Portare all'eccesso l'idea di un altrove
Domenico Scudero
La mostra Liminal di Pierre Huyghe presso la Fondazione Pinault in concomitanza con la Biennale di Venezia 2024 è una antinomia, una sperequazione fantabiologica, sull'identità e sulla prevedibilità di ciò che saremo nel tempo. Per l'artista divenuto celebre con l'opera Chantier Barbès-Rochechouart del 1994, in cui la tautologia della rappresentazione visiva si concentrava sulla reattività fra mondo idealizzato della pubblicità e banalità del quotidiano, si delinea con questo lavoro il passaggio da una visione enfatica della realtà ad un'altra speculare ma completamente ridondante nella sua spettacolare finzione. Sebbene anche precedenti lavori come L'association des Temps Libérés (1995) e Atari Light (1999) abbiano ripreso alcune strategie di interazione fra concettuale e tecnologia falsificata, in riferimento a Duchamp e al situazionismo, il suo percorso si è direzionato nel campo della speculazione filosofica sul destino dell'esserci e sulle modificazioni della vita così come l'abbiamo conosciuta.
Entrare all'interno della mostra produce un iniziale spaesamento dovuto alla completa oscurità. Tutto ciò risulta fortemente amplificato dalla condizione in cui si trova la sede veneziana della fondazione presso Punta della Dogana stretta fra le acque della laguna che rendono la luce squillante. Entrare è quindi un passaggio nell'altrove della luce, il buio più tetro. Abituarsi alle tenebre espositive può essere insopportabile per chi si aspetti di trovare un bel cubo bianco illuminato a giorno; scostando i pesanti tendaggi che riparano da eventuali spifferi di luce ci si trova invece come all'interno di un oscuro presagio di vuoto, le tenebre. Il pavimento è ricoperto da terre appiattite e un leggero monitor di ultima generazione – solo un flebile strato di led – quasi volteggia al centro della prima sala. Trasmette immagini di forme evolutive mobili nell'oscurità. Sembra di intravedere alcuni tratti antropomorfi di primati evanescenti che si slabbrano nel tessuto digitale e si ricompongono come acque smosse e le cui luci, che si spandono verso lo spazio, rendono visibile una figura accovacciata a pochi metri dal video, un essere quasi indistinguibile allo sguardo, immobile e luccicante di riflessi. Si tratta del biomio di Uumwelt – Annlee (2018 - 2024), un'immagine in movimento generata dall'interazione col pubblico e l'ambiente attraverso i sensori digitali mixandoli in tempo reale e di Cancer Variator (2016) un incubatore di cellule umane. Più avanti oltre una parete ci si trova di fronte alla videoistallazione De-extinction (2014) in cui le forme più definite si muovono come sospinte da suoni filtrati da fonti digitali e si snodano in un racconto che narra l'evolversi d'una identità succedanea a quella dell'antropocene. Sembra di nuotare dentro una materia densa in continua trasformazione e le cui strutture mai definite si tramutano lentamente seguendo i lamenti del suono e i ticchettii di interferenze. Nello spazio liminare dove il transito è accompagnato da suoni e oggetti che tramutano l'essenza dell'esperienza in un'alterazione sensibile, spaesamento, ansia, paura d'inciampo, insofferenza sensibile si avvicendano e l'identità della rappresentazione si offre come allusiva differenza da ciò che è memoria e tangibilità del visitatore. Nel chiasmo oscuro rotto a tratti dal chiarore intermittente emergono bacheche espositive che contengono acquari di vite indecifrabili; reperti d'una storia brevissima, quella conosciuta dall'uomo, ridotta in frammenti d'un disastro apocalittico e divenuti oggetto d'indagine d'una archeologia futura. Al loro interno s'individua la vita aliena di un crostaceo che ha la sua tana dentro Sleeping Muse di Costantin Brancusi. Si tratta di uno dei vari acquari confezionati con l'ausilio di vetri che rispondono ai comandi di un algoritmo che li oscura o li rende trasparenti in relazione alla luce del contesto espositivo. La luce che trasforma da visibili a invisibili le teche degli acquari, traslandoli di volta in volta in apparati espositivi di vite di un altrove o in oscure sculture minimali d'un idealismo neoclassico, proviene dalla grande sala centrale. In questo spazio è un enorme video wall ad alta definizione, Camata (2024), in cui si alternano varie sequenze della vita di un braccio meccanico al lavoro in una landa desertica di un luogo in osservazione. Il processo delle immagini oltre a raccontare l'indagine conoscitiva di questo attrezzo lascia intravvedere sprazzi aerei su cui dilaga una luce solare e primi piani di resti ossei di una vita precedente. Si tratta di un video continuo governato da una macchina regolata da un'intelligenza artificiale che compone editing e punti di vista adattandosi ai comandi dei sensori situati nello spazio espositivo. L'apparecchio che edita, trasmette e direziona la ripresa video in tempo reale risiede nel deserto di Atacama (Cile), il più antico e arido deserto del nostro pianeta, usato per testare strumenti da indagini exoplanet. Sul piano superiore, distanziato da un vetro blindato, è il cervello operativo di tutta la mostra e un corridoio ci introduce nello spazio di una vita dell'altrove animato da figure interamente vestite in nero che attraversano le sale espositive ma che lì siedono mostrando maschere flebilmente luminose come superfici compatte. Al centro è Offspring (2018) un sistema luminoso e sonoro generato da sensori automatici che interagiscono con l'ambiente variando luminosità e vapori fumogeni tali da rendere la sala simile ad un paesaggio dell'inconscio.
Queste e altre opere di Pierre Huyghe, interallacciate in un percorso espositivo tanto vasto quanto difficilmente districabile nei suoi presupposti teorici e pratici, possono però connettere l'impianto della mostra con il tema della Biennale apertasi negli spazi diffusi sul territorio veneziano. In primo luogo il lavoro di Huyghe è sintomaticamente all'opposto delle tematiche affrontate nella sede istituzionale della Biennale. Non si tratta di una contrapposizione estranea al sistema interpretativo della stessa Biennale, semplicemente enuclea l'idea della differenza attraverso lo sviluppo di un'intenzionalità esplorativa valutandone il coefficiente tecnologico piuttosto che non la ritorsione o la commistione fra azione manuale e tecniche comunicative. Il percorso della mostra di Huyghe infatti non può essere delimitato alla sola frazione tecnica, la quale pur presente è semplicemente la dimostrazione della validità della riflessione artistica e non la qualità interiore; ciò che invece delimita la sua consistenza significativa è nella trasformazione della tecnica in strumento di una fiction elaborata da sé stessa – in questo caso l'uso dell'intelligenza artificiale – ma con la corresponsabilità del pubblico che vi interferisce. Il fruitore di questo grande connettore di impulsi di Liminal viene quindi chiamato in causa come coautore inconsapevole poiché l'impianto tecnologico non può essere compreso se non attraverso la reale conoscenza dell'operazione prodotta. In questo senso potremmo dire che l'organismo della mostra è simultaneo alla sua visita, poiché azioni e percorsi della fruizione condizionano il punto di vista e la visione delle immagini che si producono e si interallacciano ricodificandosi continuamente. Si può sottolineare in questo modello di iperconnessione tecnica il similare modo di relazione fra i nuovi media, tecnologia e AI, di cui ogni singolo consumatore fa uso inconsapevolmente degli effetti che ciò produce. Che sono effetti devastanti per ciò che noi intendiamo col termine natura. Ma per Huyghe la natura non è un elemento statico e per di più non è un sistema che possiamo staticizzare attraverso la conservazione poiché la sua effettualità consiste nella fluidità che è trasformazione continua e resistenza alla diversione prodotta dalla tecnologia. Possiamo quindi dire che questo sia un percorso distopico, tuttavia una simile disposizione critica evidenzia il presupposto di una primogenitura del pensiero umano su quello astrattamente metafisico della natura; ma l'umano è parte della natura e col suo intervento tecnologico ne ha modificato consapevolmente l'evoluzione con esiti che non possiamo valutare ma che possiamo intravedere. Così in De-extinction, ad esempio, si mette in scena una paradossale naturalezza della forma biomorfica sganciata dall'idea antropocenica, la forma di una vita ulteriore ma erroneamente aliena, forse frutto di radiazioni da ecatombe nucleare, forse determinate da contorsioni genetiche che hanno azzerato ogni forma di vita da noi attualmente conosciuta. Si tratta di uno scenario apocalittico in cui però si valuta la possibile resistenza dell'essere anche in forme primitive; esse risultano formate in quella contrapposizione fra natura e cultura con il prevalere dell'idea di una tecnica estrema che sovvertendo l'ordine si ratifica come prodotto definitivo dell'agire umano e allo stesso tempo causa determinante la sua estinzione. Ma queste forme mutanti e aliene sono indagate e coabitano con la tecnica racchiusa nel formulario dell'AI che già si intuisce depositaria di alterità e libertà dal dominio dell'uomo. Il paradosso del futuro, rappresentato in questa mostra, è un mondo in cui l'uomo in sé sparisce sostituito da macchine che hanno acquisito il libero arbitrio e che attraverso la memoria dell'umano si rapportano come alterità rispetto a quella natura residuale del post-antropocene.
Ma la mostra suggerisce anche altre riflessioni. In primo luogo se sia giusto realizzare mostre che hanno un così forte impatto tecnologico per rendere plausibile una visione del futuro; se sia accettabile che un simile mega impianto, significativo, interessante, esaltante quanto si voglia ma frutto di un pensiero involutivo sul destino umano non sia a sua volta parte integrante di quel sistema di produzione, comunicazione, mercificazione e speculazione; se sia questa un'opera che può farci pensare alle ambiguità della società ipercapitalista e renderci più responsabili delle nostre azioni o se invece, dichiarando l'inutilità educativa del pensiero, si riscopra parte attiva e solidale con il meccanismo di distruzione a cui attribuire ogni responsabilità.
In occasione della mostra Liminal è stato realizzato un catalogo, pubblicato da Marsilio Arte, Venezia, edito da Anna Stenne e Jacqueline Feldmann con vasto apparato fotografico e testi di Tristan Garcia, Pierre Huyghe, Patrizia Reed, Tobias Rees e Chiara Vecchiarelli.
Aprile 2024