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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Atrio dello sguardo sul futuro

Domenico ScuderoIcoPDFdownload

In Atrio dello sguardo sul futuro (2022) di Mario Airò, opera recentemente inaugurata presso CityLife di Milano, si evidenzia qualcosa di molto radicale e allo stesso tempo archetipale. Si tratta di un'opera di grande respiro teorico ed emozionale, radicata in una storia millenaria ma allo stesso tempo estremamente viva nel nostro presente. In sintesi rielabora in chiave contemporanea quei legami significativi e culturali che determinano il valore di un "monumento" e che noi chiamiamo arte.
L'opera consiste in una scultura ipogea circondata da un cumulo di terra su cui sono piantate numerose piante che presto la sommergeranno. Questa scultura ricalca nella sua pianta il noto Fegato di Piacenza o anche detto Fegato Etrusco, un oggetto in bronzo che si suppone fosse usato da sacerdoti etruschi per i loro riti aruspici. Un oggetto che riproduce la pianta di un fegato animale suddiviso in diversi settori all'interno dei quali sono alcuni segni, probabilmente scanditi come una mappa astrale, in cui ciascun elemento riporta il nome o i nomi di divinità. Il fatto che l'oggetto in questione sia stato concepito per un uso divinatorio, attraverso lo scandaglio delle viscere animali, costituisce un chiaro indice tematico di come il fine dell'opera sia nella sostanziale rielaborazione dell'origine oggettuale dell'opera. Mario Airò ha infatti ripreso la forma del Fegato di Piacenza costruendovi una scultura ipogea, ma diversamente dall'essere interrata la scultura è realizzata a livello del terreno e poi circondata dal cumulo di terra così come una reale tomba etrusca abbandonata da secoli ma resa evidente dal depositarsi di sostanze che ne segnano la presenza. La scultura di Airò è, sebbene ipogea, protesa verso il cielo perché circondata dalla terra e dalle piante che presto la renderanno irriconoscibile, e sul soffitto, realizzato in bronzo, si riportano schematicamente le tracce dell'originale da cui si è tratta ispirazione.                                                                                      
L'importanza di quest'opera non si può delimitare nel semplice constatarne un'assonanza formale o citazionista con un reperto. Naturalmente c'è il segno forte della cultura etrusca, una cultura che era probabilmente molto vivace prima di essere assorbita e cannibalizzata dalle armi romane, una cultura anche figurativa che possiede dei tratti e delle caratteristiche fascinatorie che hanno attratto molti artisti contemporanei. Che il Fegato di Piacenza sia stato ritrovato in una campagna nei dintorni di Piacenza nel 1877 segnala la possibilità che sia stato perduto da un sacerdote al seguito di un comandante dell'esercito romano. In qualche modo l'oggetto denota la debolezza della cultura nei confronti delle armi, ma Airò trasforma questa vicenda, capovolgendo la pianta del basamento in soffitto rivolto verso il piano astrale, così come prevedeva l'originale bronzeo risalente ad un periodo che si ritiene sia compreso fra III e I secolo prima di Cristo e che secondo le perizie archeologiche sarebbe stato tenuto in mano dal sacerdote con la parte concava rivolta verso il cielo.
Ad una prima erronea apparenza di oggetto costruttivo, l'opera di Mario Airò si rivela successivamente un contenitore di pensieri fenomenologici sull'arte. L'opera è in qualche modo moderna, aperta verso il parco CityLife e con alle spalle la copertura esterna dell'edificio del centro congressi MiCo (2012) progettato da Mario Bellini con la sua iconica forma di cometa. Ad un'analisi più approfondita l'opera di Airò evidenzia però la sua appartenenza archetipale, votata alla riacquisizione del senso della storia e dell'origine dell'arte. La costruzione è un simbolico segno di sepoltura perché lì, nella consapevolezza della morte, risiede l'incipit della divinazione. Ancora più in fondo nella storia dell'uomo la consapevolezza della morte è origine dell'incantamento introiettivo, il percepire la morte dell'essere vivente che comprende il morire e vuole sottrarre il corpo del defunto allo scempio animale, al suo disfacimento (1). Il tumulo di terra diventa così il segno di questa sovversione dalla natura, un gesto che l'uomo ancora privo di lessico e strumenti segnici della comunicazione non sa chiarire, quello che noi chiameremo poi "cultura" (2). Il tumulo di terra sepolcrale circonda la presenza del defunto per nasconderne il corpo, come proprietà di un altrove metafisico che non si conosce perché non si comprende. Per custodire questa memoria l'uomo sottrae frammenti di natura trasformandoli in epifanie metafisiche. Nel suo sguardo, l'appropriazione di elementi, la sottrazione e l'uso di sterpaglie, di massi e di spazi, trasforma le qualità della "natura" e le rende significative di un'alterità percettiva, quella di indicare l'esistenza dell'ignoto. Il gesto umano è motivo di una interdizione che si vorrà riempire di segni elaborando il ricordo del defunto, che poi diventa mito, e l'urgenza di spiegare l'aldilà, foriera di interdizione al dire, si tramuta in segni poi declinati in suoni, quindi linguaggio. Nel lavoro di Mario Airò il senso della divinazione che è culmine di sottrazione di elementi naturali diviene cultura attraverso un segno enigmatico. Così come enigmatico è il senso della metafisica contemporanea all'interno della quale sopravvive il costrutto di una storia millenaria, in questo caso quella dell'uomo faber etrusco come indicativo fatto analitico (3). Qui la sua techné trasla dall'azione di copertura del corpo alla definizione di oggetti memoria di una vita che non c'è più e che si rinnova nel ricordo attraverso il segno del monumento. Una sepoltura che nasconde una techné che è conoscenza, sapere, perché rimanda al sillabario del defunto. Un sillabario fatto di cose e segni che incidono nel proprio tempo storico il coefficiente massimo della tecnica linguistica, segnica e gramma originari (4). Al cospetto del segno sopraggiunge l'enigma del pensiero alla cui origine è l'interdizione di una stasi dell'essere, quel blocco estatico attraverso cui il fluire della vita si trasforma in memoria che non ha parola ma immagini scaturite dal ricordo. Un legame con l'origine del processo formativo delle idee che nel contemporaneo abbiamo perduto, perché il legame con la natura si è disciolto e al suo posto è sopraggiunto il pensiero della tecnica (5). Proprio per questo Airò capovolge il suo andito scultoreo rivolgendolo verso il cielo, lì dove avrebbe avuto un significato la piccola scultura divinatoria di origine etrusca, poiché le viscere animali parlavano al cielo dove i corpi dei morti avevano casa e alloggio celeste accompagnati dai colori e dai segni che la tecnica, col suo depositarsi di storia, avrebbe poi permesso e rappresentato. Il senso della sottrazione, che è una sottrazione anche territoriale – ovvero lì in quel frammento di terreno abita il corpo del morto che vive nelle sfere celesti e di cui si vorrebbe mantenere il ricordo – si tramuta in immagini che riempiono il silenzio votivo di chi resta a custodire le spoglie mortali, confidando in una memoria che renda vivo e significativo il segno di una cultura già data e quella ancora a venire.
Per questo infine la scultura archetipale di Mario Airò ci parla del futuro. Trasformando con un gesto che definirei alla Piero Manzoni, da Piedistallo del mondo, la sua scultura ipogea indica un nuovo sguardo verso il cielo piuttosto che verso la terra, quindi slancio verso il futuro e non tetro spaesamento materico come lo era nell'interdizione archetipa (6). In un mondo che ha fatto divinazione del tragico sino a decidere di autodistruggersi, di suicidarsi, infangandosi di morti e crimini infernali, rivolgere la base verso il cielo vuol dire anche aspirare ad una prassi etica, in qualche modo distinguibile nell'agire stesso dell'opera col suo rimando teatrale alla cometa del MiCo, una mega scultura opaca, incantatrice e magnetica trasformata in simbolo dell'annunciazione. Sulle prime sensazioni si è portati anche a ritenere che il bianco nitore delle pareti di Atrio dello sguardo sul futuro sia lo stesso degli impianti a stampi delle hypertecnologie architettoniche. In questo caso però ha più importanza l'invecchiamento. Il bronzo dovrà emergere ancora, e le pareti subiranno l'avvinghiarsi delle piante che sanno essere perniciose come mille serpenti, a volte anche giganteschi.
"Atrio dello sguardo sul futuro" (2022) di Mario Airò, Parco di sculture ArtLine in CityLife, a cura di Roberto Pinto, nato dalla collaborazione fra comune di Milano e CityLife S.r.l.
 
Aprile 2022
1) Edgard Morin, L'uomo e la morte, trad. it. Meltemi, Roma, 2002 (ed. or. L'Homme et la Mort, Edition du Seuil, Paris, 1970).
2) Regis Debrey, Vita e morte dell'immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, trad. it. Il Castoro, Milano,  1999 (ed. or. Gallimard, Paris, 1992).
3)  Jerrold Levinson, "L'estensione storica dell'arte", in Arte, critica e storia. Saggi di estetica analitica, a cura di F. Desideri e F. Focosi, trad. it. F. Focosi, Aesthetica Edizioni, Palermo, 2011.
4) Jacques Derrida, "Dal supplemento alla sorgente: la teoria della scrittura", Della grammatologia, ed. It. a cura di G. Dalmasso,  Jaca Book, Milano, 2020 (1969) (ed. or. De la grammatologie, Les Edition du Minuit, Paris, 1967).
5) Franco Berardi "Bifo", "Esaurimento/estinzione" in La congiunzione, Nero, Roma, 2021. Il mondo della tecnica ha oscurato il senso dell'origine traducendolo in memoria statica, scientifica. Il "tempo dell'immagine del mondo" di Heidegger è divenuto anche il tempo della tecnica che prevede una continua specializzazione univoca e sempre più esasperata nella ricerca di funzioni spesso contrastanti, da cui quindi la complessa oscillazione del contemporaneo. Cfr. Timothy Morton, Noi esseri ecologici, trad. it. di Giancarlo Carlotti, ed. Laterza, Roma-Bari, 2020 (ed. or. Being Ecological, Penguin Book – Penguin Random House, UK, 2018).
6) Jerrold Levinson, "Le opere d'arte e il futuro"in op.cit.