Un secolo di memoria archivistica in mostra
A 125 anni dalla sua fondazione, la Biennale di Venezia celebra in una mostra allestita al padiglione centrale dei Giardini alcune epocali occasioni di incontro con la Storia. Lungo eloquenti tracce documentali, il percorso espositivo de “Le muse inquiete. La Biennale di Venezia di fronte alla Storia” (1) scorre infatti su quei momenti cruciali nei quali la rappresentazione politica del presente si è specularmente riflessa sulla Biennale.
In un efficace costrutto espositivo orchestrato da Formafantasma, i “faldoni” di fondi archivistici (in particolare quelli dell’archivio storico della Biennale di Venezia – ASAC) si aprono al visitatore con uno scandaglio persuasivo che ricostruisce alcuni densi abbrivi nei quali la storia dell’istituzione veneziana si è intersecata con la storia politica, culturale, ideologica assunta a tema.
Quali momenti emergenziali storicamente rilevanti – guerre, conflitti sociali, ideologici, culturali - si sono dunque testimonialmente e incisivamente interpolati con la storia della Biennale di Venezia? Proprio questo l’interrogativo di fondo cui la mostra fornisce un’ipotesi di attraversamento.
Va detto che i tempi rapidissimi di progettazione e realizzazione di questa mostra si stagliano sullo sfondo delle emergenze del nostro presente, primariamente quella della crisi pandemica globale che non soltanto ha avuto delle ripercussioni immediate sulla programmazione della Biennale - il rinvio della Biennale di Architettura e l’inevitabile slittamento di un anno anche di quella d’Arte - ma che indubitabilmente, in forme e modi per ora difficili da prevedere, influirà sul suo futuro. Da qui dunque sembrerebbe essersi mossa l’improcrastinabile urgenza di esplorare a ritroso nel tempo alcuni esemplari grandi cambiamenti, viraggi del pensiero, dei corsi politici e culturali che possano dirsi memorabili.
Almeno per quel che riguarda la Biennale Arte, è plausibile ritenere che l’antefatto debba individuarsi anche nell’uscita, lo scorso anno, di un nuovo volume curato dall’Archivio Storico della Biennale di Venezia (ASAC) che ne indicizza tutte le edizioni a partire da quella istitutiva del 1895 (2). Si tratta infatti di una mostra che espone soprattutto documenti d’archivio nella convinzione che sia nella loro conservazione e fruibilità la chiave per mantenere viva l’interrogazione sul vicino passato.
Per la prima volta, e al fatto che non ci siano precedenti si stenta a credere, i sei settori artistici della biennale – arte, musica, cinema, teatro, architettura e danza – si mostrano attraverso i materiali dell’Archivio storico della Biennale, dell’Istituto Luce-Cinecittà e Rai Teche oltre che di una serie di archivi nazionali ed internazionali in un percorso unitario che prova proprio attraverso i documenti ad intrecciare un fil rouge che tutti li tenga insieme. In realtà, nelle vicende storiche dell’istituzione, ciascun segmento ha lavorato quasi sempre per proprio conto e le discipline, pur scoprendosi in alcune specifiche occasioni convergenti in specularità e simmetrie, non si erano finora mai combinate in un unico progetto condiviso.
Nati in differenti momenti, i sei comparti - dal 1895, l’istituzione della Biennale Arte, accompagnata nel 1930 dal Festival internazionale della musica contemporanea e seguita nel 1932 dal Festival internazionale del cinema e poi ancora nel 1934 dal Festival internazionale del teatro per approdare solo nel 1980 alla Mostra internazionale dell’architettura e nel 1999 al Festival della danza contemporanea - sembrerebbero aver viaggiato come monadi, salvo rinserrarsi, quasi naturalmente nelle occasioni circostanziali di inevitabile interdisciplinarietà. I sei curatori corrispondenti ai sei settori: Cecilia Alemani (Arte), Alberto Barbera (Cinema), Maria Chouinard (Danza), Ivan Fedele (Musica), Antonio Latella (Teatro), Hashim Sarkis (Architettura) hanno per questa iniziativa selezionato testimonianze, filmati rari e opere e costruito direzioni di ricerca imperniate su quei momenti del passato in cui l’istituzione veneziana ha incontrato gli eventi storici in un arco temporale disteso dagli anni del Fascismo all’età della globalizzazione.
Nell’itinerario espositivo tracciato, la sequenza cronologica degli eventi segue un ordine in alcuni punti rapsodico, dettato, sembrerebbe, dall’intenzione di favorire una lettura – dal Fascismo alla fine del ‘900 - di evidenziazione storica della compromissione con la politica per passaggi esemplari, prendendo infatti l’avvio dal Festival del cinema che tra il ’32 e il ’39 viene inquadrato come uno dei palcoscenici privilegiati in cui si cementa l’asse Roma-Berlino.
Sul versante più propriamente relativo alle arti visive, il percorso inizia dalla Biennale del 1928 che registra la nomina dello scultore Antonio Maraini a segretario generale e al quale, pur nella cornice di una piena “fascistizzazione” della Biennale, si deve riconoscere un’attenta riconsiderazione dell’arte italiana contemporanea accompagnata peraltro da una significativa apertura internazionale (è del 1930 la costruzione del padiglione degli Stati Uniti).
Un’acquiescenza al regime che si protrae negli anni successivi, come confermano la XXII edizione, nel maggio del 1940 meno di un mese prima della dichiarazione di guerra, e, in pieno conflitto quella del ’42. Una tendenza che si riscontra anche in occasione dell’VIII mostra del cinema che vedrà l’esclusiva partecipazione dei Paesi cobelligeranti con l’asse o neutrali.
Il progressivo clima di intolleranza e di irrigidimento si misura altresì appieno nelle vicende del Festival della musica che se vedrà una programmazione attenta a compositori d’avanguardia come Arnold Schoenberg e Béla Bartók fino al 1938 (anno della visita di Hitler a Roma) mostrerà dopo quella data, un orientamento opposto escludendo e relegando quegli stessi compositori nella categoria della cosiddetta “musica degenerata”.
Seguendo il corso degli eventi, nell’immediato dopoguerra, in un contesto di ritrovata libertà, testimonieranno dell’auspicato risveglio la riapertura della mostra del cinema nel ’46 e lo svolgimento del Festival della musica. Mentre, ragioni soprattutto tecniche – la ristrutturazione dei padiglioni ai Giardini - faranno slittare al 1948 la Biennale Arte che nell’intento di accorciare le distanze con il passato renderà immediatamente omaggio a Picasso e si farà palcoscenico dello sbarco a Venezia nel padiglione greco della collezione di Peggy Guggenheim.
E, tuttavia, subito dopo con l’inizio della guerra fredda non mancheranno momenti di frizione politica come quando nel 1951 il Festival del Teatro sarà costretto a cancellare la prevista messa in scena di “Madre coraggio e i suoi figli” di Bertold Brecht a causa del rifiuto del governo italiano a concedere il visto a Brecht e al suo Berliner Ensemble in quanto provenienti dalla Germania dell’Est.
Nei primissimi anni ’60 farà scalpore la controversa partecipazione degli artisti pop americani all’edizione del 1964. E quattro anni dopo, sarà l’ondata della contestazione studentesca ad abbattersi sull’istituzione veneziana con una virulenza senza precedenti. Sui giornali si parlerà de “La biennale del manganello” riportando i violenti scontri tra i manifestanti – tra i quali anche il compositore Luigi Nono e il pittore Emilio Vedova – e, appunto, la cronaca del giorno dell’inaugurazione, quando l’eccezionale spiegamento di forze dell’ordine spingerà molti tra gli stessi artisti a rinunciare alla partecipazione. Clamorosa la protesta di Gastone Novelli che girerà i propri quadri verso la parete vergandoli sul retro con la scritta “La Biennale è fascista”. Un clima analogo si registra lo stesso anno in occasione anche della XXIX edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.
All’inizio degli anni ’70, complici le turbolenze e le messe in questione del passato decennio, ad essere all’ordine del giorno sarà la riforma dello statuto della Biennale che porterà da un lato alla spartizione tra i diversi partiti parlamentari dei posti nel Consiglio direttivo e dall’altro all’avvio di attività “permanenti” e sul “territorio”. In quest’ottica mi pare vada esemplarmente considerata la performance “Che cos’è il fascismo” orchestrata da Fabio Mauri con la compagnia Cà Foscari. Nel frattempo Jerzy Grotowski e su un altro piano il Living Theatre occuperanno nuovi spazi e daranno il via a nuove sperimentazioni.
La grande installazione “Libertà al Cile” installata nel 1974 a campo San Polo con i murales, tra gli altri, di Sebastian Matta, alcuni dei quali riproposti, segna un ulteriore scarto nell’esplicita presa di posizione dell’istituzione contro il regime di Pinochet.
Un decennio particolarmente fertile che vedrà nel 1975 per la cura di Vittorio Gregotti l’iniziativa “Proposte per il Mulino Stucky” volta a invitare gli artisti a realizzare dei progetti di rivalorizzazione di un’area in forte degrado, quale appunto il complesso industriale abbandonato. È anche l’anno di una rinnovata attenzione alla danza e al balletto grazie all’Accademia Internazionale di danza diretta da Maurice Béjart e agli Incontri Internazionali della Danza e si rivela un anno cruciale per il teatro con la nuova direzione assunta da Luca Ronconi che apre al Laboratorio internazionale del teatro.
Nel 1977 la scelta di Carlo Ripa di Meana di dare vita ad una “Biennale del dissenso” come atto politico e culturale a sostegno dei resistenti in Unione Sovietica genererà, a riprova del clima di contrapposizione, un avvelenato scontro politico.
All’abbrivio del nuovo decennio, nel 1980, l’architettura, fino a quel momento considerata in sottordine benché costola irrinunciabile degli allestimenti, trova una più proficua e autonoma possibilità di declinazione nell’istituzione della prima Biennale di architettura che sarà affidata alla direzione di Paolo Portoghesi. I nuovi spazi delle Corderie all’Arsenale saranno allestiti con la sua “Strada Novissima” nella cornice di una mostra intitolata “La presenza del passato”. Per le arti visive sarà invece l’anno dell’inaugurazione della sezione di “Aperto” curata in questa edizione da Achille Bonito Oliva e da Harald Szeeman e che, nell’intento di dare spazio alle giovani generazioni, rimarrà aperta fino al 1993.
Chiuderà il secolo l’istituzione del Festival della danza contemporanea affidato nella sua prima edizione a Carolyn Carlson.
Tra i tanti snodi che la mostra mette sotto i riflettori e che sismografano diacronicamente i limiti culturali, ideologici e politici di un intero secolo c’è quello degli scandali e della censura, tentata ma anche esercitata, e che contrappuntano la storia della Biennale fin dal suo esordio. I casi selezionati partono infatti dallo sconcerto suscitato in ambito ecclesiastico dall’opera pittorica di Giacomo Grosso “Il supremo convegno” presentata in occasione della prima edizione nel 1895, e via via, ne ricordano altri che spaziano dal controverso impiego degli animali che suscitano le ire degli ambientalisti a quelli ritenuti offensivi della morale pubblica. Paradigmatico il clamore suscitato dal lavoro “Seconda soluzione di immortalità (l’universo è immobile)” di Gino De Dominicis alla Biennale del ’72 in cui l’artista presenta un giovane affetto dalla sindrome di Down seduto su una sedia ad un angolo della sala che oltre a scatenare un acceso dibattito comporterà per l’artista una denuncia alla Procura della Repubblica per sottrazione di incapace.
Scandali, censure, cancellazioni che attraversano tutte le discipline (si ricordava prima quello di Brecht) e, rimanendo nel campo del teatro, un interessante focus della mostra è dedicato alla scelta di Carmelo Bene che, nominato direttore della Biennale teatro nel 1988, intitola il suo progetto “La ricerca impossibile. Ovvero il teatro senza spettacolo” dando vita ad un laboratorio in fieri che però, incompreso a diversi livelli, lo indurrà due anni dopo a rassegnare le dimissioni. Oltremodo numerosi gli scandali che accompagnano la storia della Mostra del cinema, quasi, si direbbe, come un basso continuo. Uno per tutti: la presentazione nel 1966 del film di Gillo Pontecorvo “La battaglia di Algeri” che, insignito del Leone d’Oro, otterrà un grande plauso della critica e del pubblico ma non verrà condiviso dalla diplomazia politica francese che, leggendovi un attacco alla propria politica coloniale, diserterà la proiezione.
Maurizio Calvesi, Germano Celant, Okwi Enwezor e Vittorio Gregotti: la dedica di quattro Leoni d’oro speciali a quattro recenti perdite che hanno, in modi diversi, segnato la storia della Biennale ha accompagnato l’inaugurazione di questa mostra che segna anche, come già si accennava, il rinvio, per la prima volta per ragioni pandemiche, della Biennale di architettura al prossimo anno e all’anno successivo l’edizione dell’arte, testimoniando di come l’istituzione stessa sia storia dei nostri tempi. Capovolgendo la prospettiva, sembrerebbe così che non sia tanto la Biennale ad intercettare la storia ma che il farsi della storia sia testimonialmente restituito dalle tante storie nelle quali si inscrive la Biennale. Lo stesso titolo della mostra “Le muse inquiete” nel declinare con accezione constatativa il titolo del celebre quadro “Le muse inquietanti” di Giorgio de Chirico, sottolinea la loro dimensione di metafora e di rilevatrici delle tante controverse condizioni storiche. E proprio nella visualizzazione retrospettica di queste muse è possibile in controluce scorgere la consapevolezza di un’inevitabile drastica trasformazione a cui la stringente attualità consegna, tra gli altri, anche il futuro di questa istituzione.
20 ottobre 2020
1) Le muse inquiete. La Biennale di Venezia di fronte alla Storia, padiglione centrale, giardini della Biennale, 29/8 – 8/12 2020, Venezia.
2) Asac Archivio Storico della Biennale di Venezia, a cura di, Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia 1895 2019, la Biennale di Venezia, 2019.
