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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

La "giovane generazione" nella critica d'arte degli anni '90
Una rilettura

Domenico Scudero
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Negli anni Ottanta della critica postmoderna, individualista, le metodologie di scrittura interpretativa si diversificano. Dopo la parentesi di opposizione istituzionale dei '70 la sperimentazione critica, e in particolare quella frutto di una nuova generazione formatasi negli stessi anni postmoderni, vive in estrema autonomia il passaggio epocale dall'analogico al digitale. Sono molte le implicazioni che questo passaggio tecnologico ha impresso alla disciplina anche disarticolando alcune limitazioni stilistico metodologiche e avviando una fase di mediazione linguistica fra generi e sistemi.
In primo luogo, le procedure di affermazione e di pubblicazione. In quegli anni il potere della critica si identificava con alcune fonti editoriali e altre forme di istituzionalizzazione estremamente radicate. La resa pubblica della critica avveniva raramente nelle istituzioni accademico universitarie e più diffusamente invece nel loro antagonista delle riviste d'arte, che conoscevano una produzione sempre più massiccia. Il fenomeno non era di certo nuovo, tuttavia era più forte la percezione di un elitarismo divulgativo assunto da molte riviste d'arte che nei due decenni precedenti si erano affermate come contraltare manifesto del potere critico più accademico. Artforum, Artnews negli USA, Art Press in Francia, naturalmente Flash Art in Italia, sono gli esempi più calzanti.
Gli anni bui del "piccolo medioevo" anni Settanta si trasformano in fretta negli anni della ridondanza postmoderna rigonfia di interessi economici. Il sistema di gallerie si riunisce nelle fiere che assumono un potere centrale coniugandosi con le grandi mostre internazionali. Il duplice livello di resa pubblica del discorso critico rimane vincolato alla possibilità di sostegno economico, di impegno politico e di convalida sociale; da una parte la lettura metodologica post visibilista delle concentrazioni accademico universitarie, dall'altra la variante individualista decostruzionista. Era questa una lettura scevra dai meccanismi cristallizzati dal "metodo" e assunti invece sull'onda della vincente strategia postmodernista dei neo ismi e delle nuove possibilità letterarie che parallelamente si creavano (1). L'inconciliabilità di una lettura ampiamente condivisa in un metodo era evidente anche in riferimento alle opere maggiormente significative, come lo era la visione sulla lettura dei generi e sui primi segnali di ciò che sarà poi il politically correct sul finire del decennio Ottanta (2). Le due forme critiche non si riconoscevano reciprocamente, da una parte un'accademia rinchiusa nei suoi sistemi, ma povera di mezzi divulgativi, dall'altra una critica legata al sistema economico e che surclassava la ricerca pura considerandola sotto il ricatto di una tradizione che anche la stessa accademia riteneva superata (3). In questo impasse così stupefatto e inconciliabile, il distacco tra la ricerca pura e la sperimentazione soggiogata dai tentativi di riuscita assume la caratteristica di un gioco di scrittura, col risultato di apparire tutt'al più superflua. I violenti anni dell'austerity e delle tensioni sociali del decennio precedente erano stati di certo non ricchi, tuttavia se paragoniamo la produzione critica del decennio '70 con il successivo possiamo solo stupirci della quantità e della qualità di quanto si era prodotto, mentre gli anni Ottanta faticavano a consegnare opere di un qualche spessore, e contemporaneamente enfatizzavano la scrittura da consumo immediato (4). Si viveva la critica istituzionale come il luogo del possibile (Hohendahl, 1982) o si analizzava il più ampio spettro sociologico come in Art World, (Becker, 1982), mentre solo in alcuni casi l'esercizio più complesso del libro riusciva ad emergere dalla critica delle riviste d'arte, la quale non solo rimane confinata all'interno dell'angusto spazio dell'effimero temporale, ma è anche dimenticata sul fare della storia (5). Si trattava, quando andava bene, come nel caso del modello letterario incarnato da Bonito Oliva, di un modo affermativo di fare critica che non indugiava sulle reali connotazioni storiche ma si librava invece sulle sollecitazioni individualiste e sulle evocazioni della memoria. Una memoria che era preda di facili intellettualizzazioni ma antiestetica nella sua essenza. In tutto ciò permaneva il senso di un arbitrio della critica da rivista d'arte, la quale d'altra parte considerava stantia e superflua l'indagine accademico universitaria intenta a rielaborare i sistemi metodologici che nel frattempo insistevano su pratica razionale, scientificità, quella stessa che Lipovetsky chiamerà in causa per la sua "era del vuoto" (1983) (6).
La difficoltà alla pratica della giovane critica di cui si è detto sopra sopraggiunge in questo sistema così concluso. Da una parte la ricerca scientifica, privata di qualsiasi sostegno di mercato, chiusa nelle sue strategie, viva solo attraverso le grandi mostre o la divulgazione in forma di dispensa elusa dalla distribuzione stampa (7). Dall'altra parte, invece, la logica della sponsorizzazione che porterà le riviste d'arte contemporanea a rappresentare un perfetto spaccato del potere economico di determinate gallerie e di determinati artisti sostenuti da queste, in palese do ut des fra sponsor e risposta critica, in cui peraltro il peso autoriale della critica era estraneo a questo scambio di favori (8). Si trattava quindi di un uso coercitivo della critica d'arte. Il duplice criterio era quello di attraversare il contesto del contemporaneo percorrendolo col sostegno evidente del mercato o di osservarlo da lontano dal chiuso dei centri di ricerca. L'istituzione difficilmente godeva dell'aereazione della novità e non poteva contraddire gli stilemi metodologici che si erano affinati alle modalità innovative solo nel codice dell'intervista e del dialogo accademico. Senza nulla voler togliere all'importanza dell'intervista come tecnica interpretativa, ovvero di aiutare la lettura dell'opera attraverso la visione personale dell'artista, un tale sistema appare già allora parecchio collaudato e rodato - sebbene poi sia stato continuamente riconfezionato anche per una ipermodenità curatoriale come nel caso dell'emblematico caso di Obrist (9). Ma naturalmente una cosa è praticare la critica d'arte attraverso la tecnica dell'intervista e altra cosa è realizzare un'intervista da rotocalco mondano, che potrebbe semmai rappresentare il materiale per una successiva revisione critica (10). Si tratta comunque di un modello di indagine che anche negli anni Ottanta procede sintomaticamente a ridosso del sistema della riviste d'arte contemporanea, e sfogliandole non può eludersi la constatazione che senza il materiale vivo delle interviste in molti casi questi contenitori erano semplicemente dei volumi di pubblicità e di poche informazioni altre.
Nel frattempo anche l'editoria sembrava essersi accorta che la testualità critica non aveva granché successo. Nella stragrande maggioranza dei casi gli editori iniziano a depennare dalle proprie stampe quei volumi che incarnano una visione particolarmente "critica", intendendo con questo termine una sorta di sinonimo di "insignificante" (11). Tuttavia il muro istituzione-commerciale implicava anche l'impossibilità di movimentare quel sistema ingessato nelle sue dinamiche.
La formazione e la verifica delle nuove individualità critiche si realizzava all'interno delle istituzioni estremamente rigide nel concedere libertà di ricerca; dall'altro lato quella parvenza di autonomia passibile di un discreto successo critico prodotta dal libero mercato e dalle riviste riportava in essere un quesito che era sostanzialmente lo stesso operato dal controllo istituzionale, ma con giudici diversi (12).
L'insofferenza verso le modalità di selezione e un vissuto all'interno di un'estetica giovanile fra moda e musica, unitamente alla cultura delle riviste di comics politicizzate come Frigidaire, sono i parametri caratteristici delle nuove generazioni critiche formatesi negli anni Ottanta alla ricerca di una propria identità. Poiché i centri di ricerca risultano essere occupati da pedanti burocrati spesso affaccendati dall'annoso mestiere dell'appropriazionismo accademico e poiché nel libero mercato della critica si è confinati nel limbo delle recensioni le cui gratificazioni sono esclusiva riscossione dell'editore, a questa generazione non rimane che cercare un campo d'azione direttamente nell'alveo della creatività e dello spazio espositivo.
Costoro ritrovavano le molteplici strade verso il sociale sbarrate da accademia e mercato e così decidevano di rispondere in proprio riannodando le tematiche underground del post punk, della musica dark, del graffitismo metropolitano, dell'impegno politico, pubblicando in proprio e attraverso le proprie mostre. Si trattava in ultima analisi di sublimare l'insoddisfazione verso il giudizio praticato nei propri riguardi da parte delle istituzioni e dal sistema di mercato assumendo in prima persona il controllo dell'esibizione e della stampa. Non era un concetto nuovo, d'altra parte da Fénéon in poi chiunque abbia avuto un'idea personale e non abbia trovato il terreno adatto per poterla condividere attraverso un mezzo altrui ha sempre deciso di autoprodurre (13). Lo hanno fatto le avanguardie, i surrealisti, gli artisti Fluxus, i Situazionisti, non c'era in tutto ciò nulla di particolarmente innovativo ma avveniva in un momento che innovativo lo era davvero.
Nella prima parte degli anni Ottanta la diffusione dei primi computer accelera la produzione testuale, ma gli effetti di questa novità sulle prime rimane confinata esclusivamente nella tecnica dell'inserimento testi. Da questo al copia/incolla e dalle stampanti ad aghi alle prime laser jet si dovrà aspettare un altro mezzo decennio, ma il trasferimento di una parte della fotocomposizione dalla stamperia allo studio domestico stava avvenendo tumultuosamente e la forma delle prime pubblicazioni, in struttura tipicamente da fanzine xerox copiate, inizia a trasformarsi in qualcosa di graficamente più complesso. Di fatto il Macintosh 128K lanciato nel 1984, completato nel 1985 dalla prima stampante laser per il grande pubblico, sembrava creato appositamente per avviare uno studio artistico critico. Con il Mac e la relativa stampante si poteva realmente creare una rivista senza alcun aiuto esterno, consegnando alla stamperia le matrici pronte per la fotocomposizione definitiva. Era una tecnologia ancora non alla portata di chiunque anche per i suoi costi, basti pensare che l'accoppiata Mac e laser printing superava il prezzo di una piccola utilitaria di buona qualità. Ma il Mac si coniugava perfettamente con la richiesta di maggiore libertà da parte di quella generazione che intendeva emanciparsi dalla gerarchia che condizionava il sistema dell'arte.
Fra i due livelli, che negli anni si erano cristallizzati in critica istituzionale e critica del sistema dell'arte, la giovane critica d'arte emersa a ridosso di quel passaggio emblematico fra analogico e digitale sceglie una terza via, quella dell'indipendenza. Si tratta di un territorio creativo che ha alcune caratteristiche costanti, quella di scegliere l'autoproduzione in stile fanzine postpunk e di proporsi come gruppo d'aggregazione post accademico universitario. Uno degli esempi anticipatori di questo passaggio che poi sarà emblematico nei primi anni '90 può ricondursi alla storia di Sottotraccia, rivista d'arte nata a Roma in modello di autoproduzione artistico-critica fra laureati dell'Accademia di Belle Arti e dell'Università in un sintomatico superamento di quella separazione tipica fra le due inclinazioni artistiche, quella pratica e quella storico critica. La mediazione fra pratica artistica e interpretazione storico critica si rifletteva anche nella coordinazione fra influssi istituzionali e altri derivati dal libero sistema dell'arte contemporanea. Esemplare in questo senso è quindi la realizzazione nel 1985 della rivista Sottotraccia curata da Marco Jannuzzi e che avrebbe dato vita ad uno degli esperimenti maggiormente indicativi delle tendenze ancora in divenire. Si trattava di una rivista indipendente sia dagli studi accademici e anche dalle mutuazioni commerciali delle riviste più note. Assumeva al suo interno la volontà di coordinare le voci propulsive della generazione giovane coadiuvando critica e arte in modalità sincronica e producendo le sinergie affinché queste funzionassero propositivamente. L'esperimento di Sottotraccia che nel suo iniziale avvio ha come redattori oltre Marco Jannuzzi, Lorenzo Mango e Alessandro Giancola, si proponeva in autoproduzione grazie al sostegno degli artisti che ne sostenevano il disegno. Le donazioni di opere di artisti come Domenico Bianchi, Gianni Dessì, Jannis Kounellis, Luciano Fabro, inducevano a realizzare un nuovo modello di autonomia critico artistica che potesse scavalcare il muro di quell'ufficialità, sia istituzionale che sistemica di mercato, che pareva impedire il ricambio generazionale. Non diversamente e in autoproduzione nel 1989 nasce Tiracorrendo, concepita da artisti formati a Brera dalla scuola di Luciano Fabro e riuniti nella sede di Via Lazzaro Palazzi con la partecipazione iniziale di Mario Airò, Enzo Buonaguro, Matteo Donati, Stefano Dugnani, Giuseppina Mele, Bernhard Rüdiger, Adriano Trovato (14).
Da una parte quindi la rinnovata energia prodotta dalle nuove tecnologie e dall'altra l'autoproduzione che riassumeva l'energia della fanzine musicale in stile punk e la riposizionava su un elevato coefficiente di stilema grafico grazie alle nuove tecnologie. Questo gioco di rimandi fra alto basso della cultura giovanile rimarrà molto evidente nelle riviste d'arte dei primi anni '90 in Europa, come in Documents, Purple Prose e Blocnotes a Parigi, Virus a Milano, Below Paper a Berlino, Opening a Roma.
Momenti non accessori di quel cambiamento che determina l'identità di una nuova generazione, il privilegio esclusivo di gestire l'atelier come una galleria vintage e lo studio critico come una fonte editoriale in cui si producono inizialmente con un copia-incolla analogico le nuove identità grafiche che saranno poi caratteristiche dei primi anni '90 digitali (15).
Sebbene non sia esattamente il primo caso di rivista del nuovo decennio sarà però il n.0 di Documents sur l'art contemporaine a chiarire filologicamente il portato di quella mutazione genetica della critica a ridosso della nuova generazione artistica. Il numero zero di Documents diretta da Bourriaud ha in redazione Obrist, Gillick, Troncy, Ergino, Legros. Si apre con una citazione cinematografica di Godard come una sorta di manifesto "Il faut confronter les idées vagues à des images claires". Il secondo articolo è non a caso dedicato all'estetica punk, firmato da Eric Troncy; il tutto riunito sotto un titolo generico che è la domanda cui tutti avrebbero voluto rispondere ma che non concedeva risposte, "che cos'è l'arte?" Forse, scrive nel suo fondo Bourriaud, ci si dovrebbe soffermare a considerare l'arte nella sua essenza e vedere la sua ideologia come un semplice stilema applicato, piuttosto che partire da questo (16). Non si tratta di un discorso aleatorio, il tema dell'ideologia rimaneva ancora dominante sia pure nell'intima convinzione della sua inesorabile inspiegabilità, ciò che in altro modo dimostrava anche la caduta di significato dell'opera, o per dirla con i termini di Baudrillard, la sua sparizione. Documents introduce il caos nella querelle e ne offre un dominio ancora aperto al senso dell'interpretazione, quell'idioma particolare della critica d'arte che gli anni postmoderni avevano quasi del tutto azzerato usando la crisi dell'ideologia come vuoto fondante. Ci si separa dal sotterraneo senso di spoliazione determinato dalla percezione d'essere una generazione schiacciata dal peso di quei padri così ingombranti e assai determinati a non cedere neanche una parvenza di quel potere, che si poteva identificare con la processualità postmoderna. Aver spostato i termini della questione attraverso un atto di chiarificazione e di autorevole determinazione è un fremito di riscossa per tutta la giovane critica d'arte e in particolare quella formatasi su un territorio europeo, considerato come luogo espanso di sperimentazione culturale, all'interno del quale apparivano obsolete le differenze storicistiche e locali. Era una nuova risposta della critica artistica che unificava le risorse prodotte nelle accademie e negli istituti storici da Vienna a Berlino, da Parigi a Madrid e Milano, Londra e Roma, di quella generazione che negli anni Ottanta si era vista allontanare dai centri del potere su cui dominavano imperituri quei generi ancora deviati dal sistema processuale, concettualizzato e riposizionato al centro del potere discorsivo.
Naturalmente il centro determinante era la Parigi alla fine degli anni Ottanta, lì dove la politica dei Frac aveva garantito l'esistenza di una moltitudine di giovani artisti e di altri più teorici formatisi privi di quei paraocchi che tendono a delimitare i campi d'azione fra critica e arte, proprio lì dove era più evidente la distanza fra la critica e la storiografia. Nelle complesse vicende della critica in questione, ringiovanita anche dal suo essere in qualche modo periferica, è significativo osservarne la distanza rispetto al potere esibito da quella "tradizione del nuovo" di Rosenberg, che alla fine del decennio appare al confronto in tutto il suo mutismo totalitario e venatamente arrogante.
A ciò si contrappone quindi la mediazione, termine inusuale all'epoca, ma che dà origine a quella intermediazione culturale fra istituzione e libero mercato, fra generi e pratiche, ibridandoli e ricostruendoli in modalità che a prima vista apparivano prive di senso poiché nate dalla decostruzione di altre già istituite e storicizzate come topoi insuperabili. Sarà quindi un'attrazione/avversione verso quei padri "processuali", posizionati su un crinale ieratico che favorirà l'agglutinarsi della Milano giovane nelle scritture scabre e surreali di Tiracorrendo, mentre il mediale diventava anche una possibile lettura stilistica, circondata dalla cura critica decostruzionista, che era già di per sé il segno dell'esasperazione affermativa di una letteratura artistica "incomprensibile" ma dedita al compito fiduciario (17). Su questo si costruisce anche il tentativo di ricollocare il territorio della creatività fraintendendo nel termine "medialismo" la tecnica piuttosto che non la mediazione che sarà infatti il tema dominante del decennio, come denuncia nel suo intervento su Documents n. 0 Peter Fend (18). Di fatto l'uso intensivo della tecnologia da lì a poco avrebbe trasformato gallerie e prodotti ma ciò verso cui si tendeva era la collocazione dell'arte al di là della pura estensione fotografica della tecnica. La mediazione come strumento per operare nei laboratori, nelle esposizioni, nelle tecniche, ovvero quel patrimonio tipicizzato di una generazione che non poteva cristallizzarsi in una singola strategia ma ne costruiva altre ibridandole.
Si era costruita una generazione fondata sull'appartenenza al caos dove meditare sui calcoli strategici in termini teorici poteva sembrare un inutile esercizio stilistico. Confondere il termine "mediale" in cristalli di tecnologia conduceva al bivio di un tecnicismo algido e al conseguente contrappasso ibridato. Nella Parigi inizio anni '90 lo si vede bene nelle tendenze ad organizzare teoria e pratica all'interno di un unico ambito concettualizzato, insofferente verso le dispersioni esistenzialiste che del postmoderno avevano sottolineato il disfacimento quando non il piacere decadente di un'immagine come puro estetismo.
Documents quindi organizza un nuovo nucleo identitario, da cui trarranno forza le sperimentazioni mediali, in cui coesistono nuove tecnologie e nuove mediazioni fra le differenze. Si apriranno attraverso Gillick le nuove dinamiche londinesi che porteranno a Frieze e al successo della giovane arte britannica. A Berlino che iniziava ad assumere un ruolo rinnovato dalla sua riunificazione cresce la popolazone artistica e, anche con punte di estremismo irriducibile, diviene il luogo di maggior evidenza del mix teorico creativo che sarà alla base del linguaggio artistico dei decenni a venire e che si palesa in particolare attraverso Below Paper di Thomas Wülffen e Dellbrügge/De Moll.
A Parigi subito dopo Documents appare Blocnotes, rivista d'artista e d'arte, forse ancora oggi il più nitido esempio di come possa essere realizzato uno strumento d'arte che viva storia, critica e pratica, con l'occhio disincantato dello sperimentatore. Stupisce ancora rileggere le sue pagine così dense e preveggenti di ciò che sarebbe successo da lì a poco. Dall'impatto grafico così Apple e allo stesso tempo così vicino ad uno stato di consapevolezza naturalista molto simile alle prime pubblicazioni italiane del Medialismo (1991) e alla grafica di Sottotraccia/Opening, sino alle riletture di personaggi che adesso riteniamo chiave e che il decennio '80 aveva marginalizzato, quali Broodthaers, Les Levine, Chris Burden, Hannah Wilke (19). La scrittura chiara e mai involuta era un segnale metodologico e contrastava con l'oscura, fitta supponenza di quei trattati pseudo istituzionali che erano diventati essenziali nella logica delle riviste di un certo tono. E d'altra parte sebbene ci si interessasse di mostre e di allestimenti ciò che sembrava maggiormente rilevante non era dover spremere il succo di contenuti elegiaci ma raccontare esattamente ciò che stava succedendo, il farsi della mostra attraverso l'uso di numeri tematici, "laboratori d'arte", "economia e sistema dell'arte", "strategia d'esposizione", "discrepanze e sfasature", "campi d'utopie". E non stupisce che il trauma, quasi il senso della fine di Blocnotes avvenga nel 1995 alla morte improvvisa e violenta della giovane artista Sylvia Bossu e di Eric Colliard, cofondatore quest'ultimo negli anni '80 con Xavier Doroux ed Eric Troncy del Consortium di Dijon, nucleo di formazione della giovane arte emergente. Il Consortium era stato uno dei luoghi chiave di questa generazione di artisti e teorici, era stato anche lo spazio in cui alcune fra le più interessanti innovazioni in ambito curatoriale erano state intellettualizzate e rese logiche. In particolare l'idea di Colliard di intendere la cura come luogo della critica e l'esposizione come spazio creativo collettivo, concettualizzazione curatoriale che coniugava le ipotesi di Ammann con la teorica di Kuspit rinnovate da un senso laboratoriale collettivo, da cui derivava un'idea di mostra intesa come installazione creativa dovuta all'esercizio di una mediazione comune (20).
La nascita di Documents segna dunque l'inizio di un capitolo fondamentale per la critica d'arte della "generazione giovane" e non si tratta di un episodio isolato, emerso casualmente. Di fatto nel 1992 sono tre le riviste giovani che si affacciano in Francia sulla scena emergente. La terza, dopo Documents e Blocnotes è la più estremista, Purple Prose, ma è per l'appunto il suo essere quasi borderline che ne costituisce il valore di snodo critico e di identità. Sia nella grafica che nei contenuti Purple Prose diretta da Elein Fleiss, e redatta da Olivier Zahm, evidenzia in modo lampante i tratti caratteristici di queste innovazioni costituite sia dalla tecnologia che dalla mediazione di contesti. Purple Prose era evidentemente affine al tratto della fanzine punk rock, ma lo era usando una grafica asciutta, mai slabbrata. Si intuiva anche in questo caso che la radice grafica era costituita da un supporto Apple, giocava sui caratteri mutanti di Zuzana Licko e sulle icone da tastiera, corrispondeva esattamente a quel contesto di appartenenza aliena che era nel respiro di una generazione ancora incompiuta e su questo territorio descriveva le trasformazioni. Purple Prose non voleva essere una rivista d'arte, semmai era il tracciato di un esistere dentro un coefficiente artistico privo di contorni predeterminati e proprio l'assunzione di quel tipo di grafica costituiva il modo più esplicito per affermare questa volontaria indeterminatezza. Trattava di musica, letteratura, scena, operando una selezione in base alla possibilità di coesistenza estetica dei contenuti proposti. Elein Fleiss dopo l'esperienza di Purple Prose continuerà la sua carriera di militanza nomade fra i generi artistici e fra moda, film, azioni teatrali, assumendo un profilo d'artista intellettuale inclassificabile, Zahm accentuerà i suoi tratti post punk d'un avanguardismo modaiolo. Purple Prose sarà però anch'essa una splendida officina di un linguaggio critico artistico che aveva "osato" bypassare il sistema del contemporaneo, ignorando le cortine di sicurezza dell'istituzione e del libero mercato, costruendo una terza via dell'interpretazione operata con un linguaggio attento alle emergenze pop e funzionale ad indicare percorsi esistenziali.
Blocnotes inaugura le sue pubblicazioni nel '92 con un primo numero dedicato alle strategie espositive. Non si tratta di un caso, da un paio di anni l'idea che il problema curatoriale fosse la chiave per superare l'incidentale ostruzione del passato si era diffusa fra i più giovani. Nel '90 una serie di incontri sul tema delle relazioni fra visuale e testuale in particolare attraverso le letture di Obrist e di Colliard, avevano reso palpabile che il punto di coincidenza fra azione curatoriale, esposizione critica e pratica artistica fosse proprio nella teoria espositiva, nella mediazione curatoriale, nel nomadismo interpretativo. Era la soluzione per il superamento del muro processuale e del suo ordito successivamente coadiuvato dal postmodernismo. Le strategie curatoriali avrebbero dovuto superare il problema di mediazione fra istituzione e militanza del libero mercato nella costituzione di un organismo più flessibile e armonizzato con la nuova realtà fuida del contemporaneo. Una realtà che avrebbe dovuto rivedere geografia e storia, nella speculare connotazione europeista, macroterritoriale, che viveva la Parigi di quegli anni, consapevole del suo ruolo e incline a pensarne le prospettive ulteriori fra Berlino, Londra e Milano. Anche Blocnotes manifestava la sua derivazione grafica da un sistema Apple, usava caratteri mutanti, mostrava un impaginato limpido, sebbene poco agevole per la rilegatura in formato Notes, che infatti sarà abbandonata dopo i primi numeri pubblicati. Sullo stesso tenore è la composizione grafico editoriale della rivista berlinese Below Paper nata nel 1993 e anche questa realizzata attraverso la collaborazione fra il duo artistico Dellbrügge / De Moll e Thomas Wülffen, artisti i primi e critico curatore già interessato alle problematiche inerenti l'organizzazione teorica delle mostre il secondo. Semmai la differenza sostanziale fra la rivista parigina e quella berlinese era nella progettazione editoriale, piuttosto che nella connotazione degli editors. Below Paper nasceva infatti già con un progetto chiaro che si interrompe al numero 4 e manca il completamento del programma annuale che comprendeva anche un numero dedicato al Formfragen (problemi di forma) e che aveva come chiaro riferimento quello di citare il famoso saggio Stilfragen di Riegl, uno dei caposaldi della critica d'arte ma anche dell'azione artistica. Per completare un quadro massivamente europeo anche Milano nel 1993 partecipa con una rivista che è nel connubio fra critica d'arte e operativismo artistico, ovvero Virus realizzata dal sodalizio di Francesca Alfano Miglietti con l'artista Cesare Fullone. La rivista inizia le pubblicazioni nel giugno del 1993 con il numero zero che manifesta la sua vicinanza teorica e segnica con Purple Prose, sebbene in formato maxi. Si trattava anche qui di un format evoluto dalla fanzine, mixato con un'identità digitale e ingigantito col supporto colore che riportava testi visionari molto vicini all'identità mutante del post-human e alle ibridazioni dei sistemi dei segni e di pensiero: "Virus è una rivista in cui elementi di costruzioni sono le tensioni, le mutazioni generazionali, le alterità, la ribellione, l'arte, una nuova antropologia per una mutata condizione esistenziale" scrive Francesca Alfano Miglietti (FAM) auspicando un'azione di contagio che coinvolgesse teorie, costumi, opere, quindi ancora una volta una rivista che non desiderava rinchiudersi all'interno del genere artistico ma che pretendeva di usarlo per definire un'interzona metagenetica (21).
Il senso generazionale di questa mutazione critica è quindi chiaro, nasce dalla repressione delle ambizioni individuali compresse dal clima "neo-oggettuale" postmoderno i cui guardiani veicolavano con raffreddata circospezione attraverso modelli e modalità tradizionali. La risposta di questa generazione che veniva chiamata "giovane", termine che smerciava un malcelato discredito in quanto sinonimo di "piccola", "incapace di maturità", riesce quindi ad affermarsi attraverso una strategia di mediazioni, ibridazioni e miscele di sistemi e modalità precedentemente incasellati in griglie preordinate razionalmente. Ciò che ne deriva è un'estetica del caos incontrollabile e apparentemente fatuo, di cui nei primi anni '90 difficilmente si riusciva a spiegarne le ragioni o addirittura sospettandone l'equivoca inefficenza, la suppellettile caducità. Un mix di tendenze artistiche e critiche coadiuvate dal sistema espositivo e realizzativo spesso intrapreso in modo autonomo e intermediale che ha determinato l'ascesa di personaggi assai difficili da riassumere in categorie preordinate fra artista, curatore, critico, mixandone infatti più parametri e procedendo in maniera ondivaga all'interno del sistema culturale. Documents e le riviste che seguiranno erano quel mondo dell'altrove che da lì a pochi anni sarebbe diventato depositario del nuovo e del suo potere. In quei primi anni '90 la grafica eclettica che inaugurava la via del digitale era il corredo di quella generazione che avrebbe sperimentato l'arte relazionale, la new media art, il post-internet, le ibridazioni dei saperi, dimostrando che chiamiamo caos non una categoria determinata da un valore assoluto ma soltanto ciò che non riusciamo a capire e il cui linguaggio ci sembra oscuro in relazione alla sua innovazione.
20 gennaio 2021
1) Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1981, ( ed. or. La condition postmoderne, Les Edition de Minuit, Paris, 1979).
2) Interessante un recente articolo su queste tematiche, incentrato sul lascito di Filiberto Menna autorevole rappresentante della scuola salernitana di critica d'arte e ideatore della rivista Figure avvicinata con qualche forzatura ad October di Rosalind Krauss. Qui è più interessante notare il dissenso di Menna verso le pratiche postmoderne validate dalla lettura di Lyotard, in particolare riferimento all'intervento di quest'ultimo al convegno di Montecatini del 1978. Tuttavia in una lettura prospettica questo biasimo sembra definire piuttosto una cristallizzazione di determinate pratiche accademiche contro la nascita di un possibile stadio di "alterità" del nuovo, ipotesi che ha trovato nell'accademismo più padulato grandi difensori e una conseguente estraneità dalle innovazioni introdotte anche e soprattutto dalla mediazione fra strategie curatoriali e modelli interpretativi decostruttivi. Ne è conferma ancora oggi, in particolare negli ambienti accademici di lingua italiana, l'incapacità a pensare le interpretazioni curatoriali come modello di critica operativa e invece definendole blandamente come "studi curatoriali". Cfr. Maria Giovanna Mancini, «Figure» e «October»: La critica d’arte negli anni Ottanta. La resistenza del pensiero, Opera Viva, 24 agosto 2019, <https://operavivamagazine.org/la-resistenza-del-pensiero/> (visto il 23/12/2020)
3) Era quello che si chiedeva G. C. Argan nel suo Classico Anticlassico, Feltrinelli, Milano, 1984, nel momento in cui le metodologie schematizzate parlavano di "culturologia" (Barilli) e ci si chiedeva se non fosse esattamente il principio stesso del modernismo a dover essere rielaborato. Cfr. Marshall Berman, L'esperienza della modernità, ed. it. Il Mulino, Bologna 1985 (ed. or. All that is Solid Melts into Air. The Experience of Modernity, Simon and Shuster, New York 1982). Sullo sfondo rimane comunque l'idea di aver tradotto l'ipotesi del nuovo in una categoria stilistica. Cfr. Harold Rosenberg, La tradizione del nuovo, trad, it. Feltrinelli, Milano, 1964, (ed. or. The Tradition of the New, Horizon Press Inc. New York 1959).
4) Howard S. Becker, I mondi dell'arte, trad. it. Il Mulino, Bologna, 2004, (ed. or. Art Worlds, California University Press, Berkeley, LA, CA 1982); Peter Uwe Hohendahl, The Institution of Criticism, Cornell University Press, Ithaca, 1982; Hal Foster (edit by), The Anti Aesthetic. Essays on Postmodern Culture, Bay Press, Washington, Port Townsend, 1983.
5) James Eltkin, What Happened to Art Criticism, Prickly Paradigm Press, Chicago Ill, 2003; si veda in particolare il cap I, "Art Criticism: Writing Without Readers", pagg. 4 – 18.
6) Gilles Lipovetsky, L'era del vuoto, Luni editrice, Milano 1995 (ed. or. L'ère du vide, Editions Gallimard, Parigi, 1983).
7) Osservando la scena artistica di quegli anni '80 postmoderni appare evidente che la spinta propulsiva all'interpretazione sia avvenuta attraverso le grandi mostre come Les Immateriaux di J.F. Lyotar e T. Chaput (Paris, 1985 ), Chambres d'amis di Jan Hoet (Ghent, 1986), Magiciens de la terre, J. H. Martin (Parsi, 1989).
8) James Elkins e Michael Newman, The State of Art Criticism, Routledge, New York, London, 2008.
9) Ci si riferisce alle interviste di Hans-Ulrich Obrist pubblicate nelle Conversation Series, da Walther König, Köln dal 2007 al 2013.
10) Qui basti pensare al testo di Carla Lonzi; Autoritratto, Bari, De Donato, 1969. Cfr. L'articolo di Valeria Venditti, Carla Lonzi. L'arte della vita, recensione del recente testo omonimo di Giovanna Zapperi in <https://www.doppiozero.com/materiali/carla-lonzi-unarte-della-vita> (visto il 9 - 01 -2021)
11) La crisi del libro di critica d'arte assume negli anni '80 una connotazione abbastanza evidente causata dalla concentrazione dell'editoria in pochi grandi gruppi proiettati sulle produzioni di testi divulgativi o di narrativa di consumo tralasciando dai loro cataloghi testi più impegnativi e ristampe di quelli precedentemente pubblicati. Un fenomeno che gli studiosi conoscono bene quando cercano di rintracciare testi che sono considerati dei classici della letteratura artistica e che sono disponibili solo nel mercato dell'usato.
12) Sulla trasformazione del sapere determinato dal nuovo potere tecnologico cfr. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, op. cit. Sul discredito nei confronti delle nuove generazioni si veda il commento di uno dei maggiori protagonisti e fra i più potenti talent scout della critica italiana anni '80, Giancarlo Politi, "Lo stato della critica", in Flash Art, n. 162, pag. 157, Politi Editore, Milano, 1991. In questo articolo che ha come sottotitolo "Identikit del critico d'arte vecchio e nuovo nell'era della sua intercambiabilità", l'editore Giancarlo Politi identifica con se stesso il ruolo di critico manifestando un malcelato disappunto nei confronti dell'esercizio critico quando non coadiuvato da un altrettanto evidente spirito imprenditoriale che egli attribuisce in Italia ai soli Celant e Bonito Oliva (oltre che se stesso). Naturalmente, aggiunge Politi, la critica d'arte che voglia realmente contare oggi deve intraprendere il cammino all'interno della realtà (postmoderna, n.d.r.) comminando il ruolo intellettuale con quello imprenditoriale. Una simile interpretazione, nella cancellazione di tutta quella generazione che aveva sostenuto la stessa rivista Flash Art nel decennio precedente, era comunque indicativa del blocco garantista determinato nel sistema dell'arte nel libero mercato, paragonabile per chiusura e inscalfibilità al mondo accademico universitario chiuso a qualsiasi innovazione tematica che fosse al di fuori delle maglie di post visibilismo e iconologia. Si tratta di un intervento del direttore di Flash Art che conclude una lunga parentesi di continua slabbratura nei confronti del valore della critica iniziata già nel 1985 con l'articolo "Della debolezza della critica" firmato da Giulio Alessandri, in Flash Art, n. 129, Politi Editore, Milano, 1985, pag. 29.
13) Felix Fénéon (1861 - 1944), critico, editore indipendente, rimasto un po' in ombra sino al 1945, anno in cui Jean Paulhan direttore della NRF gli dedica un libro, ritorna attuale nei primi anni '90 come antecedente di autonomia artistica, ideatore della Revue indépendante e sostenitore del neo-impressionismo di Seurat e Signac.
14) Tiracorrendo, trimestrale d'arte (poi semestrale), direttore Adriano Trovato, redattori M. Airò, E. Buonaguro, M. Donati, S. Dugnani, G. Mele, B. Rüdiger, L. Moro, M. Uberti, stampa Tiemme, Milano, 1989 – 1993.
15) Documents, sur l'art contemporain, direttore Nicolas Bourriaud, redazione di N. Ergino, L. Gillick, H. Legros, H. U. Obrist, E. Troncy, SARL, Paris Art Conseil Editions, 1992-1997 . Blocnotes, direttore Frank Perrin, redazione A. Leturque, F.C. Prodhon, J. Sans, Editeur: daily museum, Paris, 1992 - 1999; Purple Prose, direttrice Elein Fleiss, redazione O. Zahm, D. Gonzalez-Foester, B. Joisten, J.L. Vilmouth, B. Weil, Association Belle Heleine, Paris, 1992 - 1995; Virus, direttrice Francesca Alfano Miglietti, redazione Cesare Fullone, Teresa Macrì, ed. Virus, Milano, 1993-1997, poi Virus Mutations 1997 - 2001; Below Paper, direttore Tomas Wülffen, redazione Dellbrügge/De moll, ed. Below Papers, Berlin 1993.
Sulla Parigi dei primi anni '90 cfr. anche Patrice Joly, "Que sont mes revues devenues ?", in 02, http://www.zerodeux.fr/essais/14432/ (visto il 10, 01, 2021)
16) Documents, n. 0, op. cit., pagg. 18 – 21.
17) La stretta relazione fra Parigi e Milano in quel primo anticipo di anni '90 risulta anche in Tiracorrendo. Nel numero 1, V anno, giugno 1993, Adriano Trovato, pubblica il testo dal titolo "Che cos'è l'arte", ricomponendo la domanda posta da Documents pochi mesi prima (Documents, op. cit. 1992); Liliana Moro e Bernard Rüdiger partecipano al n. 2, di Blocnotes (epidemic), 1993. Sempre su Blocnotes appaiono Vitone, Tozzi, Supplemento, artisti riuniti dall'etichetta "Medialismo".
18) Peter Fend, "Une enquete de l'animal homme sur son milieu material", in Documents n. 0, op. cit., pag. 30.
19) Cfr. Medialismo, cat. mostra a cura di Gabriele Perretta, ed. Paolo Vitolo, Roma, 1991. Sottotraccia/Opening (I serie), ed. Sottotraccia, Roma 1985-1993. Opening (II serie) ed. Sottotraccia, Roma, 1993 – 1998. Cfr. Giulio Ciavoliello, Dagli anni '80 in poi. Il mondo dell'arte contemporanea in Italia, Artshow edizioni-Juliet editrice, Milano – Trieste, 2005.
20) Eric Colliard, "L'exposition comme écriture", conferenza del 17 settembre 1992 presso l'Hotel des arts, Fondation nationale des arts, Paris, nell'ambito degli incontri per l'esposizioe Génériques, le visuel & l'écrit, a cura di Nadine Descendre. Una delle caratteristiche generiche della giovane critica anni '90 era nella mediazione fra modelli curatoriali e critici, dedotti da Szeemann attraverso il lavoro di Jean-Christov Amman; la mostra come strumento critico, e quelli della critica creativa post concettuale con i suoi modelli psicoanalitici e pragmatici e in particolare dedotti dalla lettura di Donal Kuspit, The Critic is Artist: the Intentionality of Art, Bowker, Epping, 1984.
21)  Francesca Alfano Miglietti, "Virus:", in Virus n. 0, op. cit., pag. 3.