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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Rivalutare l’arte con Adam Smith

Domenico Scudero

Viviamo immersi in un turbinio liberista, turbo liberista, e ci siamo abituati a pensare in termini che solo pochi anni prima dell’era del web non ci sarebbero sembrati appropriati in nessun ambito, neanche per l’arte. Uno dei primi effetti è stato quello di osservare la trasformazione degli eventi d’arte da momenti di elaborazione culturale a luoghi di profitto. In particolare le fiere, le grandi esposizioni internazionali e successivamente le mostre e i grandi musei. Le mostre sono diventate un modo per produrre profitti, i musei sono per lo più organizzazioni politico diplomatiche e che spesso nulla hanno a che vedere con la ricerca artistica; le fiere inizialmente mimavano un mercato irraggiungibile, poi hanno decisamente percorso una strada di sincronia con parametri borsistici, fenomeno emerso lentamente negli anni Ottanta ma conclamatosi nei Novanta, quando la partecipazione alla fiera diventa un modo per raggiungere quotazioni e confluenze o scambi nelle vendite; le grandi rassegne contemporanee, infine, frutto di un’idea sostanzialmente nazionalista, lo era nell’impostazione la Biennale di Venezia con i suoi Padiglioni, si sono via via trasformate in un mix di diplomazia culturale-economica e in un enorme paradiso vacanziero per una sempre più ampia fascia di fruitori non esattamente consapevoli di ciò che stanno visitando.

D’altra parte l’arte contemporanea è un “affare” molto difficile da controllare e da comprendere; ad esempio il testo divulgativo, nato da chiare intenzioni coinvolgenti scritto da Bonami, Lo potevo fare anch'io. Perché l'arte contemporanea è davvero arte, Mondadori, Milano 2009, risulta tanto più comprensibile, ancorché banale, per chi sia già informato sull’arte contemporanea, viceversa risulta odioso a coloro i quali di arte ne conoscano poco e vorrebbero capirne di più. Il titolo accattivante non distoglie certo dal sentimento di accidia che coglie quanti si trovino di fronte ad alcuni “capolavori” dell’arte contemporanea e che presentano tecniche e tratti facilmente affrontabili soprattutto da chi è privo di qualsiasi istruzione artistica. Dal ready made di Duchamp ai tagli di Fontana sino alle più recenti peripezie minimali, concettuali e multimediali, l’idea, non priva di verità, di una palese furbizia del lavoro artistico risulta contraddittoria rispetto alle follie attendiste della calca mondana che assiste ad inaugurazioni ed eventi. Quella che potrebbe sembrare una follia collettiva, milioni di visitatori nelle grandi kermesse internazionali, indice di uno scollamento radicale fra il senso del percepire reale e la necessità di sentirsi adeguati al mondo, è il frutto di ciò che Hobsbawn definisce fine della cultura nel secolo breve, l’idea che l’ingresso delle masse nella società dei consumi abbia radicalmente mutato l’idea di produzione culturale in favore di un consumo che è sostanzialmente legato a fenomeni ricreativi o meramente sollecitati da obblighi sociali (Eric Hobsbawn, La fine della cultura, saggio su un secolo in crisi di identità, Rizzoli, Milano, 2013).

Il nostro mondo liberista e globalizzato in cui il ricavo del lavoro è percepito come minimo, persino accessorio, rispetto ai guadagni possibili grazie ad investimenti speculativi, ha peraltro usufruito largamente di una mentalità culturalmente stratificata che ha favorito strutturalmente benessere e qualità della vita. Una cultura che non riesca a manifestare una qualche qualità non è cultura, ma di contro il liberismo sfrenato dei nostri decenni ha ricercato in tutti i modi di sminuire e anche umiliare frontalmente il lavoro di quanti, artisti, intellettuali, non abbiano dimostrato di realizzare profitti immediati e si siano dedicati alla costruzione ideale di cultura. Sebbene il turbo capitalismo avanzato non lo sappia o non lo voglia riconoscere, comunque, è proprio nell’ambito del lavoro artistico che nasce il concetto stesso del massimo profitto. Cos’è infatti un’opera d’arte quando sia riconosciuta come capolavoro? Si tratta di una cosa - quell’esser cosa che è origine heideggeriana ed essenza dell’opera - che realizza un valore abnorme rispetto alla forza lavoro esercitata per ottenerla. Lo stesso vale per qualunque realizzazione fattuale che abbia nel suo processo creativo il tentativo di raggiungere l’obiettivo di una sia pur variazione minima, una variazione, lì dove come scrive Deleuze è proprio nell’arte il luogo in cui si esercitano tutte le ripetizioni (Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, ed. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997 - Différence et répétition, PUdF, Paris, 1968). Così la musica, il teatro, il cinema, la poesia. In poche parole tutto ciò che aspirerebbe a rendere la nostra esistenza migliore e meno mortificante.

Bisogna anche accettare con stoica competenza il fatto che spesso sono gli autori delle ripetizioni differenti, ovvero i produttori della stessa cultura che permette al capitalismo turbo liberista e globalizzato di procedere in un ambiente che non sia di mera ripetizione numerica, gli artefici di una disfatta così lapidaria della concezione culturale. Infatti se il mondo non fosse alterato dalle differenze prodotte in ambito culturale sarebbe senz’altro destinato al corrompimento della stessa ripetizione per via di consunzione. Un mondo abitato dal solo mero profitto che abbia schiavizzato ogni singolo gesto dell’esistere è un luogo sterile per sua stessa definizione, un luogo disumanizzato il cui controllo viene delegato alle macchine numeriche. L’intelligenza della cultura in questo senso è stata quella di aver compreso l’aleatoria rigidità di un universo decretato da codici e da sistemi di codici che perseguono il solo scopo d’esistere. La cultura artistica promuovendo un’azione mirata alle dinamiche di catalogazione delle “differenze” anche sotto forma di stabili fattori mnemonici dimostra la sua versatilità ma anche il suo istinto di sopravvivenza: l’arte e l’opera dei musei, come scrive Boris Groys in Art Power, Postmedia, Milano, 2012, è adesso, non solo apparentemente, un’opera di documentazione e di archiviazione, movimento sincronico alle prassi di potere in atto. Ma c’è di più: colpevolizzati dalla crescente convinzione, riconosciuta come luogo comune massificato, di una inutilità dell’arte, di una sua vasta sussistenza in funzione esclusivamente ricreativa, da cui l’uso turistico, si è data per buona la famosa e acre definizione batailliana dell’arte come dispendio improduttivo. Tuttavia le celebri analisi di Bataille, e in particolare alcune pagine de La sovranità (ed. it. Il Mulino, Bologna, 1990) (La souveraineté in Oeuvres complètes, VIII Gallimard Paris, 1976), nascevano sostanzialmente come critica al rigido dogmatismo marxista che animava la cultura francese di quegli anni e  in riferimento ad alcune osservazioni sartriane. A ciò Bataille oppone il fatto storico, sia pur di stampo liberista, che spingeva gli Stati Uniti a varare aiuti economici tramite il Piano Marshall anche solo per evitare che i paesi in difficoltà cadessero in mano sovietica, ma soprattutto per liberarsi di quelle risorse o “surplus produttivo” che l’industria americana del dopoguerra non avrebbe saputo smaltire altrimenti. Qui la definizione di dispendio improduttivo per l’appunto nata in ambito di critica del sistema economico politico. L’epiteto è breve, sostanziale e calzante: quanti di coloro che abbiano lavorato in incresciosa solitudine, come spesso accadde a Bataille che in vita non ebbe mai grossi riconoscimenti, non si sono riconosciuto nell’idea che la loro vita creativa fosse soltanto un dispendio improduttivo, come la stessa esistenza vissuta?

Tuttavia se l’idea seducente di un’arte legata alla sovranità del sacro poteva contrastare la crescente inquietudine critica di quanti cominciavano a dubitare che l’azione dell’arte potesse andare al passo di una società tradita nei suoi bisogni interiori, come manifestava in quegli anni la politica culturale sovietica, e quindi relegando lo scontro ideologico fra idealismo del sacro e profano della produzione, il significato del dispendio improduttivo contrasta oggi con una società che piuttosto che produttiva e industrializzata è speculativa e tecnologizzata. Qui adesso lo scontro è tra produttivo e parassitario, tra culturale e burocratico, tra tecnologico e dogmatico. Nei nostri anni di tardo e stantio iper-sovra-super e quanto altro si può appioppare al capitalismo dei cicloni speculativi è forse bene rileggere le sacre scritture del liberismo e così ricordare ai corvi di salaparuta dei ministeri e dei vari istituti vampireschi le parole del loro divino nume tutelare, che in quanto origine di una differenza è soggetto al nostro elevato rispetto: Adam Smith. Nel La ricchezza delle nazioni, una parte fondamentale è dedicata alla definizione di ciò che determina l’accumulazione del capitale. La sua analisi scevra di moralismo e densa di spirito realista, quale quello del suo amico David Hume, lo fece apparire nel 1776, anno della pubblicazione del suo famoso testo, come l’autore di un pensiero sovversivo. La sua classificazione degli strati sociali in classi determinate attraverso il valore produttivo poneva le basi per la moderna economia ed è sui suoi scritti che nasce il pensiero liberista. Nella classificazione del lavoro Adam Smith distingue fra lavori produttivi e lavori improduttivi. Sono improduttivi molti ordini rispettabili della società, dal sovrano agli ufficiali civili e militari, gli ecclesistici, i medici, i letterati privi di produzione letteraria, musicisti e cantanti d’interpretazioni e tutti coloro che non aggiungono alcun valore ad oggetti e cose. Viceversa sono produttivi tutti quegli ordini che attraverso il lavoro realizzano una variazione, una miglioria, o persino soltanto una manutenzione ad oggetti e cose che servono per la costruzione di tutte le materie e prodotti che sono necessari alla vita sociale. Ne consegue che diversamente da quanto comunemente affermato e volgarmente ripetuto sino alla nausea, l’artista, in qualsiasi disciplina lavori, è un soggetto produttivo poiché costruisce oggetti e cose che aumentano il valore sostanziale della nostra esistenza e non sono esclusivamente dei consumatori.

I torbidi singulti della nostra epoca, possiamo dire, ci hanno imposto a forza l’idea che essere artisti sia sostanzialmente un’occupazione parassitaria, ma rileggendo l’origine del pensiero liberista, il suo vangelo e non la sua interpretazione furba, possiamo affermare che essere artisti e fare, creare opere, costruire soggetti, licenziare libri e quanto altro non è un’occupazione velleitaria e inutile. Invece è un lavoro produttivo, ciò che di più necessario ci sia in questo mondo perché proteso al massimo valore aggiunto. Un mondo privo di creatività resterebbe altrimenti sperduto fra i detriti di pensiero frammentario e disgregato di astuti banchieri e di volgari approfittatori, gli stessi che usano l’arte per abbellire le loro case senza riconoscerne che il valore economico, gli odierni collezionisti privi di convinzioni estetiche ma animati dal profitto immediato.

La consapevolezza del ruolo sociale dell’artista dovrà farsi forte per contrastare il dominio di questi oscuri notabili che hanno preso luoghi, musei, spazi e potere che sono di nostra pubblica pertinenza. Riconoscere altresì la portata non soltanto esistenziale di un’azione testimoniale quale quella di tutta l’arte contemporanea degli ultimi quindici anni, con le sue paradossali meta proliferazioni documentali, deve fare riconsiderare agli operatori artistici attivi nel sistema sociale che il loro lavoro è qualcosa di cui rivalutare la validità nell’ambito politico. E poi assumere questa consapevolezza vivificante per un’ego smisuratamente mortificato da decenni di frustrazioni sino a riconoscere che le lezioni d’economia e di funzione della tecnocrazia possono essere rispedite al mittente, per causa d’ignoranza sulle fonti stessi delle ragioni che fanno ricche le nazioni, per la stessa voce vangelizzante della scienza liberista dell’economia dei nostri giorni. E qui, allora, possiamo anche concludere dicendo che tre secoli di dispendi improduttivi, quali guerre e crisi, non abbiano trasformato di un millesimo la convinzione che il padre del turbo capitalismo avanzato sia niente meno che uno sciagurato sovversivo. Pensate un po’.