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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

La Biennale di Cecilia Alemani

Patrizia ManiaIcoPDFdownload

Sotto i cieli di una più vicina e minacciosa guerra ha aperto i battenti la 59.Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia (1). Nei giorni immediatamente successivi allo scoppio della guerra in Ucraina il fronte dell’arte si è compattato contro la guerra e in Biennale c’è stata la tempestiva emblematica scelta della chiusura del padiglione russo annunciata il 27 febbraio 2022, a tre giorni dall’inizio delle ostilità, dalle dimissioni del curatore designato, il lituano Raimundas Malašauskas, in accordo con i due artisti Alexandra Sukhareva e Kirill Savchenkov con i quali aveva progettato la mostra 914 (2). Resta ai Giardini il cancello chiuso presidiato dalle forze di polizia. Opposto è stato l’epilogo del padiglione ucraino che, nonostante i concitati timori di non riuscire a trasportare la prevista installazione Fountain of Exhaustion. Acqua Alta di Pavlo Makov, è invece salpata a Venezia rendendone così possibile l’apertura (3). Una presa di posizione ufficiale da parte dell’Ente Biennale è stata poi la realizzazione di Piazza Ucraina, che gli stessi curatori del padiglione ucraino, Filonenko, German, Lanko, insieme a Cecilia Alemani hanno curato nello Spazio Esedra dei Giardini, con la collaborazione dell’Ukranian Emergency Art Fund (UEAF) e della Victor Pinchuk Foundation e su progetto dell’architetta ucraina Dana Kosmina. Una sorta di monumento costruito con sacchi di sabbia che rimandano alla pratica cui si ricorre spesso in tempi di guerra per proteggere l’arte dai bombardamenti.
In questo turbolento clima, con lo slittamento di un anno causato dalla pandemia di Covid 19, ha preso corpo per la cura di Cecila Alemani un progetto espositivo che non ci parla di guerra pur dovendovi suo malgrado farvi i conti.
Un progetto dallo spessore complesso e diversificato, stratificato, visionario e vistosamente poliglotta, difficilmente riassumibile in un’unica formula. A guidarci è il titolo scelto, Il latte dei sogni, preso in prestito da un libro di favole di Leonora Carrington (1917–2011), fortemente evocativo ed indicativo delle tante implicazioni che hanno guidato la costruzione della mostra, a partire proprio dal mondo magico descritto dalla Carrington in cui infatti non solo la vita è di continuo reinventata e reimmaginata, ma in cui soprattutto è lecito scegliere di trasformarsi e diventare altro da sé. È proprio l’anima surrealista, all'insegna delle metamorfosi e dei sogni che disegna lo scheletro della mostra, confidando anche sull'intensità straordinaria di alcune visioni, e che si snoda come di consueto nelle sedi storiche dei Giardini e dell'Arsenale.
Su questa base, provando a sintetizzare i tanti rivoli suggeriti dall'assunto, il percorso può dirsi rispecchiato da tre principali sottotemi: la rappresentazione dei corpi e appunto le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; e, infine, i legami che si intrecciano tra i corpi e la terra. Lungo un asse temporale disteso cronologicamente per più di un secolo, tra storie di esclusione e controstorie -vero mainstream della mostra-, il contrappunto è dato dalle cinque “capsule del tempo” che, sul presupposto di scrivere un'altra storia, fanno dell'esposizione una matrioska di più mostre in una mostra. Involucri del tempo, "le capsule tematiche - scrive Alemani - arricchiscono la Biennale con un approccio trans storico e trasversale che traccia somiglianze ed eredità tra metodologie e pratiche artistiche simili, anche a distanza di generazioni, creando nuove stratificazioni di senso e cortocircuiti tra presente e passato" (4). Nelle capsule sono raccolti opere, oggetti, documenti, rigorosamente iscritti in un universo femminile e non binario, chiamati a descrivere una costellazione di richiami che abdica al sovranismo filologico di tanta prevalente storiografia per assecondare simbiosi scoperte, affinità trovate, e, come scrive Alemani "simpatie e sorellanze". Già, perché - ed è questo un ulteriore tratto peculiare alla mostra- le traiettorie prescelte hanno incluso per la prima volta nella storia dell'istituzione veneziana un numero di artiste donne e di "soggetti non binari" di gran lunga superiore alla media consueta nel deliberato tentativo di riscattare quella parte di creatività trascurata o a cui comunque si è data nel tempo scarsamente voce.
L'intento palese, marcatamente sottolineato nelle premesse, è dunque stato quello di una riscrittura della storia amplificata da agganci inediti e ulteriori. Una priorità di cui si fa carico il progetto espositivo nella sua interezza superando steccati disciplinari che legittimano tra gli artisti la presenza anche di intellettuali, scrittori, scrittrici, danzatrici. Finendo in tal modo per ridisegnare la gerarchia e la geopolitica dell'arte per il tramite di folgorazioni la cui intrinseca qualità si determina fin dalla scelta di provare a restituire quei tanti tempi e spazi finora negati.
Sotto la cupola di Galileo Chini, nel Padiglione centrale ai Giardini, ad accogliere il visitatore è l'elefante di poliestere e legno di Katharina Fritsch (5). Immenso, seppure a grandezza naturale essendo stato ricavato dal calco di gesso di un elefante impagliato conservato presso il Zoologisches Forschungsmuseum Alexander Koenig di Bonn, la sua imponenza risveglia immaginari plurimi che attengono alla terra, alla prosperità, alla memoria e alla sacralità della vita e della morte. Ma sollecita anche, in virtù della sua genesi formale, una riflessione sul museo, su quel che conserva e su come lo conserva. È il cuore di questo viaggio che si nutre via via della coscienza politica, femminista (in tal senso appare quasi paradigmatico il recupero delle memorie artigianali femminili dei "quadri a maglia" di Rosemarie Trockel) e di  concerto del visionarismo di e su soggetti altri (come mostrano gli ibridi radicali di cristallo di Andra Ursuţa).
Contrappunti e sorellanze che chiamano in causa fin da subito differenti latitudini, come da un lato, con Trockel, gli intrecci e le tessiture in canapa tinta delle grandi sculture dell'indiana Mrinalini Mukherjee,  e dall'altro, con Ursuţa, "i mondi della vita" dell'etiope Merikokeb Berhanu.
A ritroso nel tempo, a rievocare le mostre e la poetica del Surrealismo - passaggio ineludibile - è la prima delle cinque capsule contrassegnata da un allestimento su fondo ocra scuro. L'ingresso in ognuna delle cinque capsule è infatti segnalato, oltre che dai pannelli descrittivi, dall’allestimento e dal colore che la caratterizza, il che consente fluidamente, senza cesure nette, il passaggio in questi gusci che pur perimetrano e insieme proteggono e salvaguardano eccentriche nicchie di pensiero storico. Dunque qui, nella prima capsula intitolata "La culla della strega" si guarda ad opere e sogni di artiste delle avanguardie storiche tra cui, oltre alla stessa Leonora Carrington, Leonor Fini, Dorothea Tanning e Carol Rama. Metamorfosi, ambiguità, frammentazioni, storie, come si sottolinea, di "corpi disobbedienti" con l'eloquenza aggiuntiva anche dei brevi filmati su Josephine Baker e Mary Wigman.
Con un buon salto temporale, la capsula del "Corpo orbita" si ispira alla mostra "Materializzazione del linguaggio" che Mirella Bentivoglio curò per la Biennale del 1978 proponendo per la prima volta in questo contesto istanze femministe (si parlò all'epoca addirittura di 'ghetto rosa' della Biennale). Uno spunto, non un remake, che porta ad estendere la riflessione anche al linguaggio corporeo e spirituale. Oltre alle opere della stessa Bentivoglio, Tomaso Binga, Ilse Grenier, Giovanna Sandri, i lavori e gli scritti di Djuna Barnes, Gisèle Prassinos e, tra gli altri, i richiami alle vicende della controversa vita della medium Eusapia Palladino.
Linguaggi dunque in un'accezione ampia, echeggiati anche dalle ricerche sui segni di Carla Accardi e dalle azioni performative di Lenora De Barros fissate nelle fotografie della serie Poema (Poem) (1979-2014) che si traducono in un vero e proprio corpo a corpo tra "lingua" e "macchina". E ancora, fuori dalla capsula, pensati come organismi viventi nelle azioni performative di Alexandra Pirici che nell'Encyclopedia of relations (2022), di continuo performata da un gruppo di danzatori, sviluppa la pratica del contagio trasferendo l'azione di corpo in corpo in una sorta di partenogenesi gestuale.
Ad aprire il percorso all'Arsenale la monumentale Brick House (2019) di Simone Leigh che fonde corpo e architettura all'insegna di una rivendicazione del potere del corpo femminile riscattato da pregiudizi di genere e di razza. Una colonna nella costruzione della soggettività Black Femme che le è stata riconosciuta anche con l’attribuzione del leone d'oro come migliore partecipazione alla mostra e che troviamo ribadita anche nel padiglione statunitense nel suo assolo dall'esplicito titolo di "Sovereignty" (6).
Distante nelle premesse e tuttavia su un registro affine di contiguità tra corpi e architettura si mostrano i cinque forni di argilla di Gabriel Chaile in cui la "geneologia della forma", chiave metodologica del suo operare, dà vita ad un inedito ritratto di famiglia. Vi si affianca in bidimensione l'architettura dipinta nelle tele dell'artista di origine eritrea Ficre Ghebrejesus tassellata in partiture/alveoli memori delle composizioni narrative della cultura originaria.
Architetture/corpi, forni, alveoli che preludono ad un'altra capsula storica ispirata agli scritti di fantascienza e al prodursi di una narrativa che sceglie come segni del corso del tempo gli oggetti utili alla raccolta e alla cura come appunto borse, sacche, contenitori. Il lunghissimo titolo di questa capsula "una foglia/ una zucca..." è una citazione dalla scrittrice fantascientifica Ursula K.Le Guin. Il tratto saliente è nel rimando ad un universo all'abbrivio tra arte e creatività della scienza ben testimoniato dalla straordinaria presenza di alcuni modellini di cartapesta che riproducono in scala i diversi stadi di una gravidanza e che furono utilizzati già dal XIX secolo dalla scienziata Aletta Jacobs, figura pionieristica nella rivendicazione dei diritti alle donne. Assorellati per similitudini formali e sostanziali agli "organismi viventi",  sono in teca anche le uova dell'artista ceca Maria Bartuszova. Calchi di gusci in gesso che mostrano il ciclo naturale della vitalità e della deperibilità. Accanto, ci sono anche le preziose borsette decorate in composizioni astratte con perline da Sophie Taeuber Arp. Vi fanno eco, fuori dalla capsula le grandi bandiere dell'haitiana Myrlande Constant realizzate con la tecnica del tambour (ricamo di perline appunto) e in cui con un ironico sincretismo la cultura contemporanea convive con la storia haitiana e la religione vudù. E in questo mischiarsi e fluidificarsi si offrono su un piano di metamorfosi perenne alcuni meravigliosi arazzi: le arpilleras di Violeta Parra.
Dopo il tanto di frenetica creatività troviamo una pausa negli spazi vuoti delle nostre megalopoli afflitte dai contesti di sospensione e isolamento imposti dalla pandemia di Covid 19 in Urubu (2020). Film muto girato in super8 da Luiz Roque che durante il confinamento ha puntato la sua videocamera sulle architetture stratificate della città di San Paolo per cogliere il volo di un urubu che accentua l'irrealtà inquieta e sgomenta della condizione. Quasi didascalicamente è il lavoro in mostra che più rispecchia i contesti pandemici che ci hanno avvinghiati e che ancora in essere sembrerebbe difficile affidare al ricordo di un’esperienza conclusa.
All’opposto, a voler ripristinare uno stretto contatto con la Terra, Delcy Morelos ci immerge nel suo Earthly Paradise (2022) tra masse di terra innalzate rispetto al piano di calpestio che fanno da guida ad un’esperienza sensoriale, olfattiva e tattile, in un ambiente inondato da odori diversi - fieno, cacao, cannella, chiodi di garofano, manioca - misti alla terra, alla sua umidità e consistenza e allo scambio che inevitabilmente i nostri corpi vi intrattengono. I legami appunto che si instaurano tra i corpi e la terra. E dalla terra si sprigionano oltre le energie immanenti in ciascuno di noi anche immagini che prendono spunto dai dati di realtà per configurare mondi fantastici e magici intenti a correggere e ribaltare condizioni spesso obbrobriose. È quanto ci suggerisce la parabola del video Of Men and Gods and Mud (2022) di Ali Cherri (Leone d’argento come promettente giovane partecipante alla mostra) che trae spunto dalle controverse e drammatiche vicende legate alla costruzione della diga di Merowe nel nord del Sudan (7) per immaginare il potere maieutico di un mattonaio che trasforma il lavoro di costruzione alienante in creazione mistica.
A concludere la serie delle capsule storiche è “La seduzione di un cyborg” una sezione dedicata alla figura del cyborg e agli innesti e trasformazioni tra umano e tecnologia. Dunque i legami ibridi che si sviluppano tra gli individui e la tecnologia. Impossibile non pensare al Manifesto Cyborg di Donna J.Haraway che, ormai un cult, proprio a partire dalle donne, dalle biotecnologie e biopolitiche del corpo ha segnato una svolta visionaria nel pensiero occidentale individuando proprio nel cyborg l’oltrepassamento delle categorie di genere situando altrove le categorie ermeneutiche con le quali considerare il mondo.
Estraneo anche qui alla puntigliosità storicistica si snoda nel percorso espositivo l’avvicinamento, la “sorellanza” tra figure vicine e lontane nel tempo e nello spazio. Seducenti i passaggi tra le fotografie di Marianne Brandt, i corpi futuribili di Alexandra Exter, le sculture astratto costruttiviste di Sophie Taeuber-Arp e il monumentale Hommage to the Universe (1968) di Louise Nevelson, cui è dedicata tra l’altro una mostra, allestita negli spazi delle Procuratie tra gli eventi collaterali alla biennale, che ne ricostruisce e rafforza un profilo coerente e lungimirante (8).
Fuori dalla capsula, continua il viatico tra connubi ibridi di oggetti, materiali, macchine e forme interpretati in una ricerca assai originale dagli Autophones (2022) di Dora Budor, forme scultoree lignee risonanti che, esemplate su modelli industriali, si relazionano con le vibrazioni di sexy toys. Quasi una discrasia tra forme e contesti sociali e applicativi del modernismo e del postmodernismo.
All’insegna del Cyborg si presenta anche la comunicazione massmediatica nel cui ventre architettonico ci immerge l’installazione Beginning/Middle/End (2022) di Barbara Kruger che con le sue scritte tra ironia e feroce denuncia ne interroga le scivolose incongruenze nelle nostre attuali società. Cenotafio della comunicazione sincopata del presente non esaurisce le tematiche della mostra pur rilevandone nello stordimento degli slogan la duttilità.
Nel gioco libero dei richiami orditi da Alemani la matrice surrealista resta comunque il fondamento e il grembo dell’intera mostra che riattualizza e rigenera nella pluralità di specie, di sogni e di riflessioni del presente le sue istanze.  

Aprile 2022

1) Cecilia Alemani, a cura di, Il latte dei sogni, La Biennale di Venezia. 59.Esposizione Internazionale d’Arte. Venezia (Giardini e Arsenale), 23 aprile – 27 novembre 2022.
2) Proprio Malašauskas ha spiegato in un post su Instagram le motivazioni: “Il Padiglione della Russia è una casa per gli artisti, per l’arte e per i creativi (…) oggi ho rassegnato le dimissioni da curatore del Padiglione della Russia per la 59. Biennale di Venezia…non posso continuare a lavorare su questo progetto alla luce dell’invasione militare della Russia e del bombardamento dell’Ucraina. Questa guerra è insostenibile sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista emotivo. Come sapete, sono nato e cresciuto in Lituania quando era parte dell’Unione Sovietica. Ho vissuto lì fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1989, e ho seguito lo sviluppo del mio paese fin da allora. L’idea di tornare indietro o di continuare a vivere sotto un impero, russo o di chiunque altro, è semplicemente intollerabile”.
3) Il padiglione ucraino è stato curato dal team composto da Borys Filonenko, Lizaveta German e Maria Lanko. Proprio quest’ultima è stata la protagonista della rocambolesca partenza da Kiev - il giorno stesso dell’inizio delle ostilità - dei 78 imbuti di bronzo facenti parte del progetto della piramide di Makov. Caricati nella sua auto è riuscita a superare il confine e dopo qualche giorno approdare a Venezia. L’opera, secondo Makov, deve leggersi come una metafora dello sfiancamento globale, infatti, “non rappresenta solo l’esaurimento delle risorse terrestri, ma anche l’esaurimento per la pandemia, la spossatezza causata dai social media e lo sfinimento provocato dalle guerre”. Cfr.: “La missione. Il viaggio impavido di Maria per salvare un’opera d’arte”, in La Stampa, 28 marzo 2022. https://www.lastampa.it/esteri/2022/03/28/news/il_viaggio_impavido_di_maria_da_kiev_a_venezia_per_salvare_un_opera_d_arte-2882416/  
4) Cecilia Alemani, in, “Il latte dei sogni. Cecilia Alemani intervistata da Marta Papini”, in, Cecilia Alemani (a cura di), Il latte dei sogni, catalogo della 59.Esposizione Internazionale d’Arte, Biennale di Venezia,2022, pag.31.
5) Katharina Fritsch, Elefant/Elephant, 1987. Poliestere, legno, vernice. 420 x 160 x 380 cm.
6) Simone Leigh: Sovereignty, a cura di Eva Respini. Padiglione degli Stati Uniti d’America. 59. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia.
7) La diga di Merowe, lungo il Nilo nel nord del Sudan, è considerata una delle maggiori opere idroelettriche del continente africano ed ha determinato all’inizio del millennio il trasferimento forzato di oltre cinquantamila persone e la trasformazione dei lavoratori del fango in manovalanza esiliata e temporanea.
8)Louise Nevelson Persitence, a cura di Julia Bryan-Wilson, Procuratie Vecchie, Venezia. Dal 23 aprile 2022 all’11 settembre 2022.