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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

T293 Rome

Domenico Scudero

Simon Denny, neozelandese classe 82, è uno di quei nuovi fenomeni della scena artistica, uno che non ti aspetti di incontrare o che se lo incontri non ti riesce di capire immediatamente.

Forte di una decina d’anni d’esperienza lavorativa con presenze in mostre da Auckland a Torino, e luoghi prestigiosi come il Portikus di Frankfurt o il PS1 di New York sino alla prossima personale in rappresentanza neozelandese alla Biennale del 2015, Simon Denny propone a Roma una di quelle mostre che illuminano come un’istantanea le penombre di un contesto politico economico e con la maestria del saper rappresentare simili luoghi con il linguaggio artistico. La forza della denuncia forse risiede proprio in questo, ovvero, nel sapersi rapportare con un contesto che diverge dalla tradizione moderna dell’arte e dal suo “tutto tondo” dell’apparire mondano, producendo un assembramento di oggetti e di idee che delineano in origine la difficoltà della sintesi – come lo era nel linguaggio avanguardista – e la complessità del non voler esprimere un giudizio, per fornire al contempo opera e contesto e lasciare al fruitore la possibilità di critica.

Il succo del lavoro, presentato nella galleria T293 che nella sede di Roma agisce con metodi e linguaggi inusuali e avveniristici, consiste nel doppio binario dell’arte politica e dei sistemi aziendali le cui estetiche ci sgomentano ancora. Forse non ci siamo del tutto intorpiditi nella fissità atonale delle iniziative nate nell’ottica dell’innovazione e del cui prezzo, in termini di ipocrita identità, non vogliamo sapere. Ma Simon Denny interagendo con una multinazionale del pensiero come è TED, non ci svela soltanto i meccanismi, come avrebbe fatto a suo tempo un concettuale puro quale Haacke con il suo patrocinio svelato, ma ci informa nascostamente di come anche i fini più nobili possano nascondere insidie e malanni.

Il teatro dei segni di Simon Denny funziona un po’ come un’assordante compagnia teatrale che abbia in programma differenti spettacoli e li metta in prova insieme nello stesso teatro. Anche qui un’indicazione non irrilevante, perché ci immobilizza e ci impedisce di prendere immediate posizioni. Ci accorgiamo così solo dopo che TED ha uno scopo aulico, è un’azienda che crea significati e li diffonde con la performance della conferenza. Ha anche attirato alcune critiche come se si nascondesse dietro un atteggiamento da Scientology delle idee profane ed innovative. Inoltre TED può attirare interessi che trasformino la sua identità in qualcosa d’altro.

Simon Denny ha organizzato una delle conferenze di TED, patrocinata, marchiata, stilizzata da TED, e al suo interno cela un’alacre analisi di ciò che non si palesa, ad esempio, alcune verità sul principato Liechtenstein dove ha sede il Museo in cui l’iniziativa ha avuto inizio.

Ed è solo nella mostra, quindi al suo interno e non nella comunicazione, che si intuisce come il mondo delle grandi idee abbia un risvolto negativo, un uso per così dire improprio, e che consiste in questo caso, nella consapevolezza che questo luogo, ospite di nuove idee, vive di una idea vecchissima, ingannevole. Perché il principato così tanto ricco e perbenino altri non è che un porto franco per le grandi società che lì, come in altri luoghi offshore, hanno stabilito la loro sede societaria e che da lì, con ulteriori salti, investimenti plurimi, società di carta e quanto altro, riescono ad evadere le tasse. Un principato composto più da società che da persone, che ha il più alto reddito procapite del mondo, più alto di quello monegasco, un luogo nascosto e di cui poco si parla, quindi il posto ideale per fare affari anche non troppo legali.

Il lavoro di Simon Denny ci dice tutto questo con un allestimento che lascia stupefatti, sia per la fredda realizzazione oggettuale, da autentico “nato negli anni ottanta” che considera Jenny Holzer e Jeff Koons come Raffaello e Michelangelo, sia per la coscienza in puro stile anni Settanta concettuali, quella preistoria che con un linguaggio di oggi si direbbe il default della storia dell’arte contemporanea.