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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Olafur Eliasson: nel tuo tempo
 
Anna D’Andrea
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Nel tuo tempo
è il titolo della mostra curata da Arturo Galansino che la Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze dedica all’artista danese di origine islandese Olafur Eliasson, visitabile dal 22 settembre 2022 al 22 gennaio 2023. Già nel titolo una mostra fatta per venirci incontro, metterci in sintonia, amalgamare il mio col tuo in circo/stanze fatte di elementi talmente astratti da dematerializzarsi in condizioni di luce e spazio, cui si aggiunge appunto la dimensione del tempo, ossia del mettersi in moto, andare verso, avvolgerci nello stesso abbraccio, fuori dalla fissità dei perimetri prestabiliti. Una mostra per lasciarsi entrare e pervadere, spogliati da aspettative, memorie e riferimenti vari che non siano la mera presenza fisica nel qui e adesso, sorvolando sui preamboli, dai Color Field paintings di Mark Rothko ai Ganzfelds di James Turrell, passando per Varese Window Room e Varese Scrim di Robert Irwin e mostre indimenticabili come Gli Ambienti del Gruppo T alla Galleria Nazionale (2005/6), Lucio Fontana. Ambienti/Environments all’Hangar Bicocca (2017/8), Alberto Biasi. Tuffo nell’arcobaleno al Museo dell’Ara Pacis (2020/1). Ovvero quando, per citare solo i casi più recenti, i vecchi comparti di architettura, scultura e pittura evaporano insieme in ambienti di relazione colorati, apparenze e trasparenze si intrecciano, riflessi e riflessioni si mescolano nell’esperienza condivisa di un noi di gran lunga maggiore della somma dei singoli addendi.
Un percorso in undici circo/stanze, con riferimento ai processi circolari di trans/formazione messi in atto dalle opere allestite per singole sale, distribuite tra il cortile e il piano nobile della dimora di famiglia voluta da Filippo Strozzi e datata 1489, più altre quattro nell’ala denominata Strozzina, che con cognizione di causa può dirsi esperienziale, immersivo, partecipato, aggettivi abusati spesso a sproposito, mai come in questo caso pertinenti. Campi di energia dati dalla concretezza della materia sublimata all’ennesima potenza in luce perché e=mc2, un succedersi di situ/azioni da attraversare disarmati, osservando il silenzio, dove e quando la percezione non trova appigli di distrazione, scivola, rimbalza su se stessa e ritrova la sua consapevolezza, dunque una pratica di meta percezione per inciampo, che ci riporta alla radice etimologica della fenomenologia della percezione estetica, nella parola ασθάνομαι che significa conoscere la realtà attraverso gli organi di senso, soffermando l’attenzione sull’intervallo che intercorre tra soggetto e oggetto, sulla piena complementarietà e reversibilità dei termini, posti in rapporto di equazione algebrica.
Per raccontare la mostra mi atterrei alla “narrazione fisica” del percorso, per brevità di trattazione a fronte della complessità dei fattori in gioco, quali ad esempio quelli emozionali, che lascerei al libero esperire di ciascun visitatore. E la storia inizia già prima di entrare, alzando gli occhi al cielo, ne resta solo qualche spicchio residuo, e volgendo i nostri nasini verso una mega struttura ellittica sospesa sulle nostre teste, l’ortogonalità della corte signorile rinascimentale disegnata in pietra serena, vista col senno di poi del motivo barocco per antonomasia, è una sorta di mega schermo ellittico, uno stargate aperto sulle vastità dello spazio siderale, senza effetti speciali, quello sfarfallio che anima la superficie è solo un fenomeno ottico molto semplice, dato dalla sovrapposizione di due o più griglie e viene attivato dal nostro stesso movimento, sotto l’egida della stagione, come indica il titolo Under the weather (2022), opera rigorosamente site specific, che prosegue nella tematica del progetto per la Tate Modern del 2003, la consacrazione di Eliasson artista di successo, che mette d’accordo critica e grande pubblico, come un bollettino meteo, la trasmissione con gli indici di ascolto più alti in assoluto. Nelle prime tre sale interne si spalancano enormi finestre di luce sui muri, diaframmi di comunicazione visuale tra spazi contigui, senza distinzioni tra interno ed esterno, sono Triple seeing survey (2022), Tomorrow (2022) e Just before now (2022), in teoria niente di nuovo, da secoli negli spazi museali siamo abituati a trovare trompe-l'oeil in forma di finestre virtuali, rese plausibili dall’applicazione di un teorema matematico per rendere le grandezze proporzionali alle distanze, è la consistenza dell’illusorietà che è diversa, questa è tangibile e concreta, quella prospettica era astratta e tutta mentale. Con How do we live togheter? (2019) entriamo in uno spazio come di casa, senza effusioni di luci, spartito in diagonale da un arco che prosegue oltre sé stesso per unirsi in connessione con lo specchio della sua metà e raddoppiarsi in circonferenza, possiamo sdraiarci per guardarci riflettere da diversi punti di vista e prenderci tutto il nostro tempo. A seguire due sale dedicate alla nostra stella madre: Solar compression (2016) un disco che ruota lentamente su sé stesso emettendo luce monofrequenza, quella della trasfigurazione della Turbine Hall in cattedrale gotica per intenderci, comunemente usata per l’illuminazione stradale, la cui bassa frequenza rende invisibili tutti i colori escluso il giallo sole e Red window semicircle (2008), l’altra metà di un crepuscolo in tutti i suoi riverberi di colore e calore, il cielo in una stanza, la memoria emozionale della Tate che ritorna. Ci sono anche finestre che diventano muri, anzi collane come Your timekeeping window (2022), ventiquattro spioncini di luce naturale esterna, mai uguale a sé stessa, che ci guardano da una prospettiva capovolta, disposti a orologio in tutte le ore del giorno e della notte e poi ci sono muri che si smaterializzano in Triple window (1999) usando faretti e gelatine, senza sotterfugi per dissimulare l’artificio scenico. Intanto siamo arriviati al cuore della mostra: è un pulviscolo di luccicanze sospese nel buio intitolato Beauty (1993), sipario, spazio scenico e accadimento coincidono nella stessa gocciolina d’acqua accidentalmente trafitta da un raggio di luce, che invece di sanguinare sprigiona meraviglie in tutti i colori dell’arcobaleno, un palcoscenico per mettere in luce l’ineffabile nella sua essenza primaria, possiamo entrarci dentro con tutte le scarpe ma senza ombrello o reticenze varie, attraversarne la leggerezza impalpabile, sentirne l’evanescenza sulla pelle, cercarci l’angolazione migliore per intercettare la traiettoria di quel barlume scomposto in attimi di sconcerto, stupore, incanto che è solo per i tuoi occhi, perché sappiamo che la bellezza è il chiarore di un istante, solo negli occhi di chi la guarda. Ma nuovi soli ci aspettano nelle prossime sale, brillantezze fratte in miriadi di sfaccettature iridescenti, agglomerati scintillanti che polarizzano gli sguardi e non solo, irradiandosi nell’intorno in una danza di splendori intitolata Firefly double-polyedrom sphere experiment (2020), accanto c’è Colour spectrum Kaleidoscope (2003), molto più di un telescopio, considerando che quello di galassia è un concetto ampio e inclusivo e l’assonanza anche etimologica tra guardare lontano e guardare la bellezza delle forme attraverso un caleidoscopio, solo uno dei tanti modi per esplorare nuovi mondi. Room for one colour (1997) conclude l’esperienza del piano nobile, che sarebbe quantomeno riduttivo definire experience, l’ultimo giro in centrifuga prima di una meritata pausa caffè, ci catapulta nello spaesamento di un parcheggio sotterraneo, rincuorati da bifore e capitelli ci aggiriamo abbagliati e disorientati e realizziamo di aver perso l’oriente perché ci siamo finiti dentro, altri prodigi della luce monocromatica, un’esplosione di giallo che sfuma i contorni e ci rende ciechi agli altri colori, colpisce l’entità minima dell’intervento a fronte dell’esorbitanza dell’effetto. Dopo la sosta bar scendiamo nella Strozzina, qui riceviamo le istruzioni per l’uso del visore di realtà virtuale che ci consentirà di addentrarci nei meandri delle nostre rilevanze più recondite con Your view matter (2022), l’esterno si presenta spoglio, senza particolari attrattive, solo grandi cerchi, anzi meglio gironi, disegnati sul pavimento, al centro dei quali brancolano postulanti con le braccia protese in avanti e un piccolo attrezzo nelle mani, non ci lasciamo dissuadere dalle controindicazioni per soggetti sensibili e ci mettiamo in fila per un tuffo psichedelico nell’iperuranio dei solidi di Platone, poliedri regolari cari anche a Piero della Francesca, in versione liquida multicolor, rappresentano il fuoco, la terra, l’aria, l’acqua, o forma stessa dell’universo, fino al culmine oltre tutti gli spigoli, nella perfezione assoluta della sfera, possiamo spaziarci dentro, sguazzare tra le ondate interstellari di colore fluido, non solo pink, in sincrono con la musica cosmica appositamente composta dall’artista stesso. La parte più difficile? Ovviamente uscire, con le vertigini e il mal di terra e continuare imboccando il corridoio di City plan (2018), che ci riporta al tempo e al luogo in cui siamo, sintetizzato dall’affissione delle edizioni locali dei quotidiani del giorno, interfacciati su diversi piani riflettenti, di cui siamo parte anche noi assieme a geometrie ripetute che disegnano ghirigori astratti, mappe tracciate da flussi che scorrono e si accavallano, casualmente e non, da inter/lègere più che lègere, facendo a meno di Google maps o grandi fratelli vari, ma senza dimenticare Eye see you (2006), possiamo quasi toccarne con mano la pupilla alla nostra altezza, guardarci dentro, sentirne il calore fiammante e raccogliendo l’invito dell’artista a co-produrre, in senso creativo e non volgarmente finanziario, le opere in mostra in triangolazione con lo spazio, invece di limitarci a consumarle, risaliamo alle guerre puniche, agli specchi ustori di Archimede o a quelli di Pitagora per scrivere sulla luna. E siamo pronti per incontrare l’ultima opera Fivefold dodecaheron lamp (2006), lupus in fabula, forse un lapsus dal quale intravediamo Lampada ad arco (1909-1911) di Giacomo Balla stampata in 3D, oppure solo un esterno notte qualunque, frastagliatamente illuminato, perché ormai è chiaro che ciò che conta non è cosa bensì la lente, in tutte le sue sfumature, attraverso cui si guarda, in altre parole “se grazie alla mostra troviamo consapevolezza del ruolo attivo nella reinterpretazione di questo spazio come esperienza condivisa allora auspico che possa essere anche un invito a riflettere in modo analogo anche su altri spazi di cui facciamo parte: la famiglia, il lavoro, la comunità, la società” (Olafur Eliasson, 2022).

Gennaio 2023