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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

L’arte per la fotografia nell’Italia degli anni Trenta

Maria Ida Catalano
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Pagina bianca, tela vuota, parete nuda sono – secondo le parole di Valentina Parisi (1) - cellule germinali di nuovi mondi possibili: i mondi della modernità. Rappresentano dimensioni produttive per l’esperienza estetica e, nel corso dei primi decenni del Novecento, appaiono luoghi frequentati da pensieri di poeti ed artisti. Territori antinaturalistici per elezione, sono superfici e spazi che offrono alla mente la massima apertura (2). Mostrano confini mobili ed illimitati, eppure disposti al riempimento, carichi di un potenziale che potrà anche azzerarsi in valori estremi di assoluta autoreferenzialità. Dentro quei vuoti, quelle superfici assolute, il secolo breve fonderà i suoi ritmi secondo nuove misure astratte, scandite pure da segni ed intervalli che, scrive Celant, hanno divorato nel tempo «la cornice, il muro, l’ambiente e l’architettura», costituendo «l’universo del discorso allestitivo» (3). Un universo divaricato tra i due estremi della contemplazione (la cosiddetta età «del silenzio e della de materializzazione») e della reazione provocata dalla violenza, dai bagliori o dalle tenebre di una esplosione di segni ed immagini (4). Nel corso degli anni Trenta, anche in Italia, tali estremi verranno attraversati nella pluralità linguistica del campo espositivo, luogo privilegiato di una sperimentazione visiva e progettuale che, nella tendenza all’ esercizio trasversale (5), rinvierà al cinema (6), così come si rivelerà snodo aggregante per la fotografia. La cultura italiana dell’allestimento si combinerà infatti con le infinite strade della nuova estetica fotografica, dove la ripresa dell’arte - l’arte per la fotografia (Benjamin) - intercetterà i cambiamenti storiografici in atto. La nascita di un modo nuovo di conoscere e di guardare spingerà a presentare, nel corso del decennio, sia l’opera che la sua immagine come nude, prive cioè di qualsiasi alone o forma di ornato tradizionali, sensibili a quelle estreme «assenze», ribaltabili in forme di «presenze» (oggettuali, oniriche o metafisiche) volte alla congestione di una provocante continuità ottica (7).
Nel segno di un cambiamento radicale, che intendeva riconsiderare l’arte antica e moderna col superamento della visione documentarista ed archeologica di matrice ottocentesca, in Italia, i nuovi linguaggi subiranno l’ondata critica incentrata sul giudizio di valore e influenzata dal pensiero di Croce, mentre, la nozione di arte come fenomeno vivente veniva a galla nell’alternativa della prospettiva fenomenologica del pensiero di Antonio Banfi (8). Intrecciate con queste coordinate teoriche e critiche assimilate dai protagonisti del Movimento Moderno, nelle pause calibrate di una nuova sintassi di reticoli (9) o nel sovrapporsi incalzante di linee trasversali, quando era attiva una componente futurista, nel vuoto o nel pieno spaziale, architettonico e tipografico, la parete e la pagina troveranno con la nuova estetica fotografica un elemento linguistico di congiunzione e rinvio. Si trattava di una fotografia appunto «critica», «vivente», scriverà Edoardo Persico, capace di veicolare uno «stato reale di momenti fantastici» (10), nitida perché antiretorica ed anti illustrativa, in dialogo con una progettualità in fermento durante tutto l’intenso lavorio del decennio. Nella teoria della fotografia e del cinema europei, già dagli anni Venti, il problema della visione, la «coscienza ottica», erano divenuti un vero e proprio topos (11), determinando forti cambiamenti di rotta sul fronte epistemologico e scatenando un ampio dibattito, che coinvolgerà storici, artisti, teorici e storici dell’arte (12), questi ultimi implicati pure nel confronto con l’ ampliamento visivo prodotto dalla radiografia applicata all’opera d’arte introdotta dal 1914 a Weimar, Francoforte, Amsterdam, Parigi, Vienna e poi diffusa anche in Italia, soprattutto dopo il 1930 (13). La stessa radiografia, di cui oltreoceano si discuteva la valenza estetica (14), aveva interagito con la fotografia nella grande mostra internazionale di Stoccarda del ’29, Film und Foto, attraverso l’immagine di uno scheletro umano di dimensioni naturali situata nella prima sala curata da Moholy Nagy, che presentava i diversi generi e le più svariate tecniche di ripresa contemporanei (15). Ma la fotografia, tra le molteplici strade dei nuovi percorsi europei, sarebbe servita pure alle strategie conoscitive di Aby Warburg incentrate su quelle famose immagini appuntate provvisoriamente su pannello ed esposte nella sua biblioteca ad Amburgo. Qui, la dimensione del provvisorio teneva aperto il gioco di un sapere esplorato visivamente, percorrendo il tempo dall’età sumerica fino alla contemporanea ed attraversando lo spazio della stessa Europa, del Mediterraneo e delle altre culture d’ oltre oceano. Le inquadrature, i margini neri, gli spazi disuguali, che circondavano la presentazione delle immagini fotografiche, sono state oggetto delle riflessioni di Monica Centanni (16). Sotto il profilo grafico, l’insolita esposizione, cui corrispondeva la stessa concezione dell’Atlante, dimostrava – scrive la studiosa - «come il processo critico si rivela del tutto refrattario ad una scrittura continua». Così, sempre secondo le parole della Centanni, sarà «la calcolata separazione di un elemento dall’ altro» a costituire la strategia retorica in cui «al periodare armonico costruito su rapporti gerarchici di ipotassi» subentrava «l’attenzione al bordo, alla faglia critica», dove ogni caso rivelava la sua specifica zona di segretezza, in una sorta di negoziazione delle immagini rispetto alle proprie dimensioni e alla calcolata distanza dalle altre. Il lessico adottato da Warburg, per quanto disinteressato ad ogni valenza estetica espositiva e tutto teso alla costruzione della sua singolare mappatura, era comunque quello di un allestimento, dove il posizionamento delle immagini e il ritmo degli intervalli svolgevano di volta in volta, grazie alla mobilità delle fotografie, una funzione diversa. E se nell’ affollamento figurativo Warburg appariva seguire una modalità ormai desueta, l’idea tutta moderna del montaggio con la sua produttiva indeterminazione finiva col sovvertire dall’interno ogni linguaggio tradizionale. Il vuoto della storia, quel vacuum carico di energia, scrive la Centanni, affine alle tante altre forme di assenza che il Novecento proponeva, mostrava allora il suo segno, per dare spazio anche qui alla forza del pensiero, alla possibilità di costruire nessi fino ad allora impensabili per l’ancora giovane disciplina della storia dell’arte.
Aggiornata sugli esiti dell’avanguardia europea (17), per il tema della ripresa dell’arte l’Italia cercava una sua strada. Nel paese, lungo il quarto decennio del secolo, con l’abolizione dei margini nella stampa e la privazione della cornice o del passepartout negli allestimenti, con le scomposizioni e i dettagli ingranditi che consentiranno inedite ispezioni visive, la fotografia verrà presto a stimolare nuove unità interpretative. La cornice che, raccordando ma anche separando, aveva contribuito a sacralizzare l’opera nella sua preziosa lontananza, veniva ora sostituita da nuove forme di prossimità, per i dipinti come per le immagini fotografiche. Nella cultura del progetto, nel design, negli spazi delle pareti degli allestimenti, nelle forme della pubblicità, nelle pagine delle riviste e dei rotocalchi, nei primi documentari, la fotografia italiana coinvolgerà l’immagine dell’arte nell’ ampia pluralità linguistica di codici e materiali messi in gioco. Ricerche quali le sperimentazioni del Bauhaus saranno piegate al confronto con l’arcaico, il mitologico (18), l’Antico, il Medioevo e il Rinascimento fino a Michelangelo – marginale restava il Barocco - in una rilettura dell’immenso patrimonio artistico nazionale comprensiva della contemporaneità ed in relazione con le pervasive istanze propagandistiche del regime. La nuova visione multi prospettica in corso sul fronte architettonico era alimentata dall’ intrinseca mobilità della fotografia. Una mobilità che incrociava la natura dell’editoria libraria e della stampa periodica, come la dimensione effimera degli allestimenti. E non è un caso allora se Pagano vorrà progettare nel ’39, in funzione delle mostre ed in occasione di un’esposizione di libri, strutture modulari smontabili, prototipi replicabili in diversi contesti (19) secondo esigenze itineranti che per la fotografia si erano rivelate attuali già nelle pionieristiche esposizioni di Essen e di Stoccarda del ’29 (20). L’ architetto istriano aveva concepito mobili, ripiani e vetrinette per la presentazione di stampe, illustrazioni, pagine e fotografie (Fig. 1). L’insieme era stato realizzato dall’Impresa Teatrale Ponti, azienda italiana di allestimenti attiva per Fiat, Pirelli, Snia Viscosa. D’altronde, i cambiamenti in corso coinvolgevano pure il fronte della produzione editoriale compreso quella specialistica e, dentro «Le Arti», sarebbero emersi gli esiti delle trasformazioni del decennio nelle fotografie dello stesso Giuseppe Pagano, che aveva ripreso la Pietà di Palestrina con punti di vista dal basso o dall’ alto, scorci audacissimi (Fig. 2) ed ingrandimenti di dettagli ravvicinati, dove il dato materico delle superfici marmoree era esaltato fino all’ astrazione (21). Un contributo al cambio di prospettiva era fornito da rotocalchi e pubblicità, nonché da riviste sperimentali di estetica e tecnica tipografica come «Campo grafico» e da periodici di regime quali «L’Ala d’Italia». Le immagini dell’arte, nei diversi contesti - professionali ed artistici, pubblicitari e propagandistici - erano prima comparse come frammento estrapolato e citato nella struttura anti estetica e sovversiva di fotomontaggi e collage (22). Di qui si era aperto un vero e proprio processo di demistificazione, dove veniva incrinata ogni immagine tradizionale del patrimonio artistico italiano. Ne è un esempio Vinicio Paladini, che nel ‘27 poteva inficiare col suo Luna Park traumatico (Fig. 3) la struttura prospettica di uno scomparto del polittico Quartesi di Gentile da Fabriano, oggi ai Musei Vaticani, raffigurante San Nicola che resuscita tre fanciulli messi in salamoia (23). Ma il racconto dell’arte antica poteva accompagnare anche la moda (Fig. 4), mentre forniva le proprie immagini per la pubblicità di aziende come la Snia Viscosa (Fig.5), oppure, attraverso Botticelli si trovava a celebrare l’aeronautica italiana (Fig. 6) (24). Sul fronte espositivo, intrisa di retorica fascista, segnava intanto una svolta l’orgia fotografica messa in scena nella Mostra del decennale della rivoluzione fascista (1932) che, giunta nell’ arco di un decennio alla sua terza edizione, presentava nel ‘42 tra le sue sale immagini fotografiche della guerra in corso insieme a volti ripresi dalla scultura romana antica che si confrontavano con volti contemporanei nella Sala della propaganda cinematografica (25). Della sua prima versione era stato protagonista Mario Sironi. In quello stesso giro di anni, dal ’34 al ’37, sul versante dell’antico e del moderno, nel rotocalco «La Rivista illustrata del Popolo d’Italia» (26) l’artista proponeva, accompagnata da brevi testi di commento, quanto amava definire «un’arte ignorata», presentata come mostra immaginaria, pervasiva, totale, nell’ ambizioso obbiettivo di «una revisione critica dell’arte italiana», tutta giocata sulla potenza delle immagini. In quella straordinaria documentazione cartacea (Figg.7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14), che reimpaginava foto Alinari, Anderson, Vaghi, dove interprete non era più la sola parola, la storia dell’arte veniva resa attraverso dettagli ingranditi, scorci inediti, con immagini prive di incorniciatura, stampate a piena pagina o a filo pagina su fondo bianco. Nel raffinato rapporto tra i neri e i grigi delle riproduzioni il bianco funzionava da pausa e proprio coloro che guardavano le fotografie, scriveva Sironi, confesseranno di non aver «mai avuto conoscenza o semplice notizia» di tale arte riportata come «istante alla luce della stampa». Anche qui l’istante fotografico si impadroniva quindi della tradizione e l’arte restava coinvolta in quella che Gio Ponti chiamerà l’aberrazione fotografica (27), «nostra sola realtà», conoscenza, giudizio – scriveva echeggiando le coordinate della critica crociana - con la sua «vista indipendente, autonoma, che moltiplica, isola le cose o il momento veduti … li frammenta e nel tempo stesso li fissa». Prima timido surrogato della pittura, poi documento, secondo Gio Ponti la fotografia offriva ora «una vista ulteriore: una vista astratta, mediata, composta, una vista che a nostra volta vediamo», rinvio all’ autocoscienza di quell’ «occhio che vede dentro il suo vedere» segnalata dal poeta Alfonso Gatto (28). I testi di Sironi, che accompagnavano l’inedita presentazione fotografica dell’arte italiana, trovavano un riscontro nel filo conduttore della riflessione critica dell’artista su musei e mostre, muovendosi, non a caso, oltre la pagina e fuori dalla parete. L’ istituzione museale suscitava infatti in Sironi pensieri antinomici, apparendogli «asilo sublime di opere tolte alla vita mortale e resuscitate al di la, in una metafisica presenza nei regni sterminati dello spirito», oppure contesto stigmatizzato nell’immagine di «promiscui sepolcreti di beneficenza», quando si trovava a definire i musei di arte moderna. Sironi in realtà vi contrapponeva i templi, i palazzi, le destinazioni architettoniche dove «l’opera d’ arte vive», scriveva. Una vita che, sottoposta ad un nuovo sguardo, poteva ora respirare e coinvolgere attraverso il rotocalco un pubblico ben diversamente ampio. Si trattava per l’artista di uscire fuori «dall’ intimismo del salotto», come dal «gelido e marmoreo silenzio delle pinacoteche», lontani dai cristalli, dai muri clinici, dalle lucidature delle contemporanee esposizioni funzionaliste contro cui in particolare si scagliava. Sironi aspirava quindi alla vita di un’arte pubblica, pervasiva sul territorio artistico italiano rispetto alle inevitabili selezioni di capolavori di quelle mostre di arte antica, pure commentate favorevolmente in relazione al suo novecentismo. Tra le pagine del rotocalco erano offerte «testimonianze tipiche e possenti», immagini «di formidabili energie», nella proposta in definitiva di un Novecento «del tre e del quattrocento», di un «mondo antico» sul quale – scriveva ancora - «queste fotografie aprono uno spiraglio luminoso». Intanto, con il volume Arte romana (1934), Edoardo Persico e Anna Maria Mazzuchelli presentavano «una storia figurata della scultura» antica, attraverso una fotografia sempre pensata come «vivente», per una tipografia italiana dalle pagine «pulite» e «nude» (29). Preceduto da pubblicità ideate da Giulia Veronesi, Francesco Carnelutti, Lucio Fontana (Fig.15), che combinavano grafica e dettagli fotografici dell’antico, il volume metteva in campo riproduzioni a filo pagina, che esponevano scorci e frammenti di arte romana, tra i quali appariva l’immagine del Marco Aurelio. Stampata su due pagine contigue, la ripresa del famoso gruppo si presentava attraverso una insolita comunicazione della sua monumentalità evocata soltanto attraverso i profili affrontati del condottiero e del suo cavallo riprodotti ad invadere lo spazio dei fogli. L’ intero era ricostituito nel pensiero che si apriva ad un percorso impensabile fino al decennio precedente. E se il diradamento trasformato in isolamento delle opere sulle pareti marcava per tutti gli anni Trenta lo sviluppo di una nuova museologia, che anche per l’antico si avvaleva di materiali modernissimi (30), nelle mostre il protagonismo della fotografia testimoniava l’inclinazione alla contaminazione dei linguaggi a favore di una costruzione mentale dei nessi. Seguendo ritmi convulsi o regolari ed astratti, il mezzo fotografico si piegava allora duttilmente a segnare muri, pannelli e framezzi, integrato nella visione di nuove spazialità ed adattato al confronto con i materiali più eterogenei. E se a Milano, nel salotto di casa Minetti (1936), Franco Albini poteva invadere una parete con un reticolo di immagini fotografiche della grande arte nazionale, dall’arte romana a Paolo Uccello, nella VI Triennale di Milano (1936) Pagano scomponeva e ricomponeva in dettagli fotografici l’architettura rurale italiana (31), mentre sempre a Milano, nella Sala del Verrocchio e della sua scuola (Fig. 16) allestita per la grande mostra leonardesca (32), sistemava ingrandimenti e dettagli fotografici della scultura coeva disponendoli secondo una banda visuale, che attestava la contaminazione con la finestra a nastro di Le Corbusier. Alla Triennale, le forme rurali della tradizione architettonica nazionale, riprese su tutto il territorio, venivano proiettate in un volume corrispondente, parte di quei «Quaderni della Triennale» concepiti dall’ artista per un disegno di intrinseca correlazione tra evento espositivo e testo, tra parete e pagina. Nelle sale della mostra, il succedersi delle immagini poteva emulare, fissandole in una elegante soluzione grafica verticale, le sequenze della pellicola cinematografica (Fig. 17) (33), che era entrata direttamente in gioco già nel padiglione russo della mostra di Stoccarda, come pochi mesi prima ad Essen (34). Era un rinvio eloquente, quanto quello di Giolli che stigmatizzava i «Quaderni della Triennale» il Documentario di una mostra (35). Così, a pochi anni di distanza, in Racconto di un affresco, Luciano Emmer ed Enrico Gros, riprendendo i dipinti di Giotto della Cappella degli Scrovegni, producevano il primo documentario d’arte italiana. L’articolo comparso nella rivista «Stile» (36), a commento dell’impresa, rivendicava l’esigenza di «vedere con occhio cinematografico gli affreschi», esponendo la logica delle riprese, che era finalizzata alla «ricostruzione nel tempo di un effetto drammatico che pittoricamente si è sviluppato nello spazio». Così, nel segno del cinema si chiudeva il percorso di ripresa dell’arte del decennio. Un percorso presente nella rassegna a stampa del 1943 (37), dove l’arte italiana trovava uno spazio di consapevole riconoscimento. Nella forza del bianco e nero Mario Carafoli presentava tra quelle pagine Vecchia Viterbo (Fig. 18), mostrando un dettaglio della chiesa di San Pellegrino sullo sfondo della luce carica d’ ombra che investiva il peperino in primo piano tra il degrado degli intonaci. Casa a Ischia (Fig.19) era di Giuseppe Pagano, che proponeva un dettaglio monumentalizzato ai limiti dell’astrazione delle bianche superfici murarie di un’abitazione rurale inondate dalla luce del Sud. Attraverso una singolare trasposizione In compagnia (Fig. 20) di Diego Lucchetti rivisitava poi, attraverso la scena vivente di un’osteria, la composizione e la luce della Vocazione di San Matteo di Caravaggio. Si susseguivano quindi Frammento (Fig. 21) di Achille Villani, Mondi sommersi (Fig.22) di Carlo Mollino ed Ercole (Fig.23) di Ugo Sissa. Tra l’evidenza oggettuale e materica di Villani e l’atmosfera metafisica di Sissa c’erano i mondi di Mollino, che combinavano, nel gioco della messa a fuoco, tra ombre e riflessi, il fossile di una conchiglia, una indecifrabile statuetta ed il particolare della testa di una scultura antica affiorante dal bordo dell’immagine di incerta identificazione. Reperti dai contorni sfuggenti, la natura e l’arte apparivano attraverso un vetro (forse di una bacheca). Nella fotografia Mollino caricava di sensi misteriosi l’opera d’ arte con le sue ricorrenze enigmatiche e surreali. Il filtro del vetro, materiale espositivo consueto, qui provocatoriamente proposto come fattore destabilizzante per la fruizione, determinava uno sguardo mobile ed inquieto. Tutto appariva misteriosamente animato ed era comprensibile solo nelle pieghe di un significato più profondo, rinvio al naufragio di ogni certezza di conoscenza oggettiva, in rapporto col sovvertimento epistemologico sottesi alle ricerche dell’intero decennio, presentati dall’artista nella sintesi di una sola immagine.
aprile 2021

⁕ Il testo che qui si presenta è una revisione aggiornata del contributo pubblicato in Fotografia e culture visuali del XXI secolo, a cura di Enrico Menduni, Lorenzo Marmo, Roma 2018, pp. 123 – 132. Si precisa che l’occasione attuale consente di corredare il saggio dell’apparato fotografico propedeutico, malauguratamente saltato nel volume del 2018. 
1) V. Parisi, Nel bianco, La semantica dello spazio vuoto in Marina Cvetaeva e nell’ avanguardia figurativa russa, «Leitmotiv», 2001 (1),  pp. 198-218, http://www.ledonline.it/leitmotiv/.
2) A. Balzola, L’utopia della sintesi delle arti dai romantici alle avanguardie storiche, in A. Balzola, A.M. Monteverdi, Le arti multimediali digitali. Storia, tecniche, linguaggi, etiche ed estetiche delle arti del nuovo millennio, Garzanti, Milano 2004, pp. 25-63. Andrea Balzola rimanda alla assimilazione presente già in Mallarmè tra scena vuota e pagina bianca per la «messinscena della pura poesia» (p. 34).
3) G. Celant, Artmix: flussi tra arte, architettura, cinema, design, moda, musica e televisione, Feltrinelli, Milano 2008, p. 116.
4) Ibid., pp. 127-128. Per il pensiero dello studioso sul tema espositivo si veda recentemente G. CELANT, Verso una storia reale e contestuale, in postzang tumb tuuum art life politics italia 1918 – 1943, catalogo della mostra, Milano Fondazione Prada, 18 Febraio – 25 Giugno 2018, Fondazione Prada, Milano 2018, pp. 553 – 557.
5) G. Muratore, Prefazione, in La casa Elettrica e il Caleidoscopio. Temi e stili dell’allestimento in Italia dal razionalismo alla neoavanguardia, a cura di M. Rinaldi, Bagatto Libri, Roma, 2003 p. 10.
6) Nel corso del decennio, i rinvii al cinema assumeranno significati plurimi in Europa come in Italia.  Una traccia di lavoro particolarmente interessante per la cultura italiana appare nello studio di Marco Rinaldi (La casa Elettrica e il Caleidoscopio, cit., p. 21) che invita a considerare le contaminazioni tra allestimenti per le mostre e quelli per scenografie teatrali e cinematografiche, di cui fornisce un esempio concreto nel riuso da parte della casa produttrice Titanus dei materiali per l’allestimento delle mostre al Circo Massimo. A conferma di questa prospettiva di lavoro, come si vedrà oltre, si è trovata coinvolta l’Impresa Teatrale Ponti per allestimenti di Giuseppe Pagano.
7) Celant, Artmix, cit., p. 118.
8) Sull’ influsso della critica crociana e dell’estetica fenomenologica per generazione di artisti e critici negli anni Trenta in Italia si veda M.I. Catalano, Una scelta per gli anni Trenta, in Snodi di critica. Musei, mostre, restauro e diagnostica artistica in Italia 1930 – 1940, a cura di Ead., Gangemi, Roma 2013, pp. 25 ss.. Per la polemica tra Croce e Banfi cfr. in particolare R. Assunto, L’estetica ‘milanese’ e l’estetica ‘napoletana’. Alcuni riflessi della polemica Croce – Banfi nella storia della cultura italiana, in Antonio Banfi e il pensiero contemporaneo. Atti del Convegno di Studi banfiani, Reggio Emilia, 13–14 maggio 1967, La Nuova Italia, Firenze 1969, pp. 373-390.
9) A. Angelini, Il «Reticolo Razionalista». Astrazione e classicità della struttura a telaio nell’ Architettura Moderna in Italia, Università IUAV di Venezia Facoltà di Architettura, Corso di Laurea in Scienze dell’Architettura, A.A. 2012/2013, Laboratorio di Progettazione Architettonica 1E, Elementi di Progettazione architettonica e caratteri tipologici. (<www.academia.edu/4346683/II>).
10) G. Veronesi (a cura di), Edoardo Persico. Tutte le opere (1923 – 1935), (I), Edizioni di Comunità, Milano 1964, pp. 269, 276.
11) A. Somaini, Introduzione, in W. Benjamin, Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, Einaudi, Torino 2012, p. XXV.
12) Id., Fotografia e cinema, in Benjamin, Aura e choc, cit., p. 205.  
13) M.B. De Ruggieri, Per una storia delle indagini diagnostiche, in Diagnostica artistica: tracce materiali per la storia dell’arte e per la conservazione, a cura di M. Cardinali, M.B. De Ruggieri, C. Falcucci, Palombi, Roma 2002, p. 47; M. Cardinali, M.B. De Ruggieri, Il pensiero critico e le ricerche tecniche sulle opere d’arte a partire dalla Conferenza di Roma del 1930, in Snodi di critica, a cura di Catalano, cit., pp. 107-149.
14) A. Burroughs, Some Aesthetic Values Recorded by the X – Ray, «Art Studies», 1931 (VIII), pp. 61-71. Per notizie su Burroughs cfr. F.G. Bewer, A Laboratory for Art: Harvard’s Fogg Museum and the Emergence of Conservation in America, 1900 – 1950, Cambridge, Harvard Art Museum, 2010. 
15) Photoshow. Le mostre che hanno segnato la storia della fotografia, a cura di A. Mauro, Contrasto, Roma, 2014, p. 134.
16) M. Centanni, Passagenwerke per Mnemosyne: montaggio di immagini e spaziature del pensiero, «Aistehsis», rivista on line del Seminario Permanente di Estetica, anno II, 2010 (2), pp. 15-30, https://www.academia.edu/3650927/. Dal punto di vista dell’attenzione al processo espositivo del Bilderatlas si veda tutto il lavoro della rivista Enagramma con i rinvii bibliografici relativi e in particolare M. Centanni, S. De Laude,  Mnemosyne Atlas. The incunabulum. Panels exhibited at the Biblioteca Hertziana (January 19 th., 1929), «Enagramma»,  135, aprile / maggio, 2016, https//www.enagramma.it/eOS/index.php?id_articolo=2870   
17) Moholy Nagy presentava la sua Nuova Visione in Italia nel 1932 in un articolo comparso nella rivista «Note fotografiche», dove riprendeva temi del suo noto Malerei Photographie Film del 1925 uscito per la serie dei Bauhausbucher (n. 8).
18) C. Bertelli, La fedeltà incostante. Schede per la fotografia nella storia d’Italia fino al 1945, in L’Immagine fotografica 1845 – 1945, a cura di C. Bertelli, G. Bollati, Storia d’Italia, Annali 2*, Einaudi, Torino 1979, p. 170.
19) R. Giolli, Elementi scomponibili per esposizioni ambulanti, «Casabella Costruzioni», maggio 1939 (137), pp. 6-12. Si veda il recente commento di S. Cecchini (Musei e mostre d’arte negli anni Trenta: l’Italia e la cooperazione intellettuale, in Snodi di critica, a cura di Catalano, cit., p. 92).
20) Photoshow, a cura di Mauro, cit., p. 132.
21) P. Toesca, Un capolavoro di Michelangelo «La Pietà di Palestrina», «Le Arti», 1938 (1, II), pp. 105-110. Sulle fotografie di Pagano a corredo dell’articolo di Toesca cfr. L. Lorizzo, Pietro Toesca all’Università di Roma e il sodalizio con Bernard Berenson, in Pietro Toesca e la fotografia Pietro Toesca e la fotografia. Saper vedere, a cura di P. Callegari, E. Gabrielli, Skira, Milano 2009, pp. 111 ss.; ma vedi anche CATALANO, Una scelta per gli anni Trenta, cit., pp. 40 ss.. 
22) S. Bignami, Il fotomontaggio nelle riviste illustrate degli anni Trenta tra ricerche d’ avanguardia e cultura visiva di massa, in Gli anni Trenta a Milano tra architetture, immagini e opere d’ arte, a cura di S. Bignami, P. Rusconi, Mimesis, Milano, 2014, pp. 119-122.
23) Il fotomontaggio era stato pubblicato in «Cinematografo», 24 luglio 1927, cfr. in proposito I. Schiaffini, I fotomontaggi immaginisti di Vinicio Paladini tra pittura, teatro e cinema, «Ricerche di Storia dell’arte», 2013 (109), pp. 62-63; ma vedi anche per l’influsso sul fotomontaggio dell’avanguardia europea Id., Scambi nell’ avanguardia europea degli anni Venti: Vinicio Paladini, Karel Teige e il fotomontaggio, in Contemporanea. Scritti di storia dell’arte per Jolanda Nigro Covre, a cura di I. Schiaffini, C. Zambianchi, Campisano Editore, Roma, 2013, pp. 193-202. L’immagine di Paladini combinava fonti iconografiche tratte dal cinema, rimando al linguaggio che pure in Italia si avviava a divenire pervasivo.
24) Una selezione di immagini è stata presentata nel catalogo della mostra Anni ’30. Arti in Italia oltre il fascismo, Catalogo della Mostra, Firenze 22 settembre 2012–27 gennaio 2013, a cura di A. Negri et al., Giunti, Firenze 2012, pp. 180 ss..
25) Cecchini, Musei e mostre, cit., p. 86.
26) Per il genere rotocalco cfr. Forme e modelli del rotocalco italiano tra fascismo e guerra, a cura di R. De Berti, I. Piazzoni, Cisalpino, Milano 2009. Gli articoli di Sironi sono stati raccolti e riediti in Mario Sironi. Scritti e pensieri, a cura di E. Pontiggia, Abscondita, Milano 2000, pp. 46, 47, 51, 56, 57 (da qui sono tratte tutte le citazioni).
27) G. Ponti, Discorso sull’arte fotografica, «Domus», maggio 1932 (53), pp. 285-288.
28) G. Lupo, Sinisgalli e la cultura utopica degli anni Trenta, Vita e pensiero, Milano, 2011, p. 98
29) La scultura romana e 4 affreschi della villa dei misteri, a cura di E. Persico e A.M. Mazzuchelli, «Domus», supplemento, dicembre 1935 (96).
30) Per una visione d’ insieme sulla museologia italiana degli anni Trenta in rapporto con la compagine europea si veda ancora il saggio di Silvia Cecchini citato alla nota 19 e della stessa autrice L’Italia e l’Europa negli anni Trenta. Musei, storia dell’arte, critica e restauro, «Il capitale culturale», 14, 2016, pp. 429 - 458.
31) Sull’impegno nella fotografia di Franco Albini cfr. S. SETTI, Giuseppe Pagano e Franco Albini fotografi. Duplici sguardi, «Figure», 3, 2017, pp. 73 – 84; ma si veda anche la mostra tenuta a Milano alla Fondazione Franco Albini (12 maggio – 7 luglio 2017) Sguardi sul Mondo. Franco Albini fotografo, a cura di Marco Albini e Stefano Setti. Le immagini di casa Minetti sono state riedite nel volume di A. PIVA e V. PRINA, Franco Albini 1905 – 1977, Electa, Milano 1998, pp. 90 ss. Per quanto riguarda l’impresa sull’ architettura rurale, Pagano la condivise in prima istanza con Guarniero Daniel cfr. G. Musto, Un architetto dietro l’obiettivo: l’archivio fotografico di Giuseppe Pagano, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli Federico II, Tutor Cesare De Seta, 2007, che ricapitola la bibliografia precedente. Ma si veda anche M. Airoldi, L’architettura rurale e la Triennale di Milano del ’36, Hevelius’ webzine, Scenari Ritrovati, Ottobre 2010, http://www.hevelius.it/webzine/leggi.php?codice=190. Su Pagano fotografo cfr. almeno il catalogo della mostra del ’79 curato da Cesare De Seta, che è tornato altre volte sull’argomento (Giuseppe Pagano fotografo, Catalogo della Mostra, Bologna – Roma, 1979, a cura di C. DE SETA, Electa, Milano, 1979, p. 6; C. De Seta, Giuseppe Pagano fotografo di architettura, «Architettura e Arte», 2000 (9–10), pp. 9-11) e le considerazioni di G. D’autilia (Storia della fotografia in Italia dal 1839 a oggi, Einaudi, Torino 2012, pp. 218–219).
32) G. Pagano, Criteri di allestimento della mostra leonardesca, «Le Arti», 1939 (I, 6), pp. 601-604; Id., La mostra di Leonardo a Milano nel Palazzo dell’Arte, «Casabella Costruzioni», settembre 1939 (141), pp. 6–19; C.E. Gadda, La Mostra di Leonardo, «Nuova Antologia» 1939 (404), articolo ristampato in Le Meraviglie d’Italia. Gli anni, Torino 1964, pp. 211-232; ma vedi pure: il recente saggio di C. Sangiorgi, Brevi note critiche sulla mostra e sul ruolo svolto da Giuseppe Pagano, http://www.infobuild.it/approfondimenti/la-mostra-di-leonardo-del-1939; Catalano,  Una scelta per gli anni Trenta, cit. pp. 41 ss.; Cecchini, Musei e mostre, cit., pp. 90 ss.; R. CARA, "Grande regista" e "ordinato costruttore". Giuseppe Pagano e gli allestimenti della mostra leonardesca, in Leonardo 1939 la costruzione del mito, a cura di M. BERETTA, E. CANDELLI, C. GIORGIONE, Editrice Bibliografica, Milano 2019, pp. 67 – 95; R. CARA, Visioni di Leonardo nel Novecento tra Belle époque e fascismo e l’«abominevole» Mostra del 1939, «ACME. Annali della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Milano», 2, 2020 (in corso di pubblicazione).  
33) Su tale tema, è stato ancora una volta ricordato (A. MAURO, Cattivi maestri: Giuseppe Pagano, 30 Giugno 2011, www.elapsus.it/home1/index.php/arte/architettura/584-cattivi-maestri-giuseppe-pagano), che l’architetto istriano accoppiava alla passione per la fotografia, condivisa con l’ amico Comencini, quella per il cinema, essendo pure in contatto con Alberto Lattuada e Dino Risi che dal 1941, quando Pagano co-dirigerà «Domus», scriverà per la rivista.
34) Per Essen cfr. Photoshow, a cura di Mauro, cit., p. 132.
35) R. Giolli, Documentario di una mostra, «Casabella Costruzioni», 1939 (133), pp. 28–29.
36) Racconto di un affresco (siglato M.T.), «Stile», 1942 (17), pp.  46 – 49.
37) Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, a cura di E.F. Scopinich, collaboratori A. Ornano, A. Steiner, Gruppo Editoriale Domus, Milano, 1943. Sulla rassegna cfr. S. Paoli, L’annuario di Domus del 1943, in Per Paolo Costantini. Indagine sulle raccolte fotografiche, Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali, Quaderni, 1998 (8), Scuola Normale Superiore di Pisa, Pisa 1999, pp. 99 – 128. Id., Cultura fotografica e periodici alla fine degli anni Trenta, in Forme e modelli del rotocalco italiano, a cura di De Berti, Piazzoni, cit., pp. 662 ss.