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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Processualità e autoaffermazione nella scultura di Rosa Panaro

Brunella VelardiIcoPDFdownload

Nel panorama dell'arte italiana della seconda metà del Novecento, la figura di Rosa Panaro ha occupato un posto specifico e sempre riconoscibile, che l'artista si è ritagliata assorbendo, accanto alle traversie del suo presente, risultati di ricerche plastico-pittoriche a lei vicine e tendenze dell'arte locali e d'oltreoceano, senza tuttavia mai pienamente riconoscersi o identificarsi negli uni e nelle altre, ma piuttosto elaborando un personalissimo linguaggio e seguendo una traiettoria intellettuale sempre coerente a se stessa, anche quando profondamente mutata insieme con le sue esigenze espressive.
Il suo esordio, avvenuto in rassegne collettive tenute sul finire degli anni Cinquanta tra Napoli e Roma, appare fortemente connesso alla sua formazione con lo scultore Antonio Venditti, con cui si diploma nel 1958 all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Testimonianza ancora acerba, la Figura esposta nel 1957 in occasione della II mostra di arti figurative a Napoli (1), mostra già un interesse verso una matericità spessa e immediata. Ben presto la ricerca plastica di Rosa Panaro si aggiorna alla fase matura del suo maestro che, reduce dal geometrismo concretista, torna a una figurazione filtrata dall'esperienza dell'informale. Attraverso cemento, amianto e polvere di ferro, la scultura si fa per concrezione: il materiale, talvolta portato all'estremo delle sue possibilità in strutture che alternano accumuli e filamenti, fa delle opere oggetti tormentati e ancestrali allo stesso tempo. Esili figure di cemento sembrano corrodersi e raggrumarsi sotto l’effetto di eventi atmosferici, analogamente a quanto, in pittura, avveniva sotto l’impulso del Gruppo 58 e della corrente nucleare.
A questa fase appartengono opere come la Transenna (1959) che Venditti significativamente realizza per casa Stefanucci-Panaro (2) e, di Panaro, Gatto bifronte (1958), Cristo (1960), Bozzetto per il monumento allo scugnizzo (1960), Frammento di balcone (3) e la Figura dalle fattezze totemiche (1961). La scultrice approda molto presto a formulazioni del tutto autonome: in Combattimento di galli, realizzata in cemento con pietre e conchiglie ed esposta alla Galleria Chiurazzi con Tony Stefanucci nel 1961, e ne La famiglia (1963) (4), l’accentuata polimatericità appare tratto distintivo dell’allieva, che probabilmente nell’inserimento di elementi naturali (dapprima conchiglie, in seguito tufo e sabbia) guardava o guarderà anche all’informale di Renato Barisani che, peraltro, alla fine degli anni Quaranta condivide il suo studio in Accademia proprio con Venditti. In particolare, nelle ultime due opere citate sembra di vedere concretizzarsi nelle tre dimensioni proprio quell’esplosione e riaddensamento della materia che stavano caratterizzando nello stesso giro d’anni la pittura nucleare nella sua componente tendente all’organico – con protagonisti come Mario Persico e Guido Biasi, firmatari, nel 1958, del Manifesto del Gruppo 58 – Movimento di pittura nucleare, in cui si affermava che «la possibilità di nuove aperture […] può nascere infine dalla nostra stessa natura […] che si ribella d’un tratto alle suggestioni apparecchiate e pavesate, e tenta […] di stabilire il più autentico rapporto fra la nostra civiltà e i miti primordiali che ancora abitano i suoi tessuti» (5). Connessione con i “miti primordiali” che percorrerà il lavoro dell’artista anche in cicli successivi, e che testimonia il suo legame con gli eredi dell’esperienza nuclearista suggellato, nel 1965, dalla sua collaborazione alla redazione di «Linea Sud», rivista che nasceva appunto dall’esperienza del Gruppo 58 e di «Documento Sud», con cui l’ambiente artistico napoletano si era legato all’avanguardia nazionale e internazionale. C’è senz’altro la curiosità per materiali tradizionalmente estranei all’arte, che si rivolge tanto a quelli dell’industria quanto a quelli della natura, ma nei lavori di Rosa Panaro sono funzionali all’esplicitazione di formulazioni simboliche. L’inserimento di conchiglie e sabbia nelle sue sculture, ad esempio, non resta ancorato all’esaltazione della materia in sé, o a un meccanico interesse per l’oggetto, ma sembra piuttosto collegarsi all’idea di una natura generatrice – basti pensare alla conchiglia nella pittura di Redon e alle sue assonanze con il sesso femminile, cui Panaro assocerà, di lì a poco, il gheriglio di noce – tramite cui riconfermare e rafforzare, sempre più esplicitamente nelle formulazioni successive, la sua concezione del fare l’arte come metafora del fare la vita.
Alla metà degli anni Sessanta inizia a farsi strada l'urgenza dell'emancipazione femminile, mentre l'estetica pop è ormai ben conosciuta anche in Italia, ancor più dopo la Biennale di Venezia del '64. Panaro è da subito attenta e sensibile alle nuove istanze sociali e dell'arte. L’artista introduce tra i materiali del suo lavoro le resine sintetiche, attraverso cui la figura femminile viene rivisitata in chiave pop: serialità e sintesi plastica si accompagnano a immagini a rilievo in cui la reiterazione del nudo femminile o di sue parti è parte del processo di oggettivizzazione del corpo e della sua estetizzazione portata ai massimi livelli, in scene e movenze che paiono anch’esse a loro volta sintetiche, stereotipate. È ciò che avviene in opere come Mondo Beat (1966), Sequenza N. 1 (1969), Opera (1972) o appunto nella serie delle resine, dove la partizione in riquadri entro cui l’immagine si ripete con minime variazioni rimanda alla pellicola cinematografica e, per estensione, al ruolo dei media visivi nella veicolazione dei modelli femminili. Non manca però l’attitudine ironica, che Oreste Ferrari, nel catalogo di una mostra tenuta a Roma, riconduceva a «una concreta opposizione alla generale tendenza verso un livellamento su denominatori elementari degli strumenti espressivi» e proseguiva: «Tra le non poche manifestazioni di questa attitudine ironica, una delle più sensibili mi sembra quella data dalle opere più recenti di Rosa Panaro», che giunge per Ferrari alla «demitizzazione di altri archetipi, più attuali […] in un modo che non si limita a produrre l’effetto della demitizzazione, bensì documenta il processo attraverso cui alla demitizzazione si giunge» (6). Se la mitizzazione si avvale dell’alimentazione a dismisura di concetti e immagini, allora portare alle estreme conseguenze l’ipertrofia e la ripetizione – vale a dire la serializzazione e l’iperproduzione tipiche della società industriale e capitalista – diviene un modo efficace di rendere paradossali quelle dinamiche toccando il favolistico e il ridicolo.
È un periodo, quello della seconda metà degli anni Sessanta, in cui Panaro si avvicina anche alla ceramica (7), esperienza che si lega alla frequentazione di Giuseppe Macedonio (autore, tra l’altro, delle decorazioni della Fontana dell’Esedra progettata da Carlo Cocchia alla Mostra d’Oltremare) e del laboratorio di ceramiche Stella, che grande impulso danno in quegli anni al linguaggio della scultura fittile (8). A testimonianza che l’artista resta comunque legata a una processualità manuale del fare arte che di lì a poco tornerà ad essere la sua cifra essenziale. Nei primi anni Settanta, infatti, abbandona le resine plastiche che le consentivano, sì, di esercitare maggior controllo su ogni fase della realizzazione, ma comportavano anche una separazione fisica, una distanza dalla materia, l’azzeramento del coinvolgimento del corpo nel movimento di plasmazione.
Ma c'è dell'altro. L'aderenza di Rosa al suo tempo e al suo luogo, l'urgenza di ricacciare fuori ciò che dell'attualità assorbe prepotentemente, di macinare il turbinio di parole, voci, immagini, paure, convinzioni di una città irrequieta e chiassosa e dar loro una forma verace, sincera, non levigata dai filtri del processo meccanizzato, che al suo luogo non si addicono affatto. L'approdo alla cartapesta, che caratterizzerà il suo lavoro di qui in poi, è un ritorno a un'idea di fare arte che da un lato si collega a una creatività infantile – «“Fare” scultura per me significa “essere cresciuta” con la scultura fin dalla pre-nascita. […] Da piccola i miei giochi preferiti erano gli impasti nelle scatole di latta che conservavo gelosamente in un angolo del mio vecchio giardino di paese e ne controllavo la decomposizione attraverso il tempo» – (9), dall'altro costituisce la via più onesta del suo essere insieme «scultrice, insegnante, casalinga-madre» (10). Le immagini seriali non comportano solo una realizzazione che necessita dell'uso di macchine, è lo stesso risultato finale a dimostrarsi insufficiente. La chiarezza dell'immagine, la precisione del disegno, la nitidezza della linea, la netta alternanza di pieni e vuoti, i bordi lisci e continui, che non lasciano spazio ad ambiguità nel riconoscere dove l'opera inizia e finisce. Panaro non vuole asserire, vuole affermare argomentando. E l'argomentazione è un processo, è fatta di riflessione e di dichiarazioni, di slanci e di insistenza, a volte di ripensamento e poi di rilancio. Il suo impasto non ha la soffice forma di un lievitato, come appunto in Claes Oldenburg (a più riprese e coerentemente citato nelle trattazioni sul lavoro di Rosa Panaro). È piuttosto una materia a cui affidare la pressione delle mani e del pensiero, sapendo che non tradirà, non diventerà altro da sé (dal sé dell'artista), ma conserverà quell'impressione a lungo, la suggellerà nel solidificarsi. Ecco che allora la sua vena pop, quella che si traduce nelle serie ipertrofiche dello stesso soggetto, nella riproduzione di immagini comuni e anzi popolari - non tanto nel senso americano di popular, “famose”, quanto proprio in quello italiano di “semplici e alla portata di tutti” - abbandona la via industriale, peraltro legata fino a quel momento nel suo lavoro alla questione dell'immagine del corpo femminile nella società del boom economico, e fa ritorno a una manualità artigianale, che trova senz'altro riscontro in una tradizione di lunghissimo corso, dai presepi alle maschere alle macchine processionali, ma anche nella sua assonanza con l'azione del cucinare, preparare nutrimento, propria appunto della maternità – scegliere, dosare, mescolare, impastare, formare, conoscere i tempi e i comportamenti della materia. Non è tutto. La subalternità della donna va di pari passo con la tecnocrazia della civiltà delle macchine - lo chiariranno i manifesti che Rosa firmerà con le sue compagne nei gruppi di cui farà parte alla fine degli anni '70 - che allontana gli uomini dalla loro origine, dalla madre e dalla terra, infine dalla natura. Ancora un motivo per allontanare le resine plastiche e i loro procedimenti.
Il tema del corpo della donna tuttavia non lascerà più il lavoro di Rosa Panaro. Anche quando i suoi soggetti diventano noci, pesci, frutti di mare e salamandre, la liberazione del corpo femminile dagli stereotipi imposti dalla società maschilista avviene attraverso la sua identificazione con il corpo dell'artista, che agisce e genera la forma seguendo l'intelletto e l'istinto. Prendono allora vita noci e gherigli, frutto chiuso e frutto aperto; i melograni, spaccati, che lasciano vedere i loro semi rossi; le pannocchie, piene di mais che fa capolino dalle foglie. Di nuovo, il corpo femminile, ora scoperto, traboccante, fecondo. Questa rinnovata e più matura consapevolezza, che permea il percorso dell’artista in quegli anni, si traduce nell’elaborazione di un nuovo vocabolario formale, che per certi versi riprende i riferimenti al mondo naturale degli esordi, conferendogli significazioni radicalmente mutate. Nel 1972, in occasione della VII Rassegna d’arte del Mezzogiorno al Museo Pignatelli, Panaro espone sculture a forma di gherigli e di noci intere. Scrive Nicola Spinosa nel catalogo della mostra: «[…] nel caso di queste noci antropomorfiche il processo di feticizzazione del sesso e di mitizzazione dell'atto sessuale non comporta - come di frequente si è verificato per molte esperienze artistiche contemporanee - un atteggiamento di sgomento o di angoscia dinanzi all'oggetto-tabù della nostra civiltà occidentale» (e come potrebbe, aggiungeremmo, nel momento in cui è una donna stessa a mettere in atto quella feticizzazione in senso dissacratorio?), «[…] Per Rosa Panaro è proprio il ritorno ad una cognizione del sesso come parte integrante alla natura […] con la conseguente fusione dell'amore fisico e dell'amore per la natura in una sorta di misticismo neopaganeggiante - che libererà l'uomo moderno dalle angosce e dai complessi procuratigli dai falsi miti della nostra cultura contemporanea» (11). In questa confluenza-congruenza tra pensiero femminile (prima ancora che femminista) e riconsiderazione del rapporto con la natura sta il nucleo concettuale del lavoro sviluppato da qui in avanti, su cui si innesteranno azioni, partecipazioni a collettivi artistici femministi e i successivi cicli in cartapesta degli anni Ottanta.
Tra maggio e giugno del 1973, in quel Centro d’Arte Europa che fu la prima avventura espositiva del gallerista Peppe Morra, Rosa espone per una sua personale nuovamente i gherigli e le noci intere, insieme con una monumentale pannocchia e grandi melograni in cartapesta. Ne scrive Cesare Vivaldi: «L'oggetto è imbalsamato, come per essere collocato in una campana di vetro, ma non sterilizzato: questo il punto. La fissità della morte è assente da esso, così umanamente ricco di fremiti nella sua materia, la cartapesta, popolare e rustica e insieme raffinatissima» (12). Come non ravvisare, nel processo di essiccazione della cartapesta, quella vivida curiosità di bambina che la portava, nel giardino della sua casa natale a Casal di Principe, a controllare la decomposizione attraverso il tempo degli impasti custoditi nelle scatole? Scatole che divengono ora teche in plexiglass sotto cui giacciono, protetti come vestigia sacre, i frutti e i pasti della serie denominata appunto Reliquiarium, in omaggio alle sue visite d’infanzia alle reliquie conservate nella Chiesa del Gesù Nuovo (13).
Questa irriducibile tensione tra il mondo vivo della natura e il suo sconfinare entro le forme mummificate della cartapesta, che è poi tutt’uno con il memento mori delle nature morte barocche, diventerà, nel giro di un paio di mesi, figurazione di uno spettro reale, quello dell’epidemia di colera a Napoli. È agosto quando, non si sa bene da dove, inizia a diffondersi il contagio (14). Ma prima e più della malattia, che provocherà un numero di vittime circoscritto, dilaga la paura, insieme con l'ipotesi sull'origine del morbo che diventa vociare, ripetizione, ossessione. «Si diceva le cozze, le cozze e i pesci, i pesci avariati... Tutti ripetevano che la causa del colera erano i pesci e le cozze. E allora mi misi a fare queste cozze e questi pesci, anche di grandi dimensioni» (15); grandi come lo spavento, forse, come l'angoscia di essere colti dal virus e di non avere scampo, o grandi quanto grande era il vociare sull'epidemia e sulle sue conseguenza. Frutti di mare, pesci, lische sono la reificazione di un sentimento comune, colto però ancora una volta con quella sagace ironia dai risvolti esorcizzanti. Del 1974 sono le tre personali, una alla Galleria Carolina di Portici e La ballata delle cozze e Mitilomania allo Studio Ganzerli, mentre nella serie Reliquiarium esposta alla collettiva alla Galleria Colonna compaiono, ancora in cartapesta, piatti di spaghetti con le cozze (16). Dal mitile e dal pesce al pasto il passo è breve: sono incriminati così anche i piatti della tradizione napoletana, in una caotica messa al bando di pietanze che nell’immaginario dell’artista diventano vittime inconsapevoli da riabilitare. Non a caso il sottotitolo di Mitilomania è Cozze salvate e preservate, si presume dalla pubblica invettiva. Il mondo animale, con il quale la ricerca di Panaro si è intrecciata già dalla fine degli anni Cinquanta, diviene, nella congiuntura temporale tra l’intensificarsi dell’interesse dell’artista verso le questioni sociali e la diffusione del colera in città, il catalizzatore di sospetti che si trasformano in credenze e ossessioni (la colpa attribuita ai mitili di aver veicolato il virus). Nella prassi artistica di Rosa Panaro, la riproduzione di cozze e pesci si configura come declinazione plastica e rituale di una voce che corre di bocca in bocca, offrendo allo stesso tempo una possibilità di esorcizzazione di una paura collettiva anche attraverso un umorismo che dà a quella stessa paura una versione formale ipertrofica. Si tratta di un passaggio in cui l’animale è associato, in toni più e meno seri, con la morte. Eppure nel percorso dell’artista l’elemento zoomorfo, spesso ricondotto a miti e credenze popolari, comparirà come presenza magica e in alcuni casi salvifica.
Avviene in questo frangente temporale lo sconfinamento oltre i limiti della scultura, più precisamente negli ambiti del collage e della poesia visiva. E forse non è un caso se questo avvenga di pari passo con l’elezione della cartapesta, vale a dire con il maneggiare carta stampata a cui dare di volta in volta nuove forme, riconfigurare i caratteri e le parole conferendo alla materia nuovi contesti significanti. Nel ‘72 Panaro aveva preso parte all’impresa collettiva di Operazione Vesuvio, con cui, su impulso della galleria Il Centro di Dina Carola, il critico Pierre Restany aveva invitato un gruppo di artisti di provenienze diverse a immaginare proposte di reinvenzione del vulcano. In quell’occasione aveva presentato il fotomontaggio Rosa che esplode dal Vesuvio insieme alle sue noci (17), sorta di materializzazione festante e catartica delle paure legate alla possibile eruzione del Vesuvio. L’anno seguente realizzerà un collage anche per la locandina di Mitilomania, su cui incolla sagome di cozze, mentre in occasione della mostra di Portici esce il libello di Luciano Caruso Rosa Rosae, in cui al flusso di parole della dedica si accompagnano poesie visive firmate da Caruso e Panaro (18). Un legame con quelle correnti d’avanguardia che si configuravano come variegati contenitori destinati a ricevere più ampio riconoscimento nel contesto nazionale, e che ancora una volta Rosa intesse proseguendo però su una linea del tutto personale. Stralcio, se vogliamo, dell’opera in cartapesta, il collage (anche sotto forma di poesia visiva) è assimilabile all’assemblaggio di materiali diversi nelle sue sculture degli esordi come in quelle successive, ma anche alla processualità tecnica della cartapesta stessa, con i suoi brandelli di fogli di giornale impastati e spalmati, ed è assai ricorrente sotto forma di firma, data e didascalia: quasi come a relegare, di nuovo demistificatoriamente, quel procedimento storico delle prime avanguardie ai margini dell’opera.
Appartengono a questo periodo anche le pizze, pure nella serie delle reliquie, rigorosamente “sotto vetro”: come i piatti di spaghetti al pomodoro e di pasta ai frutti di mare (19), spesso fissate nello stato di un determinato momento del loro consumo, come lasciate all’improvviso, ancora le posate nel piatto, destinate a diventare testimoni fossili dei nostri consumi. Proprio al consumo si lega la sua prima azione Scambio (Pummarole), durante la quale nel 1975 al mercato rionale di Mergellina baratta con un venditore di verdure un pomodoro in cartapesta per pomodori veri, come atto di protesta verso gli sprechi di una sovrapproduzione che superava le esigenze di mercato e a causa della quale venivano mandate al macero le materie prime.
Affiora, sempre meno sotto traccia, una sensibilità alle tematiche ambientali che si riallaccia direttamente alla rilettura del ruolo femminile nella società entro un più ampio ripensamento del suo legame con la natura. Riannodando i fili di una riflessione avviata con le prime noci, il frutto è la donna ed è la natura, che sono quindi la medesima cosa. Dunque la coltura è gestazione, e la gestazione è atto creativo. Di qui la decisione di portare, ancora nel ’75, i suoi allievi del liceo artistico ai piedi di Castel Nuovo – sarà casuale la scelta di questo tra i castelli napoletani, che in città è più comunemente chiamato Maschio Angioino? – a piantare semi da cui nasceranno copiosi e gravidi melograni. «La prima donna in Campania a sperimentare l’azione nello spazio pubblico, in solitudine, è Rosa Panaro» (20), e l’azione nello spazio pubblico va di pari passo con l’impegno sociale e l’adesione ai gruppi femministi. Questa fase – iniziata nel 1977 con la mostra La donna ha il cervello troppo piccolo per l’intelletto ma sufficiente per l’amore presso la Galleria Lucio Amelio, a cui partecipa con le compagne del Collettivo XX (21), e proseguita, fra l’altro, con l’approdo alla Biennale del ’78 con il Gruppo Donne/Immagine/Creatività – è stata altrove ampiamente indagata da Stefano Taccone (22). Basterà qui dire che, se in questo giro d’anni Panaro ha a più riprese preso parte a formazioni femministe che facevano dell’operazione artistica un momento fondamentale di militanza, entro il quale l’atto estetico si configurava come intervento diretto nella realtà più che come speculazione teorica rivolta ad élite colte (23), va sottolineato come il suo personale percorso sperimentale fosse da un lato già portatore di istanze confluite nei manifesti collettivi, dall’altro ne assorbisse gli stimoli – certamente dettati da un quadro culturale più ampio quale era quello degli anni Settanta in Italia. Nel manifesto della mostra-intervento Resistenza x l’esistenza (1979) firmato dal collettivo x (24) si legge: «Se con la nostra operazione proponiamo il recupero simbolico dei sensi e degli elementi primari, è proprio perché pensiamo che bisogna rieducare l’umanità ad un rapporto corretto e consapevole con essi» (25). Si può facilmente rintracciare, in queste parole, il caparbio e definitivo ritorno a quel lavoro che richiedeva l’affondare le mani nell’impasto di cartapesta, di tanto in tanto affiancata da inserti in cemento, da sabbia e conchiglie. Il tatto, prima di ogni altra cosa, poiché è forse il più femminile dei sensi, quello legato alla carne, e che la civiltà industrializzata ha ridotto fin quasi ad annullarlo all’interno del processo produttivo.
Gli anni Ottanta si aprono con un ritorno al lavoro individuale e alla scultura in cartapesta (26). Pur nella differenza delle sue declinazioni, la presenza di una figurazione zoomorfa (presente fin dagli esordi del suo percorso) e antropomorfa si configura, accennavamo, come elaborazione di una mitologia personale volta da un lato all’elaborazione del lutto – stadio estremo di paranoie collettive –, dall’altro all’autoaffermazione femminile. Alla Galleria Colonna, nel 1982, si tiene la sua personale Metamorfosi di Lilith, ciclo al quale ha lavorato negli ultimi due anni. Panaro è reduce dall’esperienza dei collettivi femministi, con cui ha realizzato performance ed esposizioni a Napoli, Roma, Bologna, Venezia. Riprendendo quella dimensione mitica e magica che pure l’aveva interessata nelle primissime sculture (cui si aggiungeranno, ad esempio, la ricorrenza nel suo lavoro della salamandra, animale considerato apotropaico per la capacità attribuitagli di uscire indenne dalle fiamme, o delle colombe, negli anni Novanta), la sua ricerca si concentra ora sulla figura di Lilith, prima moglie di Adamo, come lui creata da Dio dalla polvere e fuggita dopo aver appreso della disparità della sua condizione rispetto al marito a fronte di un’identica genesi. Lilith, descritta dalla letteratura come demone e associata a tempeste e calamità, è rappresentata nelle sculture di Panaro con le fattezze di una donna alata. Un’iconografia che tradisce, al pari di un’opera successiva dal medesimo aspetto e intitolata Partenope (1994), il riferimento alla figura della sirena – anch’essa malvagia nella tradizione letteraria greca – come riportata dalla mitologia classica, metà donna, metà uccello. Se le ali rimandano alla dimensione del viaggio, e metaforicamente del passaggio da uno stadio a un altro stadio (donna-animale), il personaggio biblico incarna la presa di coscienza di una nuova condizione femminile di liberazione e autodeterminazione che si concretizza nel momento in cui la donna-Lilith-Rosa spicca il volo (27). In questo atto di liberazione – termine che l’artista usa volutamente in luogo di “emancipazione”, da lei ritenuta illusoria poiché continua a relegare la donna in una condizione di compiacimento dell’uomo (28) – «Lilith si spoglia oggi della vecchia pelle per raggiungere la pienezza dell’essere» (29); così, passando per l’identificazione-incarnazione in tutte le donne (Lilith Liana, Lilith Laura, Lilith Lalla) e nei ruoli che di volta in volta le sono stati attribuiti (Lilith Luna Nera, suo corrispettivo astrologico), la donna primordiale può finalmente librarsi per sfuggire al mondo di convenzioni nel quale è intrappolata per essere pienamente se stessa: «Non a caso, infatti» scrive Vitaliano Corbi in una recensione alla mostra, «Lilith, nell'opera che chiude il ciclo, lascia cadere la sua ultima maschera e le ali, come spoglie di un passato di cui vuole liberarsi: il momento dell'interpretazione del mito è nello stesso tempo il momento della morte del mito, del suo dissolversi di fronte alla realtà» (30). Trascendendo le sue infinite manifestazioni, da noce a melograno, da grande pesce a Lilith, nella traiettoria figurale di Rosa Panaro la donna sembra infine riacquisire essa stessa valore apotropaico e salvifico nella serie delle Erme esposte nel 1988 a Palazzo Reale (31), icone beneauguranti e affrancate da ogni riferimento temporale, in cui si uniscono reminiscenze classiche, egizie, barocche, contemporanee, ancora una volta con una modellazione ampia e frastagliata, in cui però l’aspetto decadente di pizze e piatti di pasta cede definitivamente il posto un cromatismo vivace.
«Ciò che resta costante nei procedimenti di Panaro», aveva scritto Filiberto Menna, «è il gusto della messa in scena, la capacità di trasformare le immagini in figure animate, in attori di un evento che è insieme plastico e teatrale» (32). Dalla grande pannocchia che invadeva il pavimento del Centro d’Arte Europa alle lische colossali che non concedevano scampo all’ossessione, fino alle monumentali Lilith (che monumentali restavano pure quando di dimensioni ridotte), l’intervento nello spazio si è configurato sempre come necessità di impegno nella realtà, in un territorio quotidianamente vissuto, e in questo senso le sue azioni al Maschio Angioino, a Mergellina, e poi altrove con i collettivi, si inserivano nella medesima esigenza di concretezza, in quella ricerca di un’esperienza condivisa che fosse corporea oltre (e forse prima) che intellettuale, poiché considerata imprescindibile punto di partenza per ogni altra riflessione di sorta.
Dopo il ritorno a temi mitici e biblici riletti alla luce di una centralità dell’immagine della Natività-maternità (si veda la serie dei Presepi alla fine degli anni ’80), nella produzione degli anni Novanta e Duemila, l’artista si assesta su procedimenti già consolidati (cartapesta, cemento, ceramica, collage), aggiornando le tematiche a lei care, ruolo della donna e questione ecologica in primis, a quanto avviene nell’attualità. Così, se in occasione delle celebrazioni del bicentenario della Repubblica Napoletana del 1799 realizzerà una serie collage-ritratto nelle cui sembianze si mescolano i protagonisti di quella rivoluzione a icone più recenti – fino a ibridare il volto della stessa Eleonora Pimentel Fonseca con il suo – (1999) (33), in opere come Cormorano incatramato (2002) e nei montaggi delle Donne-burqa (2002) Panaro rielabora le urgenze della cronaca quotidiana.
Legato il suo lavoro alla produzione in cartapesta, certamente prevalente, e con la lotta femminista, che senza dubbio attraversa la sua poetica prima, durante e dopo la sua effettiva adesione ai gruppi militanti, Rosa Panaro ha attraversato, mescolandoli felicemente e senza pregiudizio, linguaggi diversi, all’instancabile ricerca delle maggiori possibilità di libertà espressiva. In un contesto cittadino che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, iniziava timidamente ad aprirsi ai linguaggi delle avanguardie, e in una più generale indifferenza (o negazione) rispetto alle traiettorie di artiste donne, Rosa Panaro si è aperta una strada solo sporadicamente giunta oltre i confini regionali, nella quale tuttavia è riuscita a condensare con appassionato e irrinunciabile impegno un alfabeto estetico del tutto originale che non ha ancora trovato piena luce, guadagnando il suo posto nell’arte italiana del secondo Novecento.
Avviato poco prima della sua recente scomparsa, questo contributo cerca di aggiungere un tassello al delinearsi di una traiettoria che è stata insieme artistica e di vita, nell’intento di conservare, nella ricostruzione di passaggi e vicende, la chiarezza del suo pensiero e della sua voce.

 Aprile 2022
(1) II mostra di arti figurative, a cura dei Gruppi Giovanili D.C. Napoli, catalogo della mostra, Napoli, 1957.
(2) Si tratta dell’abitazione di Rosa Panaro e del marito, l'artista Tony Stefanucci. Cfr. L. P. Finizio, La scultura di Antonio Venditti, Campobasso, Edizioni Enne, 1984, pp. 84-85.
(3) Cfr. Fuori dall’ombra. Nuove tendenze nelle arti a Napoli dal ’45 al ’65, catalogo della mostra, Napoli, Elio De Rosa, 1991, pp. 354-355.
(4) La scultura è realizzata in legno, ferro, colla, cartapesta, pittura, plastica, tessuto, piume, corde, capelli, siringhe. Cfr. Rosa Panaro, Galleria Sandy Brown: https://www.sandy-brown.com/exhibitions/qc4VUMG/curated-by-francesca-lacatena-sandy/ewDn1D4/rosa-panaro-la-famiglia-1963/ (consultato il 5 aprile 2022).
(5) Manifesto del Gruppo 58 – Movimento di pittura nucleare, in S. M. Martini, L’impassibile naufrago. Le riviste sperimentali a Napoli negli anni ’60 e ’70, catalogo della mostra, Napoli, Guida, 1986, p. 40.
(6) O. Ferrari, Rosa Panaro, dal catalogo della mostra Prospettive 4, Roma 1969, in L. Caruso (a cura di), Avanguardia a Napoli (Documenti 1945-1972), catalogo della mostra, Napoli, Galleria Schettini Editore, 1976.
(7) Cfr. F. Alfano, Rosa Panaro, biografia, in Fuori dall’ombra (cit.) e A. Troncone, Rosa Panaro, in V. Trione (a cura di), Atlante dell’arte contemporanea a Napoli e in Campania 1966-2016, Milano, Electa, 2017, pp. 175-176.
(8) Cfr. M. G. Gargiulo (a cura di), Per una storia delle arti decorative del ‘900 a Napoli. Ceramiche dal Liberty all’esperienza della Mostra delle Terre d’Oltremare, Napoli, stampa Effegi, 2016.
(9) R. Panaro, in M. Bignardi (a cura di), Confronto in scultura, catalogo della mostra, Salerno, Edi.Sal, 1983, p. 74.
(10) Ibidem.
(11) N. Spinosa, scheda, in VII Rassegna d’arte del Mezzogiorno, catalogo della mostra, Napoli, Luongo, 1972, pp. 67-68.
(12) C. Vivaldi, in Rosa Panaro, brochure della mostra, Napoli, Centro d’Arte Europa, 1973: http://www.interviu.it/gallery/panaro/album1.htm (consultato il 5 aprile 2022). Una veduta della mostra è pubblicata nel volume di V. Corbi, Quale Avanguardia? L’arte a Napoli nella seconda metà del Novecento, Napoli, Paparo Edizioni, 2002, immagine n. 186 (s.p.).
(13) Cfr. R. Panaro, in M. Bignardi, op. cit.
(14) Vd. M. Anselmo, La città infetta. Il colera a Napoli del 1973, in «Rivista Il Mulino», 10 maggio 2021: https://www.rivistailmulino.it/a/la-citt-infetta-il-colera-a-napoli-del-1973 (consultato il 5 aprile 2022).
(15) Rosa Panaro in una conversazione con chi scrive, 2016.
(16) Vd. Balatresi Panaro Persico Pirozzi Rezzuti, catalogo della mostra, Napoli, Galleria Colonna, 1974.
(17) Cfr. F. Menna, Un singolare avvenimento, in «Il Mattino», 15 giugno 1972: http://www.fondazionemenna.it/menna-digit/un-singolare-avvenimento-15-6-1972 (consultato il 5 aprile 2022).
(18) L. Caruso, Rosa Rosae. Con una testimonianza di Enrico Bugli, 1974.
(19) La serie è stata recentemente esposta alla Galleria Sandy Brown di Berlino in una personale curata da Francesca Lacatena. Vd. Rosa Panaro, Reliquiarium, Sandy Brown, 2020: https://www.sandy-brown.com/exhibitions/I5Cyo5K/reliquiarium-sandy-brown-berlin-2020/ (consultato il 5 aprile 2022).
(20) S. Taccone, La donna ha il cervello troppo piccolo per l’intelletto ma sufficiente per l’amore. Gruppi femministi a Napoli, in «Hotpotatoes», 19 dicembre 2021: http://www.hotpotatoes.it/2021/12/19/gruppi-femministi-a-napoli/ (consultato il 5 aprile 2022).
(21) S. Taccone, Non solo Beuys. Critica istituzionale, spazio pubblico e questioni di genere nell’attività di Lucio Amelio, in A. Viliani (a cura di), Lucio Amelio. Dalla Modern Art Agency alla genesi di Terrae Motus (1965-1982). Documenti, opere, una storia..., catalogo della mostra, Milano, Electa, 2014, p. 67.
(22) S. Taccone, La cooperazione dell’arte: La pratica artistica verso la vita in area campana. La stagione dell’arte nel sociale e storie simili, Casalnuovo, Iod Edizioni, 2020.
(23) Tale aspetto è stato opportunamente messo in luce da M. Seravalli, Separare l'arte. La militanza come strumento di lettura dei rapporti tra le artiste e il femminismo degli anni Settanta, in C. Casero, E. Di Raddo, F. Gallo (a cura di), Arte fuori dall’arte. Incontri e scambi fra arti visive e società negli anni Settanta, Milano, Postmedia Books, 2017.
(24) Vi partecipano: Tomaso Binga, Ela Caroli, Marina Cianetti, Pina Ciccariello, Cristina Di Geronimo, Valeria Dioguardi, Francesca Menna, Rosa Panaro, Maria Roccasalva, Bruna Sarno, Adele Vittorio.
(25) collettivo x, Resistenza x l’esistenza, manifesto della mostra-intervento tenuta in occasione del convegno “Donne e antifascismo”, organizzato dall’Istituto campano per la storia della Resistenza, Napoli, Chiostro di Santa Maria La Nova, 10-11 marzo 1979.
(26) «[…] i materiali tradizionali […] in particolare il bronzo, non mi consentivano di ‘concludere’ in prima persona gli oggetti. Le resine plastiche […] mi sembrava rispondessero meglio alle richieste della civiltà delle macchine e poco alle esigenze di una donna del sud quale io sono e mi sento profondamente. Al contrario l’uso della cartapesta mi sembra più naturale perché permette di produrre l’opera nella sua interezza annullando quella sensazione di espropriazione che l’uso degli altri materiali reca con sé», R. Panaro, in L. Capobianco, A. Spinosa, Parlando con Rosa, in Metamorfosi di Lilith, catalogo della mostra, Napoli, Galleria Colonna, 1982 (s.p.).
 (27) Scrive l’artista: «Mi capitò di leggere, a proposito del mito di Lilith sulle versioni bibliche, un brano in cui Lilith chiede ad Adamo “… perché essere soverchiata da te? Eppure anch’io sono fatta di polvere e quindi sono tua uguale?” Adamo non risponde: la legge divina non ammette mutamenti. E Lilith vola via lontano, verso le sponde del mar Rosso. È stato forse quest’atto di ribellione, quest’ansia di libertà che mi ha affascinato», ibidem.
(28) Si veda la testimonianza di Rosa Panaro in S. Taccone, La donna ha il cervello troppo piccolo…, cit.
(29) R. Panaro, in L. Capobianco, A. Spinosa, op. cit. Nell’immagine di Lilith che “si spoglia della vecchia pelle” si ravvisa peraltro una continuità con la mostra personale curata da Ela Caroli nel 1984 e intitolata La pelle del serpente. Qui la muta è legata al ciclo delle stagioni, a quella circolarità del tempo che in Metamorfosi di Lilith era rappresentata dal simbolo dell’Uroboros, figura egizia di serpente o drago che si morde la coda formando un anello.
(30) V. Corbi, Le facce di Lilith attraverso le sculture di Rosa Panaro, in «Paese Sera», 14 marzo 1982, ripubblicato in V. Corbi, op. cit., p. 74.
(31) V. Corbi, G. Grassi, A. Izzo, Napoliscultura, catalogo della mostra, Napoli, A & C Italia, 1988
(32) F. Menna, La messa in scena di Rosa, in Metamorfosi di Lilith, op. cit., (s.p.).
(33) Vd. 99 Rosa Panaro, catalogo della mostra, Napoli, Altrastampa Edizioni, 1999.