento e neo-propaganda – attraverso i media, la rete virtuale e il tessuto urbano. Viviamo in un’epoca, insomma, nella quale – verrebbe da dire parafrasando il celebre argomento di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven lzenour – la percezione dei simboli sembra precedere (e sopravanzare) la percezione delle forme[6]: un tentativo d’analisi, dunque, non scevro da ironia, non può che generarsi dall’atto dell’archiviare e catalogare alcune tra le forme simboliche del quotidiano, in risposta a un’esigenza che forse può definirsi – con Hal Foster – un “anarchival impulse”[7], laddove il prefisso an- sembra richiamare tanto la negazione della sistematicità quanto una certa anarchia nella scelta dei contenuti e dei materiali, che in Gioscia divengono punto di partenza per la creazione artistica e, attraverso essa, per il commento delle dinamiche della comunicazione attuale.

L’idea superficiale di “schermo”, inoltre, mostra ad oggi di aver ceduto il passo alla virtuale stratificazione attivata dal sistema del computer e dal continuo flusso di informazioni canalizzate in pagine web, schede e “finestre” manovrabili a proprio piacimento: tale condizione viene metaforicamente rispecchiata dalle grandi installazioni a parete che costituiscono uno dei filoni principali del lavoro di Gioscia, ossia quello dei Giant décollages, i cui primi esempi datano al 2006, frutto di una riflessione e di un processo d’acquisizione di patterns iniziato ben prima e il cui ultimo risultato è dato da X-Ray Amethist Expands Silver Sun, installazione permanente per la curatrice e collezionista Marcelle Joseph, ad Ascot.

Quella per i wallpapers è una vera e propria passione, racconta l’artista, nata a partire dal trasferimento in Inghilterra, Paese nel quale l’utilizzo di carte da parati – oscillando in base alle mode del momento – non ha conosciuto consistenti interruzioni: la fortuita scoperta di diversi strati di carta sovrapposti nel corso degli anni sulle pareti di un’abitazione ha generato, in particolare, l’istantaneo interesse per un possibile nuovo modo d’espressione, figlio legittimo, per sua stessa ammissione, della pratica del décollage di Rotella e come quello, al contempo, debitore della naturale confidenza italiana col sistema della stratificazione urbana, che passa attraverso diversi livelli temporali e diversi codici d’immagine. Ludovica Gioscia, romana, riprendendo ancora Norman M. Klein e i concetti fin qui accennati, dichiara come la sua pratica abbia giocato con una rielaborazione del Barocco e, prima ancora, della stupefacente imagerie di Bomarzo, letteralmente omaggiata mediante la grande installazione Bomarzo Vertigo (10 x 10 m.) presentata nel 2010 alla Fundació Joan Miró di Barcellona. Ai primi Giant décollages si era inoltre legata – stravolta e reinterpretata – l’idea di frattale, di sistema complesso che si genera per accrescimento e accumulo: tale concetto ha tuttavia lasciato posto, in corso d’opera, alla sempre maggiore attenzione rivolta allo squarcio, al guardare-attraverso; all’innesco di un “moto potenziale” che sembra attivare la parete svincolandola dall’ancora della bidimensionalità. A partire da ciò, effettivamente, prende corpo l’idea di un ciclo, di un serpente che si morde la coda, ipostatizzata nell’installazione Forecasting Ouroboros (2012), allestita al MACRO di Roma e fin qui – insieme a un’installazione realizzata nel novembre 2013 in Sardegna e intitolata Mineral Rush Flamingo Crush – uno dei pochi grandi lavori di Gioscia presentati nel nostro ambito nazionale. Quest’ultimo è il risultato di una residenza d’artista promossa dalla Galleria Mangiabarche di Calasetta – Carbonia Iglesias – nell’Isola di Sant’Antioco: “un luogo incantato” – ci racconta Gioscia – “una vera isola nell’isola. L’impegno era quello di realizzare un’installazione a cielo aperto: una proposta decisamente eccitante” che, aggiungiamo, le ha consentito di attraversare la memoria del luogo, realizzando anche piccoli lavori in ceramica inseriti poi entro un particolarissimo Giant décollage serenamente lasciato in balia degli agenti atmosferici e della salsedine che corrode, rimarcando lo statuto esattamente effimero dell’opera, composta in massima parte da strati di carte da parati sovrapposte e, tra queste, una incentrata sulla reiterazione della mappa mineralogica della Sardegna, come molte altre realizzata dall’artista stessa. Gioscia aggiunge: “Non sono, come vedi, legata necessariamente all’idea di un lavoro che deve rimanere. In massima parte si tratta di installazioni effimere e questo è un aspetto che accetto pienamente. Quando posso, una volta terminata l’esposizione e disallestito il lavoro, cerco di tenere degli scarti da esso risultanti; e non perché rimangano come ‘feticci’ ma proprio perché mi interessa lo scarto, come materia e parte integrante del mio lavoro. L’esistenza dell’opera è per me un ciclo a tempo determinato. Ha un inizio e una fine; ma al termine di un’esposizione ciò che trovo – brandelli, scarti – sono altrettanto se non più interessanti del lavoro compiuto”.

Dunque l’accettazione dell’idea di un “ciclo vitale” e anzi, l’importanza di questa entro la poetica dell’artista, fa sì che l’esistenza dell’opera – installazione transitoria, costruita direttamente a parete – non si limiti allo stato di décollage ma riparta sottoforma di “maceria”, residuo, Debris, verso ulteriori installazioni in cui la materia cartacea viene fissata, sovrapposta e modellata in nuove forme tanto lineari quanto scultoree. E’ quest’ultimo il caso delle Wallpaper Sculptures, finora suddivise nelle categorie di Ancone e Origami, a seconda della strutturazione in vere e proprie sculture, corpose e pietrificate o, diversamente, in più sottili giochi lineari dati da pieghe che sembrano emulare la morbidezza di una stoffa fissata a parete dopo interventi manuali di precisione sartoriale [8].

Talora tali sculture – si tratta della serie Beheaded Monarchs, modellate in dimensioni di suggestione antropomorfa, hanno evocato fantasmatiche figure di sovrani e aristocratici decapitati – in chiaro riferimento al grande periodo di stravolgimento, crisi e ricostruzione che fu la Rivoluzione Francese – nelle cui fattezze rimane traccia dell’oro, dell’argento (in realtà, brandelli di carte metalliche orientali) e della frivola vanità cortigiana che ne accompagnarono l’esistenza. Emblema di edonismo e contemporanea vanitas al tempo stesso, la serie è stata presentata nel 2009 a Pittsburgh, all’Andy Warhol Museum, sovrapposta alla celebre carta da parati Self-Portrait (1978) di Warhol.

Le Wallpaper Sculptures, inoltre, intese nel loro insieme e associate alla serie di lavori che ne deriva, quella delle Debrocks – come evoluzione e allargamento tematico, unendo alle carte anche brandelli di riviste e pubblicità – concorrono a creare ciò che Gioscia definisce come personalissima “geology of lifestyles”, nella quale lo scarto, massiccio risultato del consumismo e delle dinamiche pubblicitarie a breve termine, sembra paradossalmente assurgere alla qualità del reperto geo-archeologico, come testimonia il termine, coniato dall’artista stessa, di debrock: unione di debris, rottami, macerie e rock, roccia.

In effetti, il caso appena citato non è una sporadica testimonianza di un interesse per la sfera linguistica da parte di Ludovica Gioscia, che anzi fa con piacere uso di una terminologia ricercata e sempre ben ponderata, come avviene ad esempio quando ci parla del suo lavoro – riprendendo una definizione che torna spesso nei suoi testi – come di una proposta “glossolalia del tempo cacofonico nel quale viviamo”. Glossolalia, dunque eco di linguaggio o persino ironica deformazione, non immediatamente decifrabile ma che, in prima istanza, trasmette l’accumulo e lo stridore generato dal flusso di informazioni dei tempi moderni.

Attraverso il linguaggio, la costruzione dei titoli che siglano l’opera, il lavoro di Gioscia sembra davvero possedere la capacità di attivare il dispositivo immobile dato dalla superficie, dalla costruzione, dal décollage; in particolare, ciò accade nel turbinio delle composizioni imperniate su un’altra delle “piccole ossessioni” dell’artista, ossia la collezione e catalogazione di pubblicità riguardanti la categoria del make-up. In esse e tramite la loro raccolta, a partire dal 2006 circa, Ludovica Gioscia ha potuto osservare un vero e proprio slittamento nelle strategie di marketing in forza delle quali alla presentazione del prodotto integro, esteticamente perfetto, “immacolato” – nota sorridendo – è stato via via sostituito dal mostrare il prodotto disgregato, intaccato, sbriciolato, quasi a sottolineare – seguendo Zygmunt Bauman – come nella società dei consumi un maggior piacere possa derivare dall’appropriazione totale di un prodotto, al limite sino alla sua “distruzione”, piuttosto che dal possesso in sé e per sé. Il frutto di tali osservazioni ha preso corpo nella serie Make-up Archive e, in particolare, nell’installazione Exfoliate, Cleanse & Tone, presentata a Newcastle (Gallery North) nel 2011 o ancora, più di recente, nella “calcificazione” di frammenti di trucchi e del loro packaging entro sculture oggettuali.

Infine, ancor oggi, una parte del lavoro dell’artista riguarda la riflessione sui nomi assegnati a certi prodotti cosmetici, volutamente extra-ordinari e nonsense, i quali, giocando con ciò che commentiamo nei termini di “parola visualizzabile”, concorrono ad aggiungere appeal al prodotto, seguendo una precisa strategia pubblicitaria che mira a stabilire curiose associazioni di idee. Seguendo tale traccia, Gioscia conia formule quali Liquid Sky Fits Heaven (“dinamizzando” il nome di uno smalto per unghie con l’aggiunta di un verbo) o ancora “Vermillion Glow Bleeds Rust”, titolo della sua ultima personale milanese, tenutasi alla Galleria Riccardo Crespi nel settembre-ottobre 2013, che nel “Vermillion” reca un omaggio alla letteratura dell’inglese James Graham Ballard.

 


[1]Si veda ad esempio l’interessante articolo The Pernicious Realities of 'Artwashing', a firma di Feargus O’Sullivan:   

<http://www.citylab.com/housing/2014/06/the-pernicious-realities-of-artwashing/373289/>

[2] S. Sontag, Notes on Camp in S. Sontag, Against Interpretation and Other Essays, Delta Books, New York 1967, p.277. La suggestione si deve a Pablo León de la Barra, al testo del saggio dal complesso titolo The kandy-kolored tangerine-flake streamline baby on Ludovica Gioscia’s acide-kolored yellow and pink-multilayered surfaces, signs and islands, in E.C. Shiner et al., Ludovica Gioscia, Edizioni Olivares, Milano 2012.

[3] Questa e le successive dichiarazioni dell’artista sono tratte dalla conversazione che ha avuto luogo a Londra il 9 maggio 2014.

[4]B. Radice, Memphis: research, experiences, results, failures, and successes of new design, Rizzoli, Milano 1984, p.36.

[5]Originale in inglese, tratto dalla conversazione con Maria Alicata, Ludovica Gioscia in conversation with Maria Alicata in E. C. Shiner et al.,  op. cit., p.173.

[6]Cfr. R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, Learning from Las Vegas: the Forgotten Symbolism of Architectural Form, Cambridge, Mass. ; The MIT Press, London 1977, pp.8-9.

[7]H. Foster, An archival impulse, in “October”, vol. 110 (Autumn, 2004), The MIT Press, Cambridge, Mass. 2004, p.5.

[8] Cfr. E. C. Shiner et al., op.cit., p.191