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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Sottosopra

Il mondo visto da Sud

Patrizia ManiaIcoPDFdownload

Capovolgere la prospettiva consueta e attraversare l’estraneità come condizione stessa del presente. Su questo suggestivo assunto e sotto il titolo di Stranieri ovunque, Adriano Pedrosa, il curatore della 60.Biennale di Venezia, ha costruito una mostra che guarda a esperienze di ricerca artistica attuali e storiche dal punto di vista di ciò che per ragioni tematiche, identitarie o semplicemente biografiche si colloca in una dimensione di collateralità (1). Questo sostanziale bouleversement di approccio, si rivolge a condizioni complesse e differenti investendo sia la sfera sistemica, economica, territoriale e critica, che quella dell’essere, del riconoscersi o dell’essere riconosciuto “straniero” per le ragioni più diverse. Prevalentemente disforia di genere, provenienza geografica e appartenenza sociale. Dunque più fili conduttori delineano un progetto proteiforme e polidimensionale che aspira a descrivere i nostri tempi prestandosi però nella vasta gamma di traiettorie intraprese a qualche insidia interpretativa. Se lo sguardo infatti dichiara di volersi appuntare su artisti o tematiche di marginalità, di fatto mette insieme la scarsa notorietà di alcuni - la maggioranza - con quella storicamente e criticamente consolidata nel tempo di altri sicché il discorso più che dipanarsi organicamente coerente evidenzia tratti disgiunti e sinusoidali. Inoltre, l’intento di restituzione del modernismo globale come “cannibalizzazione”, spesso tardiva, della matrice originaria di stampo occidentale rischia di caratterizzarsi come un ritorno alla naïveté e al “primitivismo” che configuratasi nel secolo scorso come risorsa per fare tabula rasa del surplus inautentico, sembrerebbe qui chiudere il cerchio nel meticciato degli stili con una, in molti casi manierata, risemantizzazione e così finendo inevitabilmente per ridursi ed esaurirsi in essa.
Il titolo Stranieri ovunque è stato mutuato da un lavoro del collettivo Claire Fontaine che è una scritta al neon declinata in tante lingue e in tanti colori diversi e che introduce il percorso, lo contrappunta e in certo modo lo chiude alle Gaggiandre dell’Arsenale riflettendosi sulle sue acque (2). Argomentando le ragioni del titolo, Pedrosa ha fatto riferimento alle difficoltà di tradurre le diversità – nelle lingue, nelle identità, nei Paesi, nelle etnie, nei luoghi, nelle classi sociali, nei diritti, nei generi, nei sessi -. Siamo, ciascuno di noi, non c’è dubbio, comunque stranieri rispetto a qualcosa o a qualcun altro. L’ombrello è ampio e può contenere davvero tutto e il suo contrario. La stessa città di Venezia riassume nella sua storia l’essere stranieri. All’origine la sua popolazione si è costituita infatti con i profughi provenienti dai centri urbani romani e oggi la forte concentrazione di turisti fa sì che nei periodi di alta stagione la sua “straniera” popolazione si moltiplichi vertiginosamente finendo peraltro per metterne a repentaglio la stessa sopravvivenza. Dunque a Venezia, e non solo, gli stranieri sono ovunque e per la Biennale muovendo dall’etimo “strano” Pedrosa ha strutturato il suo attraversamento della plurale nozione in due grandi nuclei: il “Nucleo contemporaneo” che esplora in particolare gli artisti identificati come indigeni, queer, outsider e anche folk e il “Nucleo storico” che più o meno sulla stessa falsariga propone alcune esperienze del passato.
Partendo dall’attenzione rivolta agli indigeni, ad aprire la mostra ai Giardini è un monumentale murale realizzato sulla facciata del Padiglione Centrale dal collettivo brasiliano MAHKU (3), così come specularmente apre il percorso alle Corderie la grande installazione Takapau del collettivo Maataho di Aotearoa/Nuova Zelanda (4). Due diversi modi di riannodare i fili con le proprie radici all’insegna della monumentalizzazione. MAHKU con un linguaggio accentuatamente naïf ha sviluppato un racconto sul mito autopoietico di kapewë pukeni (il ponte alligatore) che narra il passaggio tra il continente asiatico e quello americano attraverso lo stretto di Bering reso possibile dalla generosità di un grande alligatore che fece del suo corpo il ponte, ma la leggenda narra che la penuria di cibo portò gli ingrati umani a cacciare e a alimentarsi di un piccolo alligatore e così avendo tradito la fiducia del primo lo indussero ad inabissarsi e a lasciare per sempre divisi i due continenti. Un monito sulla necessità di costruire ponti nel reciproco rispetto. La grande struttura di Mataaho, realizzata nel 2022, è invece un takapau, una stuoia finemente tessuta in fibra che si ispira a quelle tradizionalmente usate nelle cerimonie māori, in particolare in quella del parto, e che realizzata su grande scala si fa grembo protettivo per chi l’attraversa. La raffinata tecnica di tessitura evoca le radici culturali di appartenenza e creando un sofisticato gioco di luci e ombre diviene tempio della sacralità del rito. Insignito del “Leone d’oro per il migliore artista” se ne sono decantate nelle motivazioni le “impressionanti dimensioni” come “prodezza ingegneristica che è stata resa possibile solo dalla forza e dalla creatività collettiva del gruppo”. Dunque, storie di miti e di saperi trasmessi da tradizioni locali e capaci di tradursi in linguaggi universali attraverso il lavoro collettivo.
Lungo il percorso espositivo disseminati un po’ ovunque sono soprattutto gli artisti queer cui è riservato uno spazio specifico alle Corderie e un fuoco sull’astrazione ospitato dal Padiglione centrale. In quest’ultima accezione solo le note biografiche consentono però di giustificarne lo sforzo di incasellamento che incorre in ogni caso nel rischio di ghettizzarne il contributo.
Soffermandoci sul “Nucleo storico” cui sono dedicate sale specifiche sia al Padiglione centrale che all’Arsenale, il percorso espositivo si snoda su opere del XX secolo provenienti dalle Americhe, dall’Africa, dall’Asia e dal mondo arabo nell’intento precipuo di delineare l’orizzonte del Modernismo globale nel Sud del mondo. Sulla scorta del pensiero di Oswald de Andrade, il presupposto da cui si è mosso Pedrosa è che il Modernismo si sia qualificato sì come un linguaggio globale ma in senso antropofagico, e cioè in quello dell’intellettuale moderno ai margini dell’Europa che impadronendosi della cultura metropolitana l’ha prima cannibalizzata per poi restituirla ibridata con le proprie radici. “I tipi unici e distinti di Modernismo del Sud del mondo assumono figure e forme radicalmente nuove in dialogo con le narrazioni e i riferimenti locali e indigeni” scrive Pedrosa.
Il “nucleo” si articola in tre sezioni con un’opera per ciascun artista. In esse il grande escluso resta l’Occidente che è presente solo nella terza sezione dove sono riunite opere di artisti italiani accomunati dal fatto di aver viaggiato e vissuto all’estero nel corso del XX secolo. E proprio qui peraltro che sorgono le maggiori perplessità sul costrutto del progetto espositivo sia perché a fronte di artisti pressoché sconosciuti vi sono figure celebri di peso storico maggiore o minore ma indubbiamente conosciute; sia perché il considerarli diasporici pone un’accentazione spesso impropria o comunque non sempre riconducibile a quelle realtà.
Tornando al “Nucleo contemporaneo”, tra le tante suggestioni folk, alcune un po’ troppo dilettantesche, sono viceversa di timbro ragguardevole molti degli affondi politici veicolati da un gruppo consistente di lavori a partire dal Disobedience Archive che è mostra a sé nella mostra. Si tratta di un progetto di archivio video multifase incentrato sulle relazioni tra pratiche artistiche e attivismo politico portato avanti dal 2005 da Marco Scotini che ne cura anche la sua esposizione all’Arsenale. Concepito come archivio dinamico e generativo in continua implementazione si modella diversamente ad ogni occasione espositiva, e qui viene convincentemente proposto come spazio centrifugo ispirato al dispositivo ottico dello zootropio - primordiale esempio di strumento per visualizzare le immagini in movimento -. Articolato in due sezioni: “Attivismo della diaspora” e “Disobbedienza di genere” presenta le opere di trentanove artisti e collettivi attivi tra il 1975 e il 2023 con però il limite contestuale di una fruizione che richiede tempi lunghi generando di conseguenza qualche perplessità sulla sua possibile concreta esaustiva esperienza.
Dunque la storia documentata ma anche costruita e fatta dall’arte. Eloquentemente in Gaddafi in Rome: Anatomy of a Friendship, video di Alessandra Ferrini, che, sulla scorta di una nutrita documentazione, riflette in maniera stringente sul trattato di amicizia, partneriato e cooperazione fra Italia e Libia firmato dal Muhammar Gheddafi e Silvio Berlusconi nel 2008 e ratificato l’anno successivo nel corso della visita di Gheddafi a Roma. In quell’occasione Gheddafi ostentò platealmente il ritratto di Omar al-Mukhtar leader della resistenza anticolonialista e a partire da qui nel video si ricompongono a ritroso le relazioni tra i due stati scavando fino alle radici dell’occupazione italiana nel 1911 e via via arrivando a riferire delle controverse circostanze e vicende che hanno accompagnato nel tempo quelle relazioni. Quanto anche queste vicende abbiano inciso su una parte consistente del fenomeno migratorio degli ultimi anni è un aspetto ineludibile. Sulla questione, a raccontarci propriamente le rotte dei migranti è invece l’intensa installazione dell’artista franco marocchina Bouchra Khalili in The Mapping Journey Project. Un progetto cui si è dedicata dal 2008 al 2011 seguendo le rotte migratorie mediterranee dal Medio Oriente, dall’Africa settentrionale e dall’Asia meridionale e raccogliendo le storie dei migranti da lei incontrati nelle stazioni ferroviarie locali. Le otto video installazioni documentano queste storie attraverso le mani dei migranti che tracciano sulle mappe segnandole a penna le traiettorie seguite. Conclude il lavoro la più recente Constellation Series in cui i viaggi narrati si traducono nel miraggio di nuove costellazioni.
Il passato, invece, e la sua rilettura nel presente spinti dall’istanza urgente di cambiarne il verso è esplicitamente configurato in Descanso (2024), la grande statua frantumata a terra di Cristoforo Colombo di Ivan Argote. Divenuto simbolo di sopraffazione e oggetto di ostracismo della cancel culture il monumento a Colombo viene messo letteralmente a riposo – descanso - e tra gli anfratti dei suoi frammenti la coltura di alcune specie di piante migratorie ne fa contenitore di nuove forme di vita biologica. Didascalicamente dunque, dalla decostruzione della Storia alla sua rigenerazione. 
Oltre i riposizionamenti della memoria collettiva altri lavori testimoniano invece della ricerca di forme di riscatto e risarcimento in sfere più intime e identitarie.
In tale direzione, la struggente performance Falling Reversely di Isaac Chong Wai ci parla delle violenze quotidiane subite da soggetti vulnerabili di cui reinterpreta il movimento per tradurlo in forme di solidarietà e resistenza. Prendendo spunto da immagini di aggressioni fisiche negli spazi pubblici subite da persone inermi colpite per intolleranza nei confronti dei diversi in senso lato e registrate in filmati di telecamere a circuito chiuso, l’azione concertata dall’artista commuta la violenza in forme di resilienza comunitaria.
Le identità oscillanti e indistinte trovano invece un avvincente tentativo di smaterializzazione nell’intermittenza dei bagliori che modula la scultura Lipid Muse (2024) di WangShui in un gioco che scorre dal visibile all’invisibile.  
Gli esempi riferiti, benché da considerarsi particolarmente significativi, non possono (non potrebbero) testimoniare esaurientemente delle tante sfaccettature e traiettorie in cui il vasto tema è declinato. Un eccesso che quasi disorienta. Resta l’impressione generale di una scarsa aderenza ai temi cruciali del Sud globale che sono invece in molti dei padiglioni nazionali proposti con progettualità molto più efficaci. Sono infatti proprio alcuni lavori nei padiglioni a mostrare effettiva cognizione delle specifiche anche linguistiche in cui si interroga e configura l’arte sul tema.  
Gli esempi sono molteplici e nel panorama tracciato ciascuno a suo modo appare dirimente. Per esempio, il padiglione della Cina che ha un titolo ambizioso Atlas Harmony in Diversity. Il team curatoriale si è ispirato di fatto al Mnemosyne Atlas di Aby Warburg per provare a giustapporre varie immagini interpolando la tradizione pittorica cinese con lavori contemporanei nell’auspicio di interconnettere le differenze nella coesistenza. Così, in particolare, il progetto di costruire una collezione di antica pittura cinese e l’installazione archivistica che ne è derivata si è imposta un imperativo etico: imparare dal passato per rinnovare il futuro e l’approccio scientifico adottato rende merito al proposito aprendo a pensieri e sguardi davvero altri.
Nel padiglione libanese l’installazione Con il suo mito lei danza di Mounira Al Sahl si appella al mito di Europa costruendo una parabola che tra memorie, saperi artigianali e video si fa nella solidarietà collettiva sorgente di riscatto al femminile. L’ambiente immersivo sui toni del blu – tessuti, tendaggi, stock di abiti - dell’installazione Don’t Miss the Cue dell’artista Aziza Kadyri occupa e trasfigura invece l’intero spazio del padiglione della Repubblica dell’Uzbekistan. Concepito e costruito insieme al collettivo Qizlar invita gli spettatori a condividere le memorie migratorie uzbeke nella loro trasformazione e reificazione introspettiva.  
Affidato al collettivo di artisti congolesi CATPC (Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise) il padiglione olandese presenta sotto il titolo The International Celebration of Blasphemy and the Sacred alcune sculture realizzate in argilla e rilavorate con alcune materie prime estratte dalle ex colonie - cacao e olio di palma - nel tentativo di trasformare le “macchie impure” del passato in “strumenti di riparazione” del presente. Progettando la mostra hanno scritto infatti: “Ogni scultura segnerà il passaggio da un passato doloroso e cupo a un domani ecosostenibile”. Avvolti dal tenue ma pervicace profumo di cacao l’auspicio diventa persuasivo.
Su un altro piano, nuovamente di scrittura storica revisionata, risulta impeccabile la messa a punto della complessa installazione Pinacoteca migrante dell’artista peruviana spagnola Sandra Gamarra Heshiki. L’obiettivo di riconsiderare il museo e le sue falle nel restituire le storie sottese di oppressione e di sfruttamento coloniale rende conto della sua pervasività e deterrenza.
E scorrendo su altri ulteriori cammini tra le memorie migratorie e le radici, il postcolonialismo e l’ecologia, meritano una segnalazione il visionarismo del padiglione francese che per la cura di Céline Kopp e Cindy Sissokho è stato affidato a Julien Creuzet (6), il padiglione della Gran Bretagna affidato a John Akomfrah che lo ha riconfigurato nel progetto Listening all Night to the Rain, il padiglione australiano cui è andato il Leone d’oro come miglior padiglione e che è interamente rivestito dall’intervento di Archie Moore dal titolo kith and Kin e il padiglione nigeriano che vede un gruppo di artisti, tra cui Yinka Shonibare e Fatimah Tugger, particolarmente attivi nel rivendicare la propria estetica engagèe.
Un tripudio di colori psichedelici avvolge il padiglione statunitense nel progetto the space in which to place me dell’artista Jeffrey Gibson che rende omaggio all’estetica e alle storie indigene attraverso materiali che ne rievocano la tradizione come le miriadi di perline che rivestono le sue sculture in un mix di cultura indigena pop e di rimandi ad atti legislativi fondanti la democrazia americana evocati da estratti di testi. Il raffinatissimo artigianato che plasma le sue sculture e i suoi rivestimenti architettonici sono un inno alla gioia di vivere esemplificativamente sincretizzato nell’installazione video She Never Dances Alone che chiude caleidoscopicamente il percorso al ritmo della Jingle Dance facendosi messaggio ecumenico delle potenzialità del presente.
Il protagonista del padiglione serbo Aleksander Denic ha dato vita ad una installazione/mostra dal titolo Exposition Coloniale. Christopher Yggdre ne scrive come di un “palinsesto che costruisce la superfice della memoria collettiva repressa”. Ispirato alle Esposizioni Coloniali in voga in Europa tra il XIX e il XX secolo, l’artista ha ricreato un ambiente familiare con immagini, oggetti, spazi di facile riconoscibilità e appartenenti alla memoria collettiva più recente. Cassette con le scritte della Coca Cola, un juke box funzionante, un bagno, una cabina telefonica, provocano però inaspettatamente una sensazione di sostanziale estraneità. La pietra angolare sembra essere la scritta “aporue”, che è la parola Europa all’incontrario. Da colonizzatrice a colonia, Denic propone in questa ricostruzione ironica e residuale un corrispettivo dello “human zoo” del passato più recente (5).
Sempre in sintonia con le tematiche di questa edizione uno dei padiglioni più apprezzabili è quello egiziano interamente affidato a Wael Shawky che ha realizzato una complessa installazione in cui tra grandi sculture di preziose materie e potenti immagini campeggia la video proiezione di Drama 1882. Quest’ultima è la rappresentazione filmica di un musical originale, diretto, coreografato e composto da lui stesso. Il tema è l’insurrezione patriottica del movimento nazionalistico egiziano guidato dal colonnello egiziano Ahmed Urabi nel 1879 e poi repressa nel 1882 dagli inglesi che occuparono l’Egitto fino al 1956. Cantato in arabo classico e interpretato da attori professionisti questo “dramma” imprime una svolta nel lavoro di Shawky non solo perché non ci sono più metaforicamente i fili a guidare la drammaturgia (in precedenza le marionette e i burattini) ma anche per la straordinaria forza della costruzione che su sfondi pittorici fa muovere gli attori e la musica quasi come fossero elementi della composizione pittorica che si anima per il loro tramite portando con sé le scorie del passato e avanzando dei dubbi sulle ricostruzioni storiche. Si ribadisce e amplifica la sua ricerca di guardare alla storia, ad alcuni episodi storici, reinterpretandoli nel presente per il tramite dell’arte. Non dunque l’arte come testimonianza oculare (P.Burke) ma la Storia, le Storie, scritte dall’arte. Un ruolo, una funzione che in definitiva può ritenersi la peculiare qualità e tendenza su cui sembrerebbe essersi spostata la riflessione artistica degli ultimi anni.

Aprile 2024
1) Stranieri ovunque/Foreigners everywhere, 60.Esposizione Internazionale d’Arte, Biennale di Venezia, 2024.
2) Iniziato nel 2004, il lavoro è in itinere e consiste in una serie di scritte al neon di colori diversi e in lingue diverse, anche estinte.
3) MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) è nato ufficialmente nel 2013.
4) Mataaho Collective è stato costituito nel 2012 dalle artiste māori Bridget Reweti, Erena Baker, Sarah Hudson e Terri Te Tau.
5) La mostra è curata da Ksenija Samardzija.
6)Il titolo dell’installazione é: ATTILA CATARACTE TA SOURCE AUX PIEDS DES PITONS VERTS FINIRA DANS LA GRAND MER GOUFFRE BLEU NOUS NOUS NOYÂMES DANS LES LARMES MARÉES DE LA LUNE.