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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Metacognizione della critica nei processi relazionali della committenza

Antonio Zimarino

Di recente sono stato invitato, insieme ad altri critici, curatori, giornalisti e operatori del mondo dell’arte, ad un incontro D/A/C (Denominazione artistica condivisa) del progetto Radioartemobile, dove alcuni importanti esponenti del mondo dell’arte erano stati chiamati a colloquiare sul tema “Arte Contemporanea e Impresa”.  Attori del colloquio (eccessivo chiamarlo dibattito, dato che non erano previsti altri interventi) erano il fondatore del progetto, (uno storico gallerista romano), una curatrice di grandissima sostanza ed esperienza, un maestro dell’arte italiana, un’artista italiana (tra le poche a lavorare anche all’estero), un intelligente artista francese e alcuni imprenditori, facenti parte di Fondazioni che operano nel campo dell’arte e della cultura. Il tema era certamente nobilissimo e sensibilissimo in tempi di crisi, ma anche molto interessante e complesso in termini di implicazioni culturali, al di là del risvolti pratici o delle necessità relazionali che ad un frequentatore smaliziato, apparivano comunque essere il vero scopo dell’incontro.

Gli interventi iniziali hanno posto una serie di argomenti tutto sommato prevedibili, che riassumo di seguito: non ci sono più committenze pubbliche di interesse e se ci sono, sono guidate da scelte poco chiare; gli artisti non hanno grandi possibilità di intervenire nello spazio pubblico; la qualità del pochissimo che si fa è sostanzialmente bassa perché nel settore pubblico le possibilità di lavoro vengono distribuite secondo logiche gestionali di convenienza, relazione amicale etc.; le imprese di questi tempi hanno interesse ad aprirsi alla cultura e ad un impegno sociale vuoi per etica, per ricaduta d’immagine ecc. e cercano di seguire le idee dell’artista o del curatore a cui si affidano per raggiungere il loro scopo.

Pur consapevole che la primaria e rispettabile finalità di tale incontro fosse la costruzione di relazioni potenzialmente fruttifere tra gli intervenuti, ascoltando con attenzione constatavo che (forse intenzionalmente) non si andavano a toccare quei punti, quei motivi profondi che mi sarei aspettato, vista la densità dei temi implicati: il tutto non mi pareva andare oltre le constatazioni, gli esempi, i peana e le dichiarazioni di intenti. Da un punto di vista critico, altri erano i temi sensibili della questione: se definiamo uno stato delle cose, bisognerebbe andare a scavare nelle logiche (o nelle “illogiche”) della committenza, mentre, se si dichiarano determinate intenzioni, sarebbe interessante capire come e perché si intende operare. Perché non si provava a ragionare e riflettere riguardo come e in base a quali motivi avviene il passaggio tra disponibilità economica -> realizzazione dell’opera / intervento? Perché non domandarsi sul “come” si fa a garantire una qualità del progetto e sul perché, sul senso entro cui si pensa il progetto? Ma appunto, forse non si desiderava affatto parlare di questo.

Ho cominciato allora a ricapitolare mentalmente le grandi linee dei “modi” dell’organizzazione della committenza pubblica e privata, almeno come li ho vissuti e studiati fin’ora

Nella logica del “pubblico” la regola vorrebbe che le risorse economiche (per mostre, interventi d’arte pubblica, opere, architetture che siano) vengano utilizzate a partire da un progetto che dovrebbe avere una sostanza “culturale” e che presupporrebbe una ricaduta su un “pubblico” inteso come città, comunità o territorio. Tuttavia le pratiche del potere hanno sviluppato proprie modalità di dare e avere ben prima che si arrivi alla scelta di realizzare qualsiasi cosa, a partire, ad esempio già dalla distribuzione di incarichi, responsabilità nelle scelte etc. Le commissioni tecnico-scientifiche che dovrebbero valutare come usare le risorse pubbliche, (per altro sempre più rare, mentre negli ultimi tempi appaiono più frequenti gli incarichi ad personam) se arrivano a costituirsi, lo fanno attraverso nomine e distribuzioni di incarichi all’interno delle relazioni che il “potere” (intendo qui il “potere” in senso lato, non solo politico) ha sviluppato. In pratica la scelta del cosa fare avviene o all’interno delle relazioni di chi gestisce il potere di scelta oppure, più semplicemente, direttamente affidata con logiche non sempre pure e cristalline a responsabili incaricati di fare “scelte per conto di”.

I condizionamenti che questa contestualità implica, sono tra i più vari: interessi di chi gestisce il potere, di chi intende gestirlo, di chi risponde al potere, di chi desidera averlo ed esercitarlo ecc. … in questo sistema relazionale dunque l’arte o l’intervento che può realizzarsi, è essenzialmente e prevalentemente (ma non obbligatoriamente) espressione del contesto relazionale del potere. E’ chiaro che ciò offre estreme condizioni di variabilità perché prima di qualsiasi valutazione di ordine sensatamente culturale, è tutta la procedura relazionale che condiziona la scelta. Gli effetti casuali ed estemporanei (in male e in bene) di questo sistema appaiono evidenti e drammatici perché al “politico” interessa soprattutto poter continuare l’esercizio del proprio potere e ciò spiega il loro presenzialismo inevitabile nelle manifestazioni culturali nonostante spesso non abbiano reale coscienza di cosa sia quello a cui partecipano. 

Ma quali sono le varianti che offre la “dinamica del potere” all’interno di una committenza privata?

Innanzitutto credo ci siano grosse differenze tra la committenza del singolo imprenditore e quella realizzata da una “fondazione” o comunque da un “gruppo decisionale”: nel primo caso, la soggettività è d’obbligo e le variabili di qualsiasi lavoro commesso si dispongono all’interno di tre punti sostanziali: a) grado e tipologia di cultura del committente; b) disponibilità economica, c) intenzioni della sua operazione.

Il committente può fare di testa sua o affidarsi ad uno “specialista del settore” e mira al fatto che il suo denaro sia usato efficacemente per la finalità che egli si è posto; quindi in queste condizioni si può avere di tutto: da un monumento in bronzo figurativo del fondatore dell’azienda fino ad un’opera monumentale di Kapoor; qualsiasi cosa si decida di realizzare, la committenza normalmente intende legare il proprio nome all’opera e quindi implicitamente, ottenere un riconoscimento pubblico del proprio sforzo economico e progettuale; per il fruitore, il grado di interesse culturale di tali realizzazioni è sempre stabilito dalla “cultura” del committente e dalla modalità da lui scelta per operare.

Nel caso di Fondazioni, il discorso si fa complesso: ciò che si potrà realizzare dipenderà dal tipo di Fondazioni e dalla finalità che si son date; nel caso di Fondazione legata esclusivamente ad una azienda, ritorniamo facilmente alle caratteristiche del primo caso, quello del committente singolo; rispetto alle tre condizioni citate possiamo aggiungerne una quarta, abbastanza frequente nel panorama italico, ripresa da modelli in genere statunitensi; la Fondazione mira a creare una collezione o a gestirne una già esistente: intende incrementarla, valorizzarla, dotarla di strutture adatte alla fruizione; opera cioè per “istituzionalizzarsi” trasformandosi in “museo privato” diventando “agenzia di certificazione” di arte e artisti da essa scelti, partecipando al “mercato” scambiando i propri beni e acquisendone di nuovi. In questi casi, si dota di un comitato scientifico e di un curatore che hanno come obiettivo quello di perseguire le finalità e le logiche collezionistiche del committente.

Rimane l’ultimo tipo di Fondazione forse la più interessante ma anche più rara: quella che non ha collezione da gestire ma che intende operare in relazione ad un territorio, secondo le finalità di uno statuto, di una vision o di un progetto etico. Tale tipo di Fondazione è sicuramente più libera nelle sue scelte che tuttavia, possono essere condizionate e gestite secondo più o meno tutte le casistiche prima indicate; ma nel loro caso specifico, un grande valore hanno le finalità che essa si è data e alle quali essa è chiamata a rispondere: tali finalità implicano inevitabilmente accenni ad una “metodologia” che permetta di realizzarle. Una Fondazione (per evitare errori di gestione) tende ad affidarsi alla progettualità di un curatore o di un comitato che studi che interpreti e definisca delle modalità per attuare la mission definita per statuto. Unico criterio di fondo è assicurare una “notorietà” / rilevanza all’operare della Fondazione e la coerenza sostanziale con la propria mission.

Ovviamente questa analisi è sommaria e ci sarebbe molto da distinguere e specificare all’interno delle  categorie appena espresse, risulta tuttavia evidente che in ciascuna delle tipologie di committenze indicate  (pubbliche o private che siano) esiste un “punto” fondamentale, un “nodo” centrale composto da aspetti che riguardano il pensare, il progettare e l’operare, all’interno del quale si dispone la variabile positiva o negativa dell’azione della committenza.

Stando così le cose il problema della committenza non è affatto di tipo sociologico o organizzativo, così come il “nodo” centrale di un qualsiasi “sistema” dell’arte non è tanto nel modo in cui si organizza quanto nel “come” sono gestite le relazioni in esso e delle finalità che i diversi attori si pongono con la loro partecipazione alle relazioni. Appare più credibile che l’organizzazione si strutturi in base alle intenzioni degli attori del sistema piuttosto che lasciarsi determinare dal meccanismo stesso della struttura; non è l’organizzazione che fa il pensiero o l’intenzione, ma se mai il contrario. Questo aspetto è per me molto interessante ed è da un po’ di tempo che lo sto studiando sperando di riuscire un giorno a trovare qualcuno che si interessi del problema del “perché” piuttosto che delle logiche del “come”.

Sembra di dire l’ovvio ma nella logica del funzionamento dei “sistemi” dell’arte (cioè di quel sistema di relazioni tra operatori che organizza la selezione alla visibilità (o all’occultamento) dell’arte che si va facendo) la questione del pensiero e dell’intenzione appare importante perché tocca profondamente il ruolo del “mediatore” tra committente e artista ovvero, il ruolo di chi potrebbe/dovrebbe essere lo “specialista” della questione “culturale”, ovvero la figura del curator o quella raramente sovrapponibile del critico. Insomma il punto centrale sul come si svolge, si può svolgere o è costretto a svolgersi ciò che accade in arte e su quello che positivamente o negativamente essa dirà e su cui ulteriormente si rifletterà (grazie o malgrado il committente) sta esattamente nella definizione dei margini e  dei modi entro cui può darsi un “pensare” sull’arte, nel pensare al senso, al progetto o al risultato di ciò che verrà e nello scegliere di conseguenza.

Ma come si “pensa” all’arte nell’ambito del potere di scelta e indirizzo pressoché assoluto che viene esercitato dalla committenza?

“Pensare” è in realtà anche il punto più “debole” e sfuggente di tutto il processo della committenza. Si tratta in questo caso di una “debolezza” strutturale in quanto soprattutto nella realtà curatoriale il contesto entro cui pensare ed esercitare scelte è dato all’interno di un ruolo definito dalla committenza o dalle circostanze e si dispone all’interno di quelle condizioni. Questa situazione ha forti implicazioni anche etiche per chi la vive, in quanto la committenza potenzialmente richiede un “pensare contestuale” alle finalità date e non una reale autonomia intellettuale di scelta: il curator risponde innanzitutto a chi gli ha dato il potere di esserlo. Il pensare e lo scegliere del curatore hanno margini relativi allo spazio che il committente stabilisce di dare: se nel “pubblico” i margini dati sono soggettivi, relativi e imprecisi perché spesso la committenza non ha fini chiaramente culturali ma semplicemente di esercizio di potere per cui non bada troppo al senso oggettivo di ciò che si fa, nella committenza privata, i margini sono più definiti e gli spazi decisionali e autonomi del lavoro intellettuale dipendono dal fatto che il committenti li preveda o meno. In tali condizioni i curatori, coloro ai quali si dovrebbe affidare il “senso” dell’operazione del committente sono chiamati a scegliere e a “graduare” a tali circostanze, l’autonomia del loro agire/scegliere pensando; dovrebbero quindi sentirsi interrogati riguardo quale grado di autonomia intendono o possono avere rispetto a quelle che sono le necessità strategiche di chi gli consente la scelta. La “scelta” può essere dichiarata dal curatore (se è anche realmente un critico NDR) attraverso la definizione dei criteri entro cui può esercitare il suo approccio intellettuale, ovvero attraverso la definizione di un “metodo”, di un racconto aperto e sensato delle proprie scelte.

Comprendiamo quindi come in genere con l’assenza di un metodo esplicito, diventa necessaria “a posteriori”,  l’interpretazione dell’interpretante cioè, tentare di capire come è perché le scelte si siano date e disposte, provando a verificare la credibilità dei criteri di una proposta.

L’adattabilità necessaria del curatore è quasi sempre una adattabilità intellettuale e culturale oltre che operativa: non automaticamente, ma le condizioni contestuali del suo operare lo portano spesso ad un allentamento di criteri e di metodologie analitiche, ad una adattabilità estemporanea del pensare o dello scegliere, ad una veloce prontezza del cogliere situazioni opportune o meno. Ma tale adattabilità del pensare e dello scegliere di per sé non costituirebbe alcun problema, se fosse sempre chiaro anche nella comunicazione, che l’arte e le mostre che si propongono e che siamo chiamati a leggere, si danno come possibilità all’interno di una catena di scelte legate a situazioni anche contingenti e se fosse sempre chiaro che le proposte sono per forza di cose relative e contingenti.

L’adattabilità culturale di un curatore diminuisce ovviamente nella misura in cui lo stesso curatore riesca ad acquisire una qualche forma di potere e di notorietà che lo porterà ad essere scelto da strutture e committenze che intendono raggiungere i propri scopi; tale migliore posizione “contrattuale” all’interno delle relazioni del  sistema, consentono (ma non obbligano) l’attività curatoriale ad esercitare con maggiore autonomia la propria libertà di scelta e di progetto, cioè a compiere delle scelte critiche.

Nonostante la chiara e ovvia responsabilità oggettiva del pensare e dello scegliere, la pratica curatoriale e il suo esercizio in arte restano il momento più “debole” e il più soggetto a forme di condizionamenti e pressioni dirette, indirette, esplicite, implicite o circostanziali; fortunatamente l’azione riflessiva “a posteriori” da la possibilità di verificare e consolidare un senso riconoscibile e condivisibile delle scelte; ma come si può tentare di dare un senso credibile a ciò che possiamo, vogliamo o dobbiamo scegliere nelle circostanze?

L’unico modo credo sia quello di darsi un riferimento, un criterio motivato di fronte al quale possano essere confrontate le scelte: tale criterio/metodo costituisce forse l’unico atto libero e indipendente possibile al critico/curatore, l’unico che il committente non può né intenzionalmente, né implicitamente condizionare; ma attenzione, questa non è cosa da poco poiché il metodo diviene il criterio attraverso cui valutare la sensatezza di una proposta e quindi il valore attribuibile ad essa.  Esso diviene ciò che noi possiamo porre come punto di riferimento alle variabili che la contestualità ci pone, fondando così una possibilità di porre una concreta posizione critica “in atto”. Il metodo che si sceglie diventa uno strumento utile per provare ad affrontare coscientemente (e non subire contestualmente) ciò che è in accadimento, quella che Agamben chiama la “tenebra del presente” .

Rispetto a ciò che andavo ascoltando durante la conferenza, tornavano nella testa una serie di questioni relative alla committenza: come si sceglie cosa realizzare? Perché lo si sceglie? Chi viene scelto? In relazione a cosa? Il problema della committenza è sostanzialmente un “problema critico” che riguarda cioè il grado di capacità di discernimento all’interno delle condizioni entro cui ci si trova ad esercitare le proprie scelte. “Critica” quindi è certamente esercizio di comprensione e selezione che tenta di ridare un senso culturale leggibile all’accaduto. è anche una ricostruzione interpretativa del “reale” della cultura visiva o artistica proposta. “Critica”  però, è anche presa di posizione e definizione di un metodo inerente la cultura artistica che si va proponendo e di cui poi si andrà a ragionare.

Qualsiasi questione di “committenza” presuppone primariamente una questione “critica”, l’unica in grado, in qualche modo di giustificare o spiegare almeno il senso di una scelta; e ciò secondo me spiega anche perché oggi nell’ottica di una “modernità liquida” ci sia una enorme difficoltà ad essere critici piuttosto che curatori: “svolgere una critica” o prendere definite posizioni metodologiche riguardo la condizione delle scelte che prendiamo nell’accadere, impone una responsabilità di coerenza e tali scelte risultano “dure” e scomode da prendere, perché riducono i margini di adattamento estemporaneo alla circostanza stessa, atteggiamento ben più utile (se non necessario) di fronte alle condizioni poste dalla committenza e al “successo” della professione curatoriale.

Arrovellato in queste questioni finisco per perdere di vista il discorso dei protagonisti della conferenza, finché un racconto, apparentemente banale di un’artista mi scuote dal groviglio inestricabile in cui mi ero andato a cacciare, cercando di capire il senso di quello a cui stavo assistendo.

L’artista presente al dialogo, raccontava cosa è accaduto in lei al momento in cui gli è stata data la possibilità (da parte di un committente privato), di realizzare una importante lavoro con forte incidenza sul “pubblico”. Prima di ogni altra cosa e al di là di tutto, l’artista ha iniziato a raccontare il suo modo di procedere, il suo “metodo” rispetto alle condizioni oggettive e contestuali di spazio – tempo – luogo – relazioni – storia – cultura – ambiente  – possibilità economiche in cui si era venuta a trovare.

Partendo da una condizione “relativa e circostanziale” (ovvero, metaforicamente, la condizione primaria

che ciascuno di noi vive di fronte al possibile e alla scelta) ha iniziato a mettere in atto un “metodo”, un processo che potesse metterla in condizione di operare efficacemente e responsabilmente. Quale? Lo riassumo essenzialmente in questi punti:

Osservare con attenzione l’ambiente (naturale e urbano) con le sue caratteristiche e specificità.

Parlare con le perone del luogo e capire le loro relazioni e necessità sociali ed economiche.

Osservare e rilevare ciò che manca rispetto allo spazio, alle relazioni sociali.

Domandarsi come il contesto avrebbe fruito nel tempo del lavoro che si sarebbe realizzato.

Il risultato? L’artista dopo una complessa fase riflessiva ha scelto di realizzare uno spazio connotato esteticamente, pubblico e abitabile, che fosse funzionale alle relazioni, alle mancanze e alle possibilità del contesto, piuttosto che realizzare un’opera riferita esclusivamente ad una propria soggettività e al proprio “potere” di realizzarla. Ha scelto dunque di ascoltare pariteticamente e mettere in equilibrio significativo sia cosa individualmente intendeva sia cosa contestualmente “aveva senso”.

Mi sono detto: in fondo, non è questa “narrazione di procedura”, la metafora o anche il viatico di una e per una critica della progettazione e della committenza? Nel contesto del colloquio in atto, l’artista stava dando quella “soluzione”, quella “spiegazione” che gli altri attori del contesto non avevano voluto o saputo affrontare: committenza, pensiero, realizzazione, artista, relazioni, promozione etc. – praticamente tutto il “sistema” che tiene insieme il mondo dell’arte, i suoi riti, le sue grandezze, possibilità, piccolezze, meschinità –  ha la possibilità di essere criticamente valutato, ma anche di essere criticamente costruito, progettato e disposto.

Osservare, capire, rilevare, domandarsi in relazione a se stessi e all’alterità del contesto, non sono forse le modalità consapevoli e necessarie per intervenire in un processo di costruzione di cultura? Non dovremmo almeno a grandi linee. avere o costruirci l’idea di cosa andiamo a fare, del perché lo facciamo, del “cosa manca”, del “cosa darò” a chi vedrà o leggerà l’opera che posso realizzare o il pensiero che posso esprimere? Questa “presa di coscienza” dovrebbe appartenere tanto all’artista che al committente o al critico/curatore  non tanto perché debbano uniformarsi o adattarsi alla contestualità e alle necessità altrui ma perché la riflessione può metterli nelle condizioni di capire il rapporto di senso tra la propria storia/identità e quella con cui si è chiamati a relazionarsi. All’artista come persona si può anche perdonare un approccio estetico emotivo legato alla sua soggettività, ma non mi sembra cosa sensata accettare lo stesso atteggiamento in chi è chiamato a “progettare” e dare la possibilità di costruire una cultura, ovvero, al committente e al critico/curatore.

Le domande che si è poste l’artista sono domande imprescindibili tanto per il critico che per il curatore e il committente: esse dispongono il senso dello scegliere e del fare e non sono mai scontate; caratterizzano il nostro “progettare”, analizzare, osservare, relazionarci, sono i fondamenti di un intervento cosciente nel processo di costruzione di una cultura. Tale approccio (che in teoria dovrebbe essere quasi ovvio per chi dice di occuparsi di cultura), non è affatto scontato anzi, troppo spesso l’idea di disporre un metodo non appare nemmeno ipotizzata, non appare nemmeno nelle intenzioni o viene persino sbeffeggiata con lieve ironia dall’alto di una totale autoreferenzialità.

Agire criticamente e in modo consapevole nel campo del pensare e dello scegliere in relazione ad una analisi e ad una interpretazione coerente nella dinamica di ciò che è culturalmente a noi “contemporaneo”, costituisce lo strumento imprescindibile per proporre delle credibili possibilità di senso o per comprendere le “possibilità di mondo” che l’arte continuamente propone. Del resto è esattamente quello che esprime Paul Rabinow nel suo lungo ragionare sui fondamenti di una antropologia dell’Attuale o quello che sostanzialmente pongono anche come questione metodologica i teorici della Complessità, analizzando le intersezioni variabili che ci portano a prendere coscienza della costante adattività dei processi culturali in cui siamo immersi.

Al termine dell’incontro, da un lato ero analiticamente preoccupato per l’oscurità che è rimasta, rispetto ad intenzioni e strategie della committenza ma tutto sommato ero rincuorato dal fatto che in essa forse si potrà realizzare qualcosa di significativo e “imparare un metodo” se riuscirà a far incontrare intermediari e artisti consapevoli della responsabilità e della coscienza richiesta al proprio ruolo. Ma il “se” mi appariva altrettanto preoccupante, dato che tale approccio consapevole e critico dovrebbe essere appunto una scelta di metodo e non una variabile del caso.