www.unclosed.eu

arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Un dialogo con Gennifer Deri

Lucilla MeloniIcoPDFdownload

Lucilla Meloni:
Si è appena conclusa la tua personale alla 28 Piazza di Pietra Fine Art Gallery a Roma. Hai presentato lavori site- specific che rispetto alla tua precedente produzione segnano un ulteriore passaggio. Infatti qui i dettagli di parti del corpo umano, decostruiti e poi rimontati, si presentano sotto una nuova forma: espansi nello spazio, articolati su diversi supporti, possono sembrare tanto paesaggi, quanto forme astratte; ad ogni modo luoghi dell’ambiguità.
Iniziamo dalla scelta del titolo: Decrypt for-mat.
Gennifer Deri: L’ambiguità dell’immagine, la duplice lettura che porta in sé, è stato fin da subito uno degli elementi caratterizzanti la mia ricerca artistica: “l’immagine del corpo” diviene “il corpo dell’immagine”, così come lo “spazio del corpo” si fa “corpo dello spazio”, la forma diventa in questo caso una deformazione che “in-forma” l’osservatore dell’esistenza di una possibile altra visione del sé. Allo stesso modo Decrypt for-mat significa “decriptare la materia” ma anche “decriptare il formato”, non dissimile dalla scrittura dove le parole cambiano di significato in base all’affiancarsi di altri vocaboli o contesti discorsivi. Così io reinvento un sistema comunicativo in cui l’immagine del corpo funziona proprio come le parole, come espediente per avviare un dialogo che si fa continuo tra osservatore ed opera. Decrypt for-mat è un esperimento, un tentativo di portare le persone a mettere in discussione la percezione di sé, a mettere in discussione la propria identità e a prendere in considerazione il fatto che non esiste una percezione oggettiva di realtà, bensì la percepiamo e la significhiamo in base a quello che è il nostro bagaglio educativo-culturale. La questione è che noi crediamo di vedere, ma per la maggior parte vediamo attraverso costrutti visivi indotti dalla società in cui viviamo, automatismi percettivi che incorporiamo nel nostro io e che iniziamo a percepire come realmente nostri e come nostro pensiero.
Uno di questi grandi mostri indotti è proprio la non percezione del corpo perché la società ha sempre mostrato il corpo, nella maggior parte dei casi quello femminile, legato ad una sfera di desiderio e vanità, dandogli così un’accezione negativa che lo traspone in una dimensione celata e non veritiera di cui non si deve parlare. Ma paradossalmente, se lo si mostra, lo si inscrive in un contesto destinato a un certo pubblico maschile.
In Decrypt for- mat ho cercato di proporre il corpo come campo d’indagine per le infinite possibilità che riveste invece nell’esistere per ciò che è e per ciò che può essere; un corpo che si fa simultaneamente catalizzatore, strumento comunicativo, una sorta di climatizzatore che permette una pulizia dell’ossigeno, fornendo la visione di una nuova possibilità di esistenza e di identità: riedificando quindi il concetto di corpo stesso.
Sai, quando presenti un’immagine del corpo così diversa da come si è abituati a vederla, all’inizio si fa fatica a lasciarsi andare perché si subisce una sorta di shock visivo, ed il nostro cervello attua dei meccanismi di difesa perché non si conosce la password per accedere a questo tipo di visione. Per questo è molto importante mantenere all’interno dell’immagine un dato informativo vivo e visibile del corpo, assieme ad una sua astrazione. Si deve trovare l’equilibrio tra contenuto ed una sua riformulazione, tra corpo reale e corpo virtuale, tra forma irregolare e non.
L.M. La tua ricerca si avvale di un principio di interdisciplinarietà: metti insieme linguaggio visivo (e tradizione dell’arte), con la matematica, con la neuroscienza. Affidi agli algoritmi le soluzioni formali. É un procedimento molto complesso il tuo: mi racconti come nasce l’immagine che vediamo davanti a noi?
G.D. Come scrive James Hillman “L’immagine è la materia di cui è fatta l’anima individuale, è solo curando il nostro modo di guardare che l’immagine diviene una sorta di terapia”. In questo senso sento di risponderti in maniera bizzarra, quanto guardandomi nella profondità dell’animo. Tutte le mie immagini hanno origine in un preciso momento, precisamente durante gli studi accademici presso la cattedra di pittura di Gianni Dessì, momento che segnò la messa in discussione del mio modo di osservare, dialogare ed operare con quel campo di avvenimenti e variabili che tutti noi definiamo realtà. Ogni volta che disegnavo il corpo della modella in posa, ciò che mi affascinava era il suo essere presente nello spazio come particella elementare nell’universo, la complessità delle forme e sfumature del suo corpo che ai miei occhi appariva come un paesaggio da scoprire e reinventare e una realtà alla quale dare un nuovo significato. L’idea di creare un codice irregolare con il quale guardare il corpo, che uscisse quindi da schemi precostituiti di visione, così come il bisogno di annullare la distanza fisica e reale che si interponeva tra me e quel corpo e a sua volta tra quel corpo e la realtà esterna e che ci definiva in quanto tali. Il capire come poter dar forma a questa fusione catartica e cosmica che immaginavo nella mia mente quasi come una corsa senza fine dietro a qualcosa che sembravo toccare ma mai afferrare. Tutto ciò si rivelò nella mia testa come una sorta di illuminazione, o non saprei come definirla, se non “presa di coscienza” del fatto che ancor prima di iniziare a riformulare una realtà a noi esterna dovevo iniziare a cambiare il modo di osservarla, di non rappresentarla.
Capii che per provare a dar forma al principio quantistico secondo cui la realtà è in continua miscelazione e non esiste alcuna spartizione tra realtà fuori e dentro noi, ma è la percezione apparentemente nostra a cristallizzarla in forme fittizie, avevo bisogno di una protesi ottica che mi permettesse di avvicinarmi al corpo così come di oltrepassarlo nell’intento di liberarlo da un suo involucro comune e riconoscibile e trasportarlo verso piuttosto una non-forma da decodificare. Sentivo il bisogno di far esplodere il corpo dai suoi confini fisici ma anche ideologici che lo hanno sempre connotato e mostrato in un certo modo, sentivo il bisogno di gettare le basi dell’idea di un terzo corpo che superasse ogni differenza di genere ed automatismo. Per me questo significa nel profondo andare oltre l’immagine. Il segno a carboncino andò sostituendosi con gesture di pixel traslati, così come la griglia di proporzione che solitamente si usa nella pittura divenne un reticolo duttile e malleabile capace di reinventare uno spazio-corpo all’interno del pc: spazio che deformo, altero e trasformo con dischi virtuali e specifiche funzioni algoritmiche. Le immagini nascono in origine da questa presa di coscienza che come ti ho spiegato fu senza dubbio rivelatrice e fondamentale. In Decrypt for-mat troviamo opere che riflettono due processi di elaborazione differenti, sebbene in entrambi i casi si originano da una visione macro ed ambigua del corpo. In alcune, pur utilizzando software algoritmi, riesco a monitorare ogni trasformazione dell'immagine su cui opero, quindi a decidere e filtrare l’immagine che ritengo “estetica”  ed “estatica”, in termini di equilibrio tra forma  e contenuto che può catalizzare l’attenzione dell’osservatore; in altre invece il processo di astrazione e formulazione è completamente affidato ai vari algoritmi, come un universo di eventi in cui io stessa non posso avere alcun intervento e monitoraggio, se non assistere all’accadimento.
L.M. È chiaro che per te il tema della percezione è fondamentale. Anche da quello che hai scritto si evince che ritieni necessario “saper guardare” a partire da se stessi per riconoscere il mondo. In questi tempi super mediatizzati è una sfida impegnativa. Pensi che l’arte abbia qualche possibilità di ridefinire i contorni del concetto di immagine, talmente ormai svilito e naufragato?
G.D. Ora più che mai noi artisti dobbiamo ridefinire il concetto d’immagine, o meglio ridefinire l’atteggiamento e il pensiero che la maggior parte delle persone adotta rispetto all’immagine, pensiero per il quale sono portate a ritenersi creatrici o ricettrici di tutti quegli status che vengono ormai credute immagini.
Non so perché le persone sentano il bisogno di esternare e di condividere ogni istante della propria esistenza, è come se il mondo dei social fosse diventato più reale e concreto della realtà in cui viviamo, come se avesse innescato una dissociazione tra mente e corpo che porta a considerare l’essere in vita un mondo virtuale e la morte in un mondo reale. Ma se iniziamo a definire tutto questo bombardamento “immagine,” possiamo altresì affermare la morte dell’artista quanto dell’arte, quindi io definirei questi segni non immagini ma piuttosto “esteriorità” o “aspetti” o forse codici comportamentali indotti dal sistema.  Basti pensare ai mondi di Facebook, Instagram così come Tik Tok: sebbene siamo costantemente esposti a migliaia di messaggi visivi per i quali siamo portati a pensare che tutto è immagine: dal cibo, alla nudità, al paesaggio, al cielo, all’animale, il vero problema è che paradossalmente siamo sempre meno capaci di vedere e quindi di creare immagini.
Per me un’immagine si definisce tale, come afferma Debray, quando nasce dalla necessità di colmare una mancanza, e non soltanto evoca e rappresenta ma rimpiazza il reale, ed è capace di rendere presente ciò che è assente. È come salire su una navicella spaziale che parte dalla Terra e ti trasporta per un tempo indefinito in un’altra realtà, poi arriva il momento di tornare sulla Terra, ed è in questo preciso istante che impari con consapevolezza l’esistenza di uno sguardo nuovo con cui ammirarla. Penso che il nostro compito sia far salire le persone sulla navicella di cui ti ho appena parlato, trasportandole in un viaggio fatto di immagini, ambienti immersivi e polisensoriali in maniera tale da riabilitarle al vedere e soprattutto a recuperare una loro soggettività. Ho sempre guardato all’artista come una sorta di “filosofo dell’immagine” inteso come creatore di una dimensione tra astratto e concreto, tra sensibile e intellegibile; come colui che guarda alla realtà, ne estrapola un dettaglio e attraverso un processo di trasformazione è in grado di reinserire quel dettaglio nella realtà stessa cambiato di segno e significato.
L.M. Il corpo è stato centrale nell’arte femminista. Declinato differentemente, come forma vera e come immagine, il corpo della donna è stato protagonista di moltissime elaborazioni. Ti poni in una linea di continuità con quelle esperienze?
G.D. Essere artiste significa prima di tutto essere nate donne. Durante il mio corso di studi feci una tesi che si intitolava “Arte e femminismo. Corpi-immagini-azioni”: fu una totale immersione nelle filosofie femministe, nelle loro teorizzazioni, nei problemi vivi che si trovavano ad affrontare in quanto donne le artiste. Questa cosa mi toccò nel profondo, perché nonostante la distanza cronologica, la sentivo come un fatto personale. Diciamo che in qualche modo mi rivedo nel femminismo degli anni Ottanta, quando con la pubblicazione nel 1985 di Un Manifesto Cyborg di Donna Haraway, si inizia a parlare di soggetto e di una sua non definizione, quindi si inizia a parlare non di uomo o donna ma in primis di persona, come in entrambi i casi di superfici materiche significate dalla cultura, da ideologie, da linguaggi e codici comportamentali. Nel corso della storia dell’arte ad esempio il corpo della donna, nella maggior parte dei casi è stato significato come oggetto di desiderio e pensato per essere guardato da un ipotetico osservatore maschio. É anche vero che l’uomo diventa una pedina al pari della donna nel momento in cui interiorizza la visione di supremazia nei confronti della donna, imposta dal sistema. Questo per dire che con il mio lavoro cerco invece di andare oltre l’immagine, il gender, oltre questi schemi culturali sociali e politici che per anni si sono sedimentati nella nostra mente, per iniziare invece a parlare di una soggettività sessualmente indifferenziata e soprattutto rianimare la soggettività che è propria di ogni individuo, aspetto che al giorno d’oggi sembra cessare di esistere nel momento cui, nella maggior parte dei casi, le persone sono la messa in scena di un’ unica identità ripetuta e obbligata da parte di codici dominanti.

Aprile 2022