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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Sulla mostra di Federica Luzzi alla Nuova Pesa di Roma

Anna D’AndreaIcoPDFdownload

“E il mio maestro mi insegnò come è difficile trovare l’alba dento l’imbrunire”, il compianto Battiato ci ha lasciato detto che è difficile ma non impossibile trovare quel bagliore, una qualche soglia di attraversamento verso oriente che prende il significato di orientarsi. Come? Con la leggerezza di un passo di danza, la flessibilità di un giunco, quell’armonia interiore semplice ma non facile, chiara e limpida come l’acqua che scorre e sa dove andare. E poi non c’è niente di strano se quando apri un link che si intitola Galaxy non pensi più a un telefono ma a qualcosa di più ampio.
Francesca mi invita a vistare la mostra di Federica, incontrarsi di nuovo, ricominciare a uscire e vedersi come prima, ancora mascherati, anche se non è carnevale, sono opere che nascono proprio al tempo del confinamento domestico, quella particolare sfasatura in cui il restringersi degli spazi diventa inversamente proporzionale alla dilatazione dei tempi. Su per le scale, al binario 9 e ¾ per Hogwarts, si aprono stanze di un altro tempo, i vetri colorati delle porte decorate, i soffitti alti intagliati nel legno, i pavimenti coevi in pendant, conservati con la stessa affezione, perché l’uno non vale l’altro. All’ingresso ci viene incontro una ragazza gentile e garbata che ci accompagna nella visita con sguardo dolce e grazia asiatica: è l’artista in persona, anche storica dell’arte e tante altre cose. Sullo sfondo dell’aditus intravedo come dei grumi sospesi del colore del sangue rappreso, cuori scagliati nudi oltre il buio, ma perché mi sto facendo un film splatter? Siamo nella galleria Nuova Pesa, la mostra di Federica Luzzi si intitola Shell, del crepuscolo o dell’alba, la quarta del ciclo Realia, visitabile dal 10 gennaio al 7 marzo 2022. Secondo le ripartizioni tradizionali delle arti, le opere esposte si chiamano tecnicamente sculture, sebbene siano spariti piedistalli, imponenza e supponenza retorica e la leziosità impertinente del macramè abbia soppiantato la severità gelida e impassibile del marmo. Dunque sculture da appendere al muro come quadri, che si concedono allo spazio e nello spazio con la spontanea sensualità dei fiori che si aprono alla luce tenendosi per mano e nello stesso istante si riaggrovigliano, chiudendosi su se stesse come carapaci, in un ripensamento di riservatezza o di spavento. Sparse nel silenzio delle stanze ce ne sono di altri colori, più che primari primigeni, il rosso della vita che scorre nelle vene, il nero del buio che avvolge la notte, la fibra naturale che rischiara senza edulcorazioni, hanno petali non ancora coriacei e una delicatezza più fragile e pura che si può sfiorare solo con gli occhi, protetta dalla trasparenza di una teca come in una nursery. Nidi o nodi da snodare o intrecciare, collane di fiori quando arrivi e di conchiglie quando parti, secondo le usanze polinesiane, andamenti curvilinei che girano, si arrotolano attorno a se stesse, abbracciano il vuoto che non c’è, estroflessioni che diventano introflessioni e viceversa, senza contorsioni barocche o arzigogoli rococò, ma in sintonia con misteri e meraviglie degli organismi naturali, concrezioni morbide, gusci da rompere per nascere, ciò che resta della vita che ci è cresciuta dentro e ora è altrove, come ne Il libro delle case di Andrea Bajani.
Nella seconda stanza il peso delle densità si assottiglia ancora, l’azione plastica rende duttile anche l’involucro che si sbuccia e diventa pelle, le trame si distendono una accanto all’altra senza accavallarsi, intessute minuziosamente filo dopo filo al telaio e poi l’irruenza di un qualche impeto ha aperto il baule e ridotto a brandelli il corredo della giovane donna, che ha trovato altri appigli cui aggrapparsi, come un canovaccio da cucina arricciato a chiocciolina, un seme alare, le ali di una farfalla cavolaia, un angioletto, o un bacio su grandi labbra languide. Sull’altra parete ci sono tre foto/eco/grafie, autoritratti giacenti che affiorano in stato di con/siderazione, nascosti nella pancia dell’universo cosmico come su un letto morbido, nel blu dipinto di blu dello spazio siderale, dove le piccole imperfezioni sulla linea di contorno della figura diventano stelle di luce che disegnano altre costellazioni. Su un’altra parete ancora c’è un disegno in tutte le sfumature del grigio, campite per strati scorticati nello spessore della carta, con un sottilissimo rivolo rosso che scende a piombo a laterale, un sinuoso panneggio Art Nouveau che invece è il dettaglio di una xilografia dell’Ottocento, o meglio la sineddoche della storia di due poeti nel suo epilogo straziante: è il nastro che annoda le gambe inginocchiate della moglie del samurai, per non cadere scomposta dopo il taglio della giugulare, quando, già purificata dal digiuno, da lì a breve avrebbe seguito il marito diventato onda, deriva, guerriero errante, prossimo all’espiazione tramite cerimonia rituale con la spada.
E poi eccola! Nella terza stanza appare, bella come una sposa che “al vento avrebbe detto si”, come canta Battisti, un barlume che albeggia sospeso nella penombra, lembi che combaciano in controluce, evanescenti e impalpabili, la compattezza materica si è rastremata nell’opalescenza dell’alabastro, trans/figurata nella consistenza illusoria dell’ologramma, quello intergalattico della principessa Leila, sono pagine da sfogliare e immaginare, veleggiando lontano, perché dicono che quando il vento soffia forte, sia inutile alzare muri o andare a motore, meglio sciogliere le vele. Oltre lo stupore che incanta, c’è un altro punto di vista, quello ravvicinato, dove la filigrana tras/pare in quelle infinitesimali mancanze intessute d’aria e luce a maglie sempre più larghe verso l’alto, con la cura, la lentezza e l’amore dei monaci che colorano un mandala, figure tratteggiate in levare ovviamente illeggibili a quegli sguardi che scivolano rapidi, impazienti e distratti. La prospettiva d’insieme migliore è da sdraiati sul pavimento senza ritrosie, guardando verso l’alto e l’inaspettato come si fa con le Perseidi. E accanto all’infinitamente grande c’è l’infinitamente piccolo, ovvero l’etimologia della discrepanza: una vertebra di tronco vegetale levigata da esposizione protratta a vento, acqua o carezze, con un taglio netto in due metà come una mela, una noce o una palpebra chiusa, che disegna seni e coseni d’ombra e nell’interstizio della non coincidenza un “corpo estraneo” che quasi non si vede: un chicco di vita smarrito così solo che ti si stringe il cuore, senza piume per volare via, resta quiescente, appoggiato sull’orlo del nulla, non sa che ac/cadere significa rinascere, forse.
Nella stanza dei lavori fotografici altre essenze o assenze minimali in risonanza con la stessa poesia dell’ascolto che illumina anche la scrittura di Federica Luzzi e quell’oscillazione sincronica tra micro e macro che riporta in connessione corpi astrali disseminati nell’immenso della Via Lattea e una passeggiata lungo la riva del mare dopo una mareggiata, a piedi scalzi fra nebulose di conchiglie, senza andare troppo lontano.
E tu casa* vedi? Direi la forza nelle radici di Maria Lai, la caligine vagamente sognata di Luigi Ghirri, la leggerezza delle nuvole magnificamente “inutili” di Bruno Munari, i vascelli in equilibrio verso l’oltre di Hidetoshi Nagasawa e molto altro ancora.
Dimenticavo, e tu che hai fatto al tempo del confinamento domestico? Robert De Niro avrebbe risposto: “mi sono svegliato presto”, aveva letto l’incipit di À la Recherche du temps perdu di Marcel Proust, scritto in anticipo di cento anni, si direbbe apposta per noi oggi.

*) Un lapsus che dice casa, in greco antico
οἶκος, in vece
di cosa, come quando si cerca un rifugio, un’impronta indissolubilmente legata alla vita che ci scorre dentro e non una cosa qualsiasi, avulsa e inerte, che non sento mia. Grazie Federica.

Aprile 2022