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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Patrizia Mania

Le inquadrature delle immagini di guerra, nei reportages fotografici o video, descrivono solitamente l'istante di un atto violento compiuto contro l'umanità. Sia che si tratti del momento deflagrante che del momento successivo, spettrale di quel che rimane, nulla nella rappresentazione può dirsi che sia stato orchestrato a priori. Quel che da queste immagini ci viene restituito è la conseguenza della violenza: l'impietosa effigie della morte. Le morti ritratte ci appaiono sempre inaspettatamente cruente, incidentate, accidentali. Il materico sconquasso della sottrazione della vita in corpi martoriati. O anche il paradosso della sua assenza, come è stato per l'evento mediatico "immateriale" della guerra del Golfo le cui immagini documentavano paesaggi siderali, per lo più notturni, illuminati da saette simili alle simulazioni proprie dei videogiochi. Niente testimoniava delle effettive conseguenze degli attacchi militari, solo a posteriori, la conta dei caduti. Ma, a parte eccezioni, l'immagine della guerra è raccontata soprattutto dal corpo martoriato, dall'attimo fissato nell'istantanea di un accadimento che fissa lo scempio di un'inaudita violenza contro l'umanità. L' imprevedibilità di quel che accade è nel repertorio macabro cui da' testimonianza e che ne è il suo tratto distintivo.

Non altrettanto può dirsi della celebrazione enfatica dell'azione bellica, delle messinscene a cui si sta facendo reiterato ricorso in una delle ultime guerre in corso, dove tutto fin nei minimi dettagli, risulta ordito e studiato seguendo predeterminati intenti registici. Le cruente immagini della guerra in corso, i rituali delle decapitazioni degli ostaggi, rei dal punto di vista dei loro carnefici di appartenere alla civiltà occidentale e quindi di essere responsabili di una guerra pluriennale, forniscono certamente nello sgomento che suscitano una testimonianza orrorifica dello scontro in atto. Ci si trova al cospetto dell'allestimento di una rappresentazione scenica perfetta che non sembra lasciare spazio alla casualità, e che, al contrario, confeziona inquadrature, registrate in video, studiate e ritualizzate nei minimi particolari, dove tutto, dagli sfondi paesistici ai costumi, risulta estremamente accurato. L'inaspettatamente umano è solo tragicamente riferito dalle espressioni sgomente delle vittime; per il resto, si tratta della drammatica rappresentazione, di, potremmo dire, un tableau vivant. Un estetismo radicale accompagna dunque lo strazio di una guerra senza confini in cui è soprattutto l'apparato scenico a farsi protagonista. Sembra quasi di partecipare ad uno spettacolo di marionette dove non potrebbe eludersi l'importanza, più che del gesto, del contesto scenico. Di fatto, assistiamo inerti alla spettacolarizzazione della morte reale. Ci si è chiesti quale debba essere il confine lecito entro il quale poter diffondere queste immagini ma, nell'impossibilità di una censura globale, la risposta resta quella di affidarsi alla discrezionalità etica dei media che dovrebbero trovare il modo più corretto di dare tali notizie senza cedere al sensazionalismo di immagini che hanno inoltre l'evidente scopo del ricatto psicologico.

Quando l'orrore e il ripugnante vengono viceversa trasmessi da un lavoro artistico non possono del tutto estromettere dalla percezione una componente che Bataille avrebbe definito "di piacere". In uno dei primi articoli che il filosofo francese dedicò all'argomento, l'ormai noto "L'art, exercise de cruauté"[1], scriveva: "anche un supplizio reale può suscitare interesse, ma non si potrebbe dire, in generale, che sia questo il suo scopo specifico". E, sarebbe, di contro, arbitrario forzare nell'attivazione del piacere la finalità ultima dell'arte, in ispecie di quella contemporanea. C'è, tuttavia, una sostanziale differenza di fondo nel comparare i due ambiti , quello della realtà e quello dell'arte. Nel lavoro artistico, l'ibernazione dell'immagine, il suo aprirsi a simulazione, a fiction, o a testimonianza, investe il campo specifico del soggetto allontanandolo dalla presa diretta esclusivamente documentaria, come è invece il caso dell'immagine del supplizio in sé, del suo presentarsi come crudo esercizio di un rituale.

Tornando a Bataille, il suo sguardo si indirizzava di necessità all'arte a lui coeva senza peraltro escludere misture con il passato, quelle stesse che lo spinsero ad indagarle le une accanto alle altre preferendo alla coerenza cronologica, l'affinità semantica. Dai graffiti delle grotte di Lascaux alle pitture di André Masson passando per le immagini perturbanti di Goya, la storia dell'arte poté quindi ricomporsi sotto lo sguardo vigile del suo pensiero come una trasversale e asincrona testimonianza dell'essenza dell'umanità. Proprio in questa capacità di compendiare in un unicum grandi filoni storici senza ammutolirsi di fronte alla mole eccessiva di dati che rischierebbero, se non governati, di seppellire le condizioni stesse dell'esercizio intellettuale risiede peraltro una delle ragioni del sistematico e per certi versi abusato richiamo che vien fatto oggi al suo pensiero. Sembrerebbe divenuto ineludibile, e certamente, circostanziatamente all'argomento chiamato in causa, ci risulterebbe quasi omissivo non eleggerlo a punto di riferimento critico sulla questione.

Sul piano dell'iconografia del supplizio in esempi artistici più vicini a noi; è rilevabile, soprattutto in occasione delle grandi rassegne d'arte contemporanea quando l'intento è spesso quello di tessere filologici percorsi tematici, una massiccia presenza di lavori che interrogano l'orrore contemporaneo. Innegabilmente, uno dei registri che maggiormente accolgono il privilegiare soggetti legati alla sfera dell'orrore ha a che vedere anche con la volontà di fare dell'opera il veicolo di istanze politiche, più propriamente, con il desiderio di formalizzare il dissenso. Una parte significativa della ragion d'essere di questi lavori intrattiene infatti stretti legami con l'impegno politico e con il sotteso anelito a farsi portavoce di denunce. La questione è, come si accennava, da ritenersi al centro di molta parte del dibattito sull'arte contemporanea e si configura come uno degli aspetti che, in particolare dalla fine degli anni '60 ad oggi ha occupato pervasivamente il palcoscenico dell'arte. Non si è trattato e non si tratta, dunque, di un soggetto frequentato a latere ma di un asse tematico reiterato. Alcuni casi eclatanti stanno a testimoniarlo. E l'orizzonte di temi e di linguaggi che da un veloce sguardo d'insieme si ricava, può definirsi plurale spaziando dalla violenza inferta sul proprio corpo - come in molti esempi di Body Art, da Gina Pane agli azionisti viennesi - alle performances orgiastiche ritualizzate di Hermann Nitsch; per approdare con ulteriori valenze di significato alla questione della violenza sessista, si pensi a Rape Scene del 1973 di Anna Mendieta o ancora, ad alcuni lavori di Sükran Moral.

Struggente e ripugnante al tempo stesso fu la nota performance di Marina Abramovic Balcan Baroque che alla Biennale di Venezia del 1997 effigiava la morte attraverso una montagna di carne macellata palesemente allusiva alla guerra fratricida dei Balcani.

Riferimento diretto, esplicito, senza possibilità alcuna di eludere il richiamo sotteso. Ancora, a dare una dimensione dell'ampiezza e delle modalità dei rimandi, in una visione più orrorifica e ripugnante, difficile non rinviare alla grottesca raffigurazione proposta da Fucking Hell dei fratelli Chapman.

E, tuttavia accanto ad espliciti riferimenti, a momenti specifici in certo senso simbolici, il soggetto si scorge frequentemente sottotraccia in lavori più concettualisti e di intervento condiviso. Il che, fuori dalla cornice scandalistica sistematica dei primi, ne avvalora la pervasività.

Si è spesso sottolineato di come la realtà delle morti in presa diretta rappresentasse l'inequivocabile persistenza della "barbarie". E non è certamente un caso che si sia abusato di un termine tradizionalmente discriminatorio nel riferircisi. Sovviene a tal proposito, la 13 Biennale di Istanbul svoltasi dal 14 settembre 2013 al 20 ottobre 2013 e intitolata proprio "Mom, am I barbarian?", il cui intento dichiarato è stato quello di interrogarsi sul concetto e le connotazioni del barbaro e della barbarie nel contesto odierno. Il termine è stato in effetti assunto dai curatori della mostra in una versione ampia che, ancorata alle origini del suo uso nell'antica Grecia, ne sottolineava quanto fosse stato legato da sempre al concetto di cittadino rappresentandone il suo antonimo. In una prospettiva linguistica, era infatti barbaro colui che non parlava il greco e che di conseguenza non era neanche cittadino. Inoltre, dal punto di vista fonetico la parola si dava come onomatopea di ciò che non si comprendeva , quindi indicava estensivamente il linguaggio dell'"altro", dell'alieno, dell' escluso, dell'emarginato, del paria, quindi nell'ottica dei curatori della mostra, anche il linguaggio dell'anarchico, dell'irriducibile, del bandito, del rivoluzionario, del poeta e dell'artista. In mostra erano indagate soprattutto le derivate concettuali del concetto, riferendosi soprattutto all'idea dell'"à part" . In ogni caso, il titolo della mostra e le sue coordinate teoriche e di sviluppo curatoriale hanno offerto un ulteriore spunto per riflettere sulla polisemica identità delle barbarie e sulla sua frequentazione nell'arte e nel dibattito contemporaneo.

Diversamente da quanto accade sotto i nostri occhi al cospetto di uno spettacolo straziante e orrorifico di presa diretta estetizzata della cruenta violenza di un supplizio; in campo artistico, il tema sembrerebbe di fatto delinearsi come un contrappunto costante, incaricato di esprimere quella regione del ripugnante, riassumibile ancora oggi forse efficacemente nella metafora della Medusa, come deformazione psichica mostruosa, in grado di esorcizzare quell'eccesso della realtà del supplizio interdetto alla sfera dell'arte. Propriamente l'atto esorcistico nei confronti dell'orrore, l'unico tollerabile che, per dirla con Bataille, renderebbe possibile ricavarne una qualche forma di "piacere".

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[1]Georges Bataille, «L'art, exercise de cruauté», in Médecine dei France, 4 giugno 1949.