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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Ciò che non si conosce, dagli spazi siderali alla cultura africana
 
Daniela De DominicisIcoPDFdownload.png

Il titolo della 23. Esposizione Internazionale ospitata negli ambienti della Triennale di Milano, –Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries – sembra un paradosso concettuale e non è neanche facile da tradurre. Si può provare con Ciò che non sappiamo di non sapere. Un’introduzione ai misteri. Oltre a constatare che il titolo italiano perde l’essenzialità e la compattezza dell’originale, si intuisce vagamente che ci si inoltra in contesti inesplorati; come però la nostra mente possa avere idea di non conoscere qualcosa che ignora, questo indubbiamente sfugge alla logica comune. Si ha tuttavia la sensazione di oltrepassare le colonne d’Ercole del sapere e di inoltrarsi in un percorso pieno di incognite. Come scrive Stefano Boeri, presidente dell’istituzione, la mostra vuole esplorare l’ignoto “con l’attitudine di chi sceglie la sfida dell’empatia, capacità esclusivamente umana di mettersi negli occhi degli altri soggetti viventi e di mappare, da queste variegate angolature, i bordi dell’ignoto" (1). Accanto alla mostra tematica che dà il titolo a tutta la manifestazione, si articolano una serie di esposizioni satellite che coinvolgono discipline diverse e ben quaranta paesi. L’edificio della Triennale ospita infatti anche Mondo Reale, mostra curata da Hervé Chaudés della Fondation Cartier di Parigi con diciassette artisti internazionali; Tradizione del Nuovo, a cura di Marco Sammicheli (2) che ripercorre la storia del design italiano attraverso la lente della sperimentazione; infine ventitré partecipazioni internazionali sotto l’egida del Bureau International des Expositions, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
Non resta dunque che lasciarsi condurre negli innumerevoli campi di indagine proposti in questa eterogenea ed originale esposizione curata, nella sezione a tema, dall’astrofisica Ersilia Vaudo. Il punto di partenza non può che essere dunque extraterrestre e ci porta ai confini dell’universo con quanto James Webb, il telescopio ad infrarossi spedito nello spazio a 1milione e 500mila km dalla terra, ha cominciato a restituirci (3). Immagini ad altissima definizione di due galassie primordiali vecchie di 13 miliardi di anni, i cui dati permetteranno di indagare le origini dell’universo. Tematiche che indubbiamente danno un senso di vertigine soprattutto per misure spazio-temporali su cui si fa fatica a ragionare. Gli altri settori – affidati a fisici, filosofi, matematici…– non sono da meno, ma più che risposte il percorso propone una serie di interrogativi proprio perché l’obiettivo è quello di approcciare aree della ricerca pressoché sconosciute (Conosciamo davvero la gravità? Qual è il suono della terra? La materia pensa? Tutto ciò che è naturale, è artificiale? ...). Interessante in questo contesto la riproduzione di un quadro del 1609 realizzato dal paesaggista tedesco Adam Elsheimer (4) che dedica più della metà della sua Fuga in Egitto al cielo stellato. A lungo si è ritenuto trattarsi della rappresentazione delle costellazioni presenti nella notte del 16 giugno 1609 nel cielo di Roma, compresa la via Lattea qui riprodotta dettagliatamente per la prima volta.
Insistendo ancora nella mostra tematica, ci si imbatte in sei installazioni ad hoc commissionate ad altrettanti artisti invitati a confrontarsi con l’ignoto (5). Tra questi Tomás Saraceno presenta quella più iconica con il suo intervento dal titolo Particular Matter(s) in cui un raggio di luce rende visibili nel buio dell’ambiente le microparticelle sospese nell’aria. Sono presenti inoltre quattro commissioni speciali (6) tra le quali merita di essere segnalata la ricerca presentata dallo studio internazionale SOM (7) (acronimo derivato dai nomi dei fondatori Skidmore, Owings & Merrill) che indaga una possibile architettura nello spazio, intesa non come riparo temporaneo per astronauti, bensì come modalità abitativa permanente totalmente svincolata dal pianeta Terra. Il loro intervento si articola in dieci video e definisce un decalogo di principi guida da cui partire per gli insediamenti spaziali del futuro prossimo. L’allestimento di questa area esprime la vocazione alla sostenibilità con la sperimentazione materica dell’argilla e degli scarti dell’industria alimentare modellati in forme diverse con stampanti 3D della Triennale (8).
Ma concentriamoci sull’Esposizione Internazionale (9) dedicata al design e all’architettura con ventitré padiglioni nazionali di cui sei africani (Burkina Faso, Ghana, Kenya, Lesotho, Repubblica Democratica del Congo, Ruanda) tanto da sembrare una sorta di prova generale dell’imminente rassegna veneziana che vedrà l’Africa come luogo privilegiato di sperimentazione. Il titolo della prossima Biennale sarà infatti Laboratorio del futuro e questo continente vi giocherà un ruolo di primo piano, con una popolazione la cui età media è la metà di quella europea e con il più alto tasso di inurbamento al mondo. Alla Triennale è ancora un architetto africano a curare questa sezione, Diébédo Francis Kéré (10) del Burkina Faso, fresco della fama conferitagli dal prestigioso Pritzker, vinto pochi mesi fa, nel marzo 2022.
È lui a firmare le parti comuni della rassegna nonché il padiglione nazionale burkinabé. L’Africa è ancora per molti aspetti un continente sconosciuto e Kéré sembra volerci introdurre ad alcune antiche pratiche costruttive nonché alla filosofia che governa la vita sociale della sua comunità. Pratiche e materiali che non vede in contraddizione con le tecniche più avanzate dell’architettura contemporanea, bensì come importante bagaglio culturale cui attingere per progredire con la consapevolezza della storia e della tradizione.
Una torre alta dodici metri, The Future’s Present (il Futuro è Presente), accoglie i visitatori nella piazza che precede l’ingresso. Il cemento con cui è costruita è rivestito di laterite rossa, materiale tipico delle zone tropicali, scandito da aperture triangolari simmetriche; la struttura, accessibile all’interno, permette di sedersi e guardare in alto dove si intravede una sezione di cielo. Per l’architetto questa torre è un simbolo di positività, la sua forma intende mettere in contatto gli uomini con gli spazi lontani, invitando a superare gli ostacoli che si possono interporre tra noi e le nostre aspirazioni e a perseguirle senza paura o condizionamenti. Non è la prima volta che Kéré utilizza queste snelle forme tronco-coniche: in realtà già nel 2019 in California aveva proposto costruzioni analoghe per il Festival di Indio (11), ispirate agli alberi di baobab la cui crescita è caratterizzata dalla formazione di una cavità accessibile all’interno del tronco e da numerose fessure perimetrali da cui entra la luce. Essi diventano un punto di riferimento per tutta la comunità che ne apprezza anche le proprietà nutritive e terapeutiche. L’ombra degli alberi in Africa è spesso luogo privilegiato di socialità e non è un caso se anche nella sede della Triennale, Kéré abbia voluto riproporne lo spirito creando un cortocircuito con la tipologia privilegiata dall’occidente per la pausa e l’incontro, ovvero il caffè. È la forma stilizzata di un albero, sponsorizzata da Lavazza Group, con una serie di sedute distribuite in prossimità a segnalare la zona del ristoro all’interno degli spazi espositivi. Under a Coffee Tree – questo il titolo dell’intervento –  è ancora una volta un’area per incontrarsi, parlare, sorseggiare bevande. L’idea di comunità e di partecipazione è fondamentale sia nella fase progettuale che esecutiva nel lavoro di questo architetto. Fin dal suo primo intervento nel 2001, per la scuola di Gando (12) – il villaggio nella zona centro orientale del Paese dove Kéré è nato – si è avvalso del contributo corale degli abitanti che non solo hanno segnalato esigenze e preferenze diverse ma hanno anche contribuito fisicamente ad innalzare i muri perimetrali della costruzione. È proprio partendo dalla sua esperienza di allievo in una scuola in cemento armato, calda e, nonostante l’accecante sole della zona, buia, che fin da giovanissimo Kéré ha deciso di intraprendere gli studi per diventare architetto e costruire ambienti accoglienti con luce ed aria a far da protagonisti.
L’installazione Yesterday’s Tomorrow (Ieri è domani) propone due alte pareti curvilinee che corrono in parallelo. La loro superficie è scandita da moduli astratti ispirati a quelli delle decorazioni murarie burkinabé e il corridoio percorribile che ne deriva è un’area protetta dai rumori esterni, una sorta di spazio sospeso nel quale ci si può concentrare sui propri pensieri. 
Il padiglione del Burkina Faso ha come titolo Drawn Together (Disegnato insieme) ed in effetti propone anche in questo caso i muri dipinti che caratterizzano l’esterno delle case tradizionali del popolo Kassena, la tribù più antica del Paese. Il padiglione non è altro che un focus su queste abitazioni di antichissima tradizione fatte di fango, terra, paglia e legno, senza finestre per non far entrare il calore e le pareti esterne decorate con motivi geometrici tradizionali ispirate a figurazioni tessili, a forme animali, a tradizioni familiari. In questo caso i dipinti sono stati realizzati da donne originarie del luogo appositamente convocate e il pubblico può intervenire proseguendone il lavoro ad incarnare quella modalità partecipata così sostenuta dall’architetto. L’esperienza di Francis Kéré può essere considerata un ponte che lega il mondo occidentale, presso il quale ha studiato, e le tradizioni africane nelle quali è cresciuto, creando una risultante culturale che può essere di reciproco arricchimento.
I premi assegnati dalla commissione (13) della Triennale hanno valorizzato i padiglioni dei Paesi Bassi, del Messico e del Kenya. Il primo dal titolo Have we met? Humans and non-humans on common ground che affronta il rapporto di convivenza tra le specie (umani, vegetali e animali) sullo stesso pianeta. Il secondo che dà concretezza alla flora immaginaria prodotta dall’attività onirica di un gruppo di ragazze di un orfanotrofio di Città del Messico, realizzata con modelli, forme tridimensionali e animazioni digitali come fosse una ricerca scientifica su specie sconosciute. Infine il Kenya che affida alle poetiche sculture di Louise Manzon il messaggio (l’ujumbe in lingua Swahili) disperato, a causa dell’inquinamento delle acque, da parte dei pesci che emergono per interrogare le stelle, quasi a cercare la ragione di un ambiente diventato improvvisamente ostile.
Una mostra difficile, per certi versi inquietante a causa dell’assoluta mancanza di certezze, ma al contempo piena di suggestioni e di coraggio.

Gennaio 2023

1) Stefano Boeri, dal comunicato stampa della 23a Mostra Internazionale di Triennale Milano.
2) Marco Sammicheli è direttore del Museo del Design italiano presso la Triennale Milano dal 2020. Con Tradizione del Nuovo ripercorre la storia delle Triennali dal ’64 al ’96 e costituisce il padiglione italiano
3) Il telescopio spaziale James Webb è stato lanciato il 25 dicembre 2021 dalla Guyana francese. La sua costruzione è durata venti anni e vi hanno collaborato quattordici paesi. Resterà attivo per dieci anni.
4) Adam Elsheimer (Francoforte sul Meno 1578 – Roma 1610): Fuga in Egitto, olio su rame (cm 31X41), 1609, Alte Pinakothek, Monaco.
5) Le installazioni per la mostra tematica sono state affidate a: Andrea Galvani, Bosco Sodi, Protey Temen, Julijnas Urbonas, Marie Velardi, Tomás Saraceno.
6) Le commissioni speciali sono state affidate al designer giapponese Yuri Suzuki, alla designer italiana Irene Stracuzzi, al collettivo statunitense SOM e all’artista turco attivo a Los Angeles Refik Anadol.
7) Lo studio SOM è già operativo nell’area milanese con il progetto per il villaggio olimpico di Milano-Cortina 2026 a Porta Romana.
8) L’allestimento è firmato Space Caviar ed è stato realizzato da Wasp.
9) L’Esposizione Internazionale di Triennale Milano, dedicata al design e all’architettura, ha la sua prima edizione a Monza nel 1923 ed è riconosciuta dal Bureau International des Expositions. Dal 1933 viene ospitata nel Palazzo dell’Arte costruito a Milano da Giovanni Muzio.
10) Diébédo Francis Kéré  è nato a Gando nel Burkina Faso nel 1965. È il più famoso architetto africano. Vive e lavora a Berlino.
11) Si tratta delle Serbalé Ke, Case della Celebrazione in lingua Bissa del Burkina Faso, realizzate come installazioni temporanee per il Coachella Valley Music and Arts Festival a Indio in California nel 2019.
12) La scuola di Gando è stata costruita per fasi. Il primo nucleo, quello per la primaria, ha vinto nel 2004 il premio Aga Khan dell’architettura.
13) La Commissione premi della 23a Triennale Milano è composta da: Stefano Boeri (presidente Triennale), Ersilia Vaudo e Francis Kéré (curatori di questa edizione), Francesca Lavazza (sponsor Lavazza Group), Paola Antonelli (senior Curator per Architettura e Design del MoMA).