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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Alberto Zanazzo

Per disegnare un autoritratto occorre disporsi davanti a uno specchio e cercare di ridurre al minimo le distorsioni indotte da prospettive singolari: uno specchio come quelli posizionati nella Biblioteca-Universo di Jorge Luis Borges che, riflettendo corridoi e gallerie esagonali, sembrano lasciar presagire l’infinito. E coniugare questa immagine a un’altra metafora dello scrittore argentino in direzione opposta all’estetica passiva degli specchi: quella del prisma e della sua estetica attiva capace di costruire visioni personali, variegate, grazie al principio di rifrazione. Sapersi ritrarre è quindi un esercizio che comporta tre ordini di difficoltà.
In primo luogo dover riflettere sul contesto, sulla domanda irrisolta relativa al concetto di arte, al suo rapporto con la società in cui si manifesta e all’idea di multidisciplinarità che oggi appare scontata ma che nei crepuscolari anni ’80 del secolo scorso, per esempio, è stata spesso messa all’indice o surrogata da espedienti postmoderni.
Poi c’è la peculiarità della ricerca in questione che moltiplica nel linguaggio riflessi e rifrazioni ma è legata al tema della invisibilità – alla esplorazione di differenti lunghezze d’onda - e si manifesta anche attraverso tracce disseminate secondo la logica di un progetto: fogli distribuiti in occasione di esposizioni (firmati e numerati) che insieme ad alcuni opuscoli (elementi complementari delle installazioni) sono pensati come opera svelata nel corso del tempo, enciclopedia a dispense pressoché impossibile da ricostruire. Ho usato l’aggettivo disseminate per sottolineare il riferimento al modello antropologico del coltivatore - che presuppone un progetto nel tempo - distinto dalle tipologie predatorie del raccoglitore o del cacciatore che si affidano al caso, alla competizione, all’hic et nunc. Più che objets trouvés, dunque, la chiave di questa ricerca artistica sono objets à trouver o meglio ancora à chercher: è il suggerimento a disporsi in ascolto di un’idea, di un punto di fuga oltre le forme, gli stili, le contingenze.
La terza difficoltà nel tracciare un autoritratto – che si collega alla prima come fine e inizio in un ciclo - è quella di doversi raccontare evitando l’autocompiacimento del selfie, la prospettiva illusoria di Narciso che sacrifica il mondo sull’altare del minuscolo io. Per ovviare a questi inconvenienti bisognerebbe studiare da vetrai e riuscire a vedere in trasparenza oltrepassando il velo dei miraggi, delle mode, delle omologazioni strumentali. Nell’Orfeo di Cocteau c’è un personaggio che aiuta il protagonista a salvare Euridice e a risalire indenni dall’Ade, il cui accesso nella pièce teatrale è appunto uno specchio: il personaggio è un Angelo travestito da vetraio e si chiama Heurtebise – dal marchio dell’ascensore che Cocteau notò un giorno, andando a trovare Picasso. Come l’ascensore, l’Angelo è un’ottima guida per il trecking verticale Oltretomba-Terra-Cielo. E una volta compiuto il viaggio, dall’alto tutto è più chiaro - anche le tre difficoltà appena descritte che in panoramica svelano la loro natura unitaria, come la Verità moltiplicata nei riflessi umani.
Curiosa intuizione, quella di Cocteau, soprattutto se estesa a un aspetto scientifico che è alla base di riflessione, rifrazione, trasparenza – e cioè alla natura quantistica della luce, dei fotoni che sono al tempo stesso onde e particelle e che riescono perciò ad attraversare il vetro. Siamo nel regno subatomico in cui vige il principio di correlazione quantistica - cioè la legge per cui al variare delle condizioni e anche a grandi distanze, le particelle si influenzano immediatamente secondo il principio denominato entanglement: sembrano viaggiare più veloci della luce (cosa impossibile secondo la Relatività di Einstein) mentre semplicemente si trovano nello stesso istante in tutti i punti in cui si manifesta un determinato fenomeno, quindi non devono percorrere spazi. Avviene anche in biologia, per esempio nelle modificazioni evolutive del DNA, nell’orientamento degli uccelli e nella fotosintesi clorofilliana. Senza poter entrare negli aspetti specifici della questione, c’è da dire che Albert Einstein e Niels Böhr avevano due opinioni diverse su questo tipo di fenomeni che pongono dubbi su cosa siano realtà e verità: la realtà quantistica preesiste alla nostra osservazione (come sosteneva Einstein) o si manifesta solo se noi la osserviamo (questa era la tesi di Böhr)? A ciò vorrei aggiungere la teoria del Premio Nobel Ilya Prigogine secondo cui l’universo è nato da uno stato precedente (una fluttuazione quantistica, appunto, per cui un ipotetico osservatore esterno vedrebbe come un lampo i miliardi di anni percepiti al suo interno?) e, affidandoci l’immagine che usava Platone della Natura come opera d’arte, propone l’idea della irreversibilità, del tempo in cui siamo immersi, come creazione che tutti possiamo contribuire a migliorare o a distruggere.
Di fatto la scienza indaga i fenomeni fisici andando verso le radici, l’infinitamente piccolo e imponderabile, verso un punto prossimo all’inizio (che è comunque diverso dall’origine). Non si vede perché, allora, l’arte dovrebbe illustrare acriticamente il visibile, limitarsi a registrare la cronaca devitalizzata da specchietti digitali, per servire leggi di mercato anziché cercare quella che per la filosofia Emanuele Severino definisce la piccola radura, soffocata tra le megalopoli dell’efficienza, a cui i più attenti riconoscono ancora il carattere di punto d’irradiazione per continuare a interrogarsi: senza declinare quel pensiero originario in termini di economia, sociologia, antropologia, linguistica, matematica. Anche l’arte dovrebbe esplorare quella essenza nascosta – orī-gyne - e saper vedere oltre le seduzioni dei porno-tecnicismi generati dal liberismo, procedendo con un ritmo differente dalla meschina marcetta fu-turista. Qualcuno sostiene a ragione che le profezie siano figlie di una lucida memoria, mentre le amnesie risvegliano sempre il fascismo eterno e l’imbecillità di cui parla Umberto Eco. Invece mi sembra di riconoscere in questi tempi una situazione che rispecchia (per l’appunto) la storiella sul circolo esclusivo dell’aristocrazia inglese: un giovane ignaro delle usanze viene accolto nel club e mentre si aggira tra i salotti ascolta conversazioni in cui, per prolungare l’intrattenimento tra un drink e l’altro, si elude la sintesi fingendo persino impasse e amnesie. Allora lui si sente in dovere di suggerire soluzioni pertinenti ma viene guardato con severità e aria di rimprovero. Non fa ridere, come molte freddure anglosassoni, ma viene da sbellicarsi insieme a Democrito se si pensa che il vaniloquio è ormai adottato a ogni livello della società globalizzata (alla sua politica, alla sua cultura) con il solerte contributo di chi gestisce algoritmi, profitti delittuosi e diseguaglianze planetarie. Una certa predisposizione umana a delegare l’esercizio del pensiero, la conflittualità e l’egoismo mai mitigati, l’adattarsi a una condizione di turismo esistenziale senza diritti civili, fanno il resto per realizzare il degrado cognitivo rilevato da diversi studi scientifici. Se anche non si volesse infierire su questa situazione, non si potrebbe evitare almeno di sorriderne con l’Empedocle di Signorelli che, sporgendosi dal suo occhio verso il Giudizio Universale, sembra intento a contemplare gli στοιχεία per scrutare nel Cosmo fenomeni più interessanti della Comédie humaine. L’arte non può cambiare il mondo ma dire la verità, sì. Perché tutt’altra è la strada da intraprendere per disegnare una società migliore.
20 ottobre 2018
*Intervento di Alberto Zanazzo tenuto il 9 ottobre 2018 nell’ambito del progetto Macro Asilo #autoritratto. Per gentile concessione dell’autore.