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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Le forme della vita, la vita delle forme

 

Brunella Velardi

 

«The full dimensions of Ms. Hadid’s prodigious artistic outpouring of work is apparent not only in architecture, but in exhibition designs, stage sets, furniture, paintings, and drawings»

Pritzker Architecture Prize 2004, discorso della giuria

Zaha Hadid, almeno nei primi tempi, non amava essere definita “artista”. Le ci erano voluti anni per vedere riconosciuta la sua architettura e realizzato un suo progetto. Aveva avuto la fortuna di provenire da una famiglia ricca che le aveva consentito di studiare a Beirut, Bagdad, Londra e mantenere per un bel po’ uno studio con un paio di dipendenti, ma la sfortuna di essere donna, con un mestiere “da uomo” e in una città che non rende la vita facile agli stranieri. Se lo era conquistato a fatica il titolo di architetto, e poi di archistar, e quel suo bisogno di visualizzare il progetto attraverso il solo strumento che le permettesse di analizzarne simultaneamente le diverse prospettive e le variabili dell’interazione con il contesto, il dipinto, era stato impugnato dai suoi molti avversari come riprova del suo non essere un vero architetto. Perché gli architetti progettano edifici costituiti da elementi riconoscibili e rodati da millenni di tradizione e di tecniche costruttive, altrimenti, sono pittori o scultori. Meglio quindi sgombrare il campo da ogni ambiguità: «Non sono una pittrice, devo dirlo con molta chiarezza. So dipingere ma non sono una pittrice»(1), aveva dichiarato fermamente. Il suo "saper dipingere" non costituiva un mestiere, ma la fortuna di riuscire a comunicare attraverso un'immagine qualcosa di altrimenti inesprimibile per lei e inconcepibile per i suoi interlocutori. La pittura le serviva per esplorare l’anatomia dell’oggetto, per raggiungere punti di vista possibili e impossibili a ritmo cinematografico, conciliando nello stesso spazio bidimensionale viste a volo d'uccello e quelle che lei chiamava ironicamente “worm's eye view”. «Durante il mio quarto anno mi era parso evidente che non mi era possibile spiegare o esplorare ciò che volevo fare attraverso un metodo di rappresentazione vincolante. Realizzare una pianta, una sezione e un prospetto non era sufficiente. Dovevo andare oltre, fino alla realizzazione del modello, ma erano i dipinti, molto elaborati, soprattutto nelle deformazioni prospettiche o di torsione, a informare realmente il lavoro»(2). Per buona parte della sua attività, insomma, i dipinti hanno rappresentato di fatto il mezzo più adeguato per rintracciare il complesso di elementi statici e dinamici che conformava i suoi progetti. Ciò a cui le piante, i prospetti, i singoli componenti dell’edificio alludevano, contribuendo a determinare suggestioni, nei dipinti esplodeva con tutta la sua forza innovatrice. La scomposizione del contesto in forme semplici, allungate allo spasimo da correnti di energia che le attraversano, le permetteva di dipanare la matassa di traiettorie e guardare con chiarezza il modo in cui i suoi volumi avrebbero potuto inserirvisi.

Questa sua caratteristica è forse la più emblematica della dirompenza della sua concezione del fare architettura, e non è un caso se i primi progetti siano noti per la maggior parte attraverso dipinti e non disegni tecnici. Momento imprescindibile nell’elaborazione del concept, la sua produzione grafica e pittorica era assai elaborata, come è lei stessa a spiegare: «The very big drawings take a long time to set up because it is not one drawing, it’s not one perspective, it may be three or four things together, it has a story. The day and night painting for Trafalgar Square, for instance, took months to set up and very long time to paint because the drawing has very different views, it curves… so this shows the building, the back of the building on to Trafalgar Square at night. When this is lit up it floats over the ground. Then it shows the interior of the ground transparent how it relates to the National Gallery and these corridors in the city. Then it shows it from above and in the middle of the day, and then with the towers against the London skyline. So it has a journey of twenty four hours, like midnight, morning, midday and sunset. It is shown in the context of the city and how it relates»(3). E ancora: «The perspective drawings tell you about the quality of the space, buto also about the quality of the building material or the quality of the light. […] It also helps to define not just color but also the materiality of the building – what could be solid, what could be transparent»(4). La dimensione temporale, intesa tanto come durata dell’esperienza quanto come il susseguirsi delle fasi della giornata “attorno” all’edificio, è fondamentale, poiché determina le forme, i materiali, i colori e la loro percezione all’interno del contesto in cui si situano. Da questo punto di vista il dipinto da lei citato, Grand Buildings a Trafalgar Square, è certamente uno dei più articolati e complessi.

Per raggiungere questo risultato, spingendo al massimo le potenzialità della pittura, Hadid aveva fatto suoi molti concetti desunti dalle prime avanguardie. Le opere iniziali vengono ricollegate soprattutto al Suprematismo e al Costruttivismo, sia per la sua tesi di laurea, intitolata Malevich's Tektonik e chiaramente ispirata, nelle geometrie primarie che si giustappongono e si sovrappongono librandosi in uno spazio idealmente infinito ma caratterizzato da specifiche esigenze, alle composizioni dell'artista russo, sia per il suo esplicito riferimento all’avanguardia sovietica: «Ultimately, what one learns from Malevich is the idea of Suprematism as injected into architecture and its influence on the plan. […] I felt the biggest impact you can have on architecture is how to re-organize a plan and how you inhabit a plan, how you move through the plan. Also this notion that there is another force, that you are free from a certain restriction, this whole idea of liberation from gravity is not because you are flying around in the air but because you are freed from existing orders. Therefore you have a new order and there may be many others. This whole idea of the fluidity of the plan, the fragmentation of the plan, the whole idea of randomness which is really very calculated. All this was meant to question how you use space and how you make space. It finally led to project how you can inhabit and carve away spaces which are special. That is really the learning from Malevich and Suprematism. Lissitzky and Leonidov tried to impose, inject Suprematism into architecture […]»(5). Nesso peraltro ripreso costantemente da mostre che hanno fatto leva proprio sul forte dialogo con Malevich e Tatlin, come The Great Utopia. The Russian and Soviet Avant-Garde 1915-1932 per la quale Hadid reinterpretò i temi centrali del Suprematismo e del Costruttivismo in un’installazione collocata nel grande vuoto centrale del Guggenheim di New York nel 1992, e nel 2010 Zaha Hadid and Suprematism, alla Galerie Gmurzynska di Zurigo, in cui dipinti suprematisti erano esposti accanto a plastici, silverpainting e oggetti di design dell'architetto iracheno, che ne aveva inoltre disegnato l’allestimento.

Se dei dipinti di Malevich Zaha coglie la profondità spaziale entro cui si stagliano forme attraversate da una tensione interna che le tiene insieme e le proietta, attraverso vertiginose prospettive a volo d’uccello, verso un punto al di là della tela, dal Costruttivismo mutua la concezione della pittura come struttura, da comporre dunque seguendo i medesimi processi validi per l’architettura: in questo senso i Proun di Lissitzky, con le intersezioni di piani in prospettiva e i giochi di opacità e trasparenze, si inseriscono chiaramente nella sua ricerca. Ma ciò che più le interessa, come si è visto, è la liberazione della forma da regole precostituite. Nel clima di postmodernismo imperante degli anni ’70, la sua formazione all’Architectural Association di Londra la spinse a cercare una strada alternativa a quella impregnata di storicismo che dominava l’architettura occidentale: « Ero una allieva di Rem [Koolhaas] e il nostro gruppo di studio era molto diverso e innovativo. Voleva aprire la porta a un mondo che non era ancora stato inventato [...]. La nascita del postmodernismo, lo storicismo e il razionalismo servirono da antidoti al concetto di modernità così come lo avevamo conosciuto nella prima parte del ventesimo secolo. Così ci dava molta freschezza il fatto di trovare alternative che avevano avuto alcuni precedenti, come l'avanguardia russa, attiva prima di talune rivoluzioni in Europa»(6). In questo senso l’impulso iniziale verso quel tipo di esperienze è frutto di un atteggiamento che mostra più di un punto in comune con il Futurismo, impegnato nello sforzo di liberare l’architettura da vincoli tradizionalisti tutto sommato assecondati anche dalle bizzarrie liberty, così come santeliana è la concezione dell’innovazione architettonica come operazione radicale, in grado di rivoluzionare gli invasi a partire da un nuovo modo di organizzare la pianta «determinando nuove forme, nuove linee, una nuova armonia di profili e di volumi»(7).

I "ricercatori" dell'AA tra gli anni ’70 e ’80 avvertivano quindi l'esigenza di tornare a un modo di fare architettura inteso come processo di costruzione di una nuova società, che si apprestava a essere, come poi sarebbe stata definita, "liquida", e per farlo era necessario guardare a chi aveva tentato nella stessa impresa prima di loro. A questo aspetto si unisce in Hadid quello, dirimente, dell’arabità (Koolhaas); più volte lei stessa ha sottolineato la diversa concezione araba della storia rispetto a quella, ad esempio, americana, basata su una narrazione da costruire e tramandare; da “babilonese”, invece, la sua visione storica è fatta di strati che si intersecano, si sovrappongono, ma rimangono sempre ben visibili nelle rovine delle civiltà antiche. Se l'esperienza londinese l'aveva portata a collocarsi in netta rottura con le tendenze architettoniche più recenti così come si erano venute strutturando proprio sulla base di una revisione, talvolta critica, talaltra pedissequa, dell'ideologia occidentale nei suoi caratteri di separazione natura/cultura, (che in termini architettonici si può paragonare ad esempio al rapporto suolo/edificio), le sue origini la spingevano a concentrare le sperimentazioni nel senso di una continuità fluida, priva di strappi e interruzioni, tra contesto e progetto e tra gli invasi spaziali di quest’ultimo. Sono, in fondo, la sinuosità delle dune di sabbia, la continuità tra cielo e terra e il confluire del Tigri e dell'Eufrate nella Valle dell’Eden, meta di frequenti gite da bambina, a guidarla: «Quando [...] vedi i fiumi e gli alberi sapendo che tutto è così da 10 mila anni. La sospensione temporale ti invade. C'è uno stupefacente scambio fra terra, acqua e natura che si estende fino a incorporare edifici e persone. Penso che forse al centro del mio lavoro ci sia proprio il tentativo di catturare quella dinamica di continuità e scambio in un contesto architettonico urbano a vantaggio delle città contemporanee e di coloro che le abitano»(8). Si spiega così il morbido emergere del piccolo padiglione per il Landesgartenschau (1996 – 1999) dal terreno in cui si riimmerge poco più avanti. Allo stesso modo, faceva intrinsecamente parte del suo essere araba l’interesse per la matematica, in cui si era laureata a Beirut prima di dedicarsi all’architettura e che era strettamente legata con l’ossessione per il controllo delle geometrie e con la pixelizzazione delle figure(9), quest’ultima manifestata con forza prorompente nel Rosenthal Center (1997 – 2003). Da qui nasce la scomposizione della forma, la sua riduzione a layer ispirati alla tettonica e all’archeologia allo stesso tempo(10) – così evidenti in The Peak (1982 – 1983) – sottoposti poi all’influsso di campi di forza che tanto devono alla multidirezionalità delle linee-forza boccioniane. E a ragione è stata definita “tessitrice”, appellativo con cui Aaron Betsky metteva in luce il debito con l’arte dei tappeti persiani(11), che sarà così evidente nel progetto per il MAXXI (1998 – 2009), intreccio di flussi che emanano dagli edifici preesistenti congelandosi l’istante prima di rifondersi con la città.

Per tutti questi motivi la sua architettura sarà solo per brevissimo tempo etichettabile come "decostruttivista", virando presto verso soluzioni inedite e a lungo rimaste pionieristiche che la condurranno assai lontano da quel gruppo messo insieme da Johnson e Wigley nel 1988 al MoMA, di cui facevano parte Libeskind, Koolhaas, Tschumi, Eisenmann e Gehry, accomunati dalla (generica) necessità di “violare intenzionalmente i cubi e gli angoli retti del modernismo”(12).

Quando i computer fecero il loro ingresso nello studio, la possibilità di guardare contemporaneamente in quindici, venti schermi sezioni, piante, modelli 3D diversi dello stesso progetto, consentì allo studio di ampliare enormemente il suo repertorio formale. Ma il disegno continuava a essere indispensabile per riflettere sul lavoro: il lungo tempo che necessitava la sua esecuzione dava la possibilità di dare maggior rilievo a certi aspetti dell’edificio, di aggiungere dettagli, di soffermarsi su altri(13).

Al contempo, il processo di fluidificazione delle linee, con l'opportunità di governare attraverso i software le doppie curvature, portò rapidamente le sperimentazioni verso soluzioni sempre più audaci. Se dalle taglienti forme della Vitra Fire Station (1990 – 1993) ai flussi pietrificati del MAXXI erano trascorsi quasi dieci anni, in tre si era arrivati a progetti come la Guangzhou Opera House (2003 – 2010), Kartal Pendik (2006) a Galaxy Soho (2009 – 2012). Quando, cioè, sotto la guida di Patrik Schumacher e la spinta della sua teoria del Parametricismo – che fa leva sul concetto di campi di forza manipolati attraverso lo strumento digitale – la fluida dinamicità dei volumi che Zaha aveva faticosamente ricreato fin da studentessa ruotando i fogli man mano che uscivano dal plotter ha assunto le forme della spettacolarità tout court, che della società liquida rischia di enfatizzare il risvolto più estremo del capitalismo, ed è ormai lontana da principi, come quello della continuità con il territorio (urbano o naturale) circostante, che pure erano stati alla base delle prime esperienze.

Ma la voglia di fissare i suoi progetti sulle due dimensioni di grandi tele o fogli metallici, anche dopo averli ridotti a segno grafico, con cromie sgargianti, tesi al punto da schizzare fuori dalla superficie pittorica, non l’ha persa nemmeno quando i software le hanno permesso di fare tutto con un comando; nemmeno quando il suo studio si era ormai trasformato in un’industria con personale specializzato, intorno alla quale gravitano persino artisti che hanno il compito di sviluppare i suoi schizzi intervenendo con aerografo e pennelli, come in una comune bottega d’artista. Resta perciò che, per chi vi è entrato, le stanze in cui assorti siedono gli Zaha Hadid Architects sono sempre state una vera e propria fucina in cui creativi di ogni genere affollano le scrivanie tra modelli digitali, plastici, stampe, rilievi.

Intanto, il suo pensiero ha fatto scuola e molti sono gli studi che proseguono la sua ricerca. Il messaggio organicista che aveva sussurrato negli anni ’80 e declamato nei ’90 si sarebbe rivelato tra i più adatti a rappresentare la società del Duemila. Se i suoi contemporanei hanno cercato la forma della nuova architettura esplorando il linguaggio della tradizione, decostruendolo, frammentandolo, Hadid l’ha trovata nelle strutture naturali e nelle sperimentazioni delle avanguardie artistiche. E quando la si è chiamata “visionaria”, si è tralasciato di rintracciare l’infinità di radici che sono state alla base del suo pensiero e che le hanno permesso di proiettarsi nel futuro alla velocità della luce, trapassando come una freccia scoccata con vent’anni di anticipo da un secolo all’altro.

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1) Z. Hadid, cit. in M. Coppola, Architettura Postdecostruttivista, vol. I, La linea della complessità, Deleyva Editore, 2015, p. 125.

2) Ibidem

3)Z. Hadid in R. Levene, F. Marques Cecilia, Interview with Zaha Hadid, 1992, «El Croquis» n. 103, Zaha Hadid 1983-2004, 2004, p.21.

4) Z. Hadid in L. Rojo De Castro, Conversation with Zaha Hadid, 1995, «El Croquis» n. 103, Zaha Hadid 1983-2004, 2004, p. 35.

5) Z. Hadid in R. Levene, F. Marques Cecilia , op. cit., p. 23.

6) Z. Hadid in M. Coppola, op. cit., p. 75. L’affermazione di Hadid si richiama esplicitamente ad alcuni passi del manifesto di Malevich, e in particolare: «L’arte nuova del suprematismo, che ha creato forme e relazioni di forme nuove, a base di percezioni divenute figure, allorché tali forme e relazioni di forme dal piano della tela si trasmettono allo spazio, diventa architettura nuova. Il suprematismo, sia nella pittura che nell’architettura, è libero da qualsiasi tendenza sociale o materiale», K. Malevich, Manifesto del Suprematismo, 1915, in M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, 2009, p. 399.

7)Scrive Hadid, ancora a proposito dell’influenza del Suprematismo, che «Its potential lies on what it does to the plan because people do funny little building but the plans remain to be very banal» ( Z. Hadid in R. Levene, F. Marques Cecilia , op. cit., p. 23), affermando ciò che in termini simili aveva sostenuto Antonio Sant’Elia nel 1914: «Il problema dell’architettura futurista non è un problema di rimaneggiamento lineare. Non si tratta di trovare nuove sagome, nuove marginature di finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole, con cariatidi, mosconi, rane; non si stratta di lasciare la facciata a mattone nudo, o di intonacarla, o di rivestirla di pietra né di rivestirla di pietra né di determinare differenze formali tra l'edificio nuovo e quello vecchio; ma di creare di sana pianta la casa futurista, di costruirla con ogni risorsa della scienza e della tecnica […], determinando nuove forme, nuove linee, una nuova armonia di profili e di volumi, un’architettura che abbia la sua ragione d'essere solo nelle condizioni speciali della vita moderna […].Quest'architettura non può essere soggetta a nessuna legge di continuità storica», A. Sant’Elia, Manifesto dell’architettura futurista, 1914, in V. Birolli (a cura di), Manifesti del Futurismo, Abscondita, 2008, p. 139.

8) Z. Hadid in «Abitare», n. 511, Being Zaha Hadid, aprile 2011, p. 70.

9)«L'arabità, come la chiami tu, coincide con un mio particolare interesse verso il paesaggio, che è legato alle dune di abbia ed altri elementi del genere. Questo si rispecchia in un altro mio interesse, ossia la geometria e la pixelizzazione delle figure, che in qualche modo sono strettamente connessi alla cultura e all'identità araba, essendo strettamente intessuti con l'algebra e la matematica. È possibile connettere in linea diretta questi miei interessi trasformandoli in materiali ed idee architettoniche. Quindi: sì, c'è una connessione tra la mia architettura e le mie radici arabe», Z. Hadid in H. U. Obrist, The Conversation series, vol. 8, Walther König, 2007, p. 86, cit. in M. Coppola, op. cit., pp. 70-71.

10)Cfr. M. Mostafavi, Landscape as a plan. A conversation with Zaha Hadid, 2001, in «El Croquis», 2004, p. 54.

11)Cfr. A. Betsky, Zaha Hadid. L’opera completa, Rizzoli, 2009, pp. 14-15.

12)Cfr. P. Johnson, citato nel comunicato stampa della mostra Deconstructivist Architecture: https://www.moma.org/momaorg/shared/pdfs/docs/press_archives/6526/releases/MOMA_1988_0029_29.pdf?2010, consultato il 10 aprile 2016.

13)«[…] the computer shows what you might see from various selected viewpoints. But I think this doesn’t give you enough transparency; it’s much too opaque. I think it is much nicer on the screen than when it is printed on to paper, because the screen gives you luminosity and the paper does not, unless you do it through a painting. Also I think you can improvise much more with drawing, as you go along. There is another layer of operation while you’re doing them which is somehow missing in the computer rendering. […] You can achieve certain things through technology, but you can’t abstract in the same way. When drawing by hand you can decide that you want to show and edit out some other things. […] ou can decide to focus on the thing you want to study at the time while you’re doing the drawing. It focuses you more on certain critical issues. But because I’m sitting there with 15 or 20 computer screens in front of me and I can see them all in the same time, it gives me yet another repertoire. You can see the section, the plan and several moving 3-D views at the same time, and in your mind you can see them yet in another way», Z. Hadid in M. Mostafavi, op. cit., pp. 51-52.