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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Mark Rothko in mostra

Daniela De Dominicis
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È una mostra epocale quella ospitata dalla Fondazione Vuitton di Parigi dal 18 ottobre 2023 al 2 aprile 2024 su Mark Rothko, frutto di quattro anni di preparazione. Un’antologica con ben 115 opere che, come sostiene il figlio dell’artista, Christofer, nessun museo pubblico avrebbe mai potuto promuovere, visti i costi altissimi delle assicurazioni per quadri che vengono valutati ormai diverse decine di milioni ciascuno. Nel maggio 2012 infatti la vendita di Orange, Red, Yellow (1961) alla casa d’aste Christie’s di New York, ha sfiorato gli 87 milioni di dollari e le quotazioni si sono mantenute da allora su cifre analoghe.
La Fondazione Vuitton - voluta da Bernard Arnault (1) nel 2006 ai margini del Bois de Boulogne a Parigi con l’ardito progetto architettonico di Frank O. Gehry - non è inedita a proposte culturali di ampio respiro, di quelle che, come si usa dire, da sole meritano il viaggio. Solo per citarne due tra le recenti: l’antologica sulla designer Charlotte Perriand (2) (2019-20) e la mostra su Ivan e Mikhaïl Morozov (3) (2021-22). La prima è stata oggetto di una ricca monografia che ne ha chiarito le competenze all’interno dello studio Le Corbusier nell’ambito del quale la designer ha lavorato. La rassegna ha permesso di restituire alla Perriand la progettazione di oggetti di arredo da sempre assegnati al suo maestro (4) facendo finalmente chiarezza sulla sua statura intellettuale e sul ruolo che ha giocato nell’ambito del design francese. Ai secondi – i famosi collezionisti russi che nella Parigi a cavallo tra Ottocento e Novecento hanno fatto incetta dei capolavori di Manet, Monet, Toulouse-Lautrec, Denis, Gauguin, Matisse, Picasso, ... – la Fondazione ha dedicato un’ampia rassegna con circa 200 opere provenienti dalla Russia. Le due ricche collezioni private, a lungo nascoste nei sotterranei dei musei, sequestrate dai bolscevichi come esempio di arte occidentale degenerata e corrotta, è oggi il fiore all’occhiello del Puškin e della Galleria di Stato Tretyakov di Mosca nonché dell’Ermitage di San Pietroburgo. Le esposizioni della Vuitton si avvalgono di team internazionali che rendono le mostre e i cataloghi della Fondazione pietre miliari della storia dell’arte. Tutto ciò a fronte del venir meno di un ruolo analogo sostenuto dai musei pubblici parigini. Il Louvre si è limitato a proporre nel 2023 alcuni capolavori del Museo di Capodimonte approfittando della sua ristrutturazione; il d’Orsay sembra invece puntare tutto sulla celebrazione dei 150 anni della nascita del movimento Impressionista coinvolgendo diversi musei francesi acciocché l’iniziativa assuma la dimensione di una festa nazionale. Considerando tuttavia che il d’Orsay vanta la più ricca e studiata collezione al mondo di quest’avanguardia, non ci si può aspettare da tale mostra novità propositive o interpretative illuminanti. Lo spot veicolato già ad agosto per promuovere i viaggi nei luoghi dell’Impressionismo, prodotto da Normandie Tourisme (5), punta del resto sulle capacità di rivivere emozionalmente i quadri come realtà immersive totalizzanti. Non va meglio per l’arte contemporanea, il Centro Pompidou chiuderà infatti i battenti per cinque anni, dal 2025 al ’30, per la rimozione dell’amianto e l’adeguamento alle recenti normative sulla sicurezza e sul risparmio energetico dell’intera struttura; il museo fallirà così le celebrazioni dei suoi cinquant’anni che cadranno nel 2027. Per i lavori sono previsti investimenti compresi tra i 200 e i 260 mln di euro anche se nulla è dato ancora sapere sulla sorte dei 480 lavoratori del museo che hanno proclamato scioperi intermittenti per avere attenzione e sicurezze.
E dire che i musei francesi possono far affidamento sui consistenti finanziamenti concordati in occasione della convenzione trentennale – recentemente prolungata fino al 2047 – firmata tra la Francia e gli Emirati arabi (2007) per l’apertura della sede del Louvre-Abu Dhabi concretizzatasi nel 2017. La Francia ha assicurato la possibilità di utilizzare il logo del Louvre, l’alto profilo scientifico di quattro mostre annuali nonché il prestito di trecento opere provenienti da dodici musei nazionali ricavandone in cambio compensi mai del tutto esplicitati che tuttavia dovrebbero aggirarsi intorno al miliardo.
La gestione dei musei è indubbiamente costosa e il prestito di opere per esposizioni temporanee viene considerato la più proficua modalità di autofinanziamento, ma la Fondazione Vuitton non viene minimamente toccata da tali problemi potendo far affidamento sui consistenti investimenti del suo fondatore. In occasione delle esposizioni temporanee, la ricca e prestigiosa collezione permanente viene smantellata e i quattro piani della struttura sono interamente dedicati al tema proposto. Secondo una modalità ormai consolidata, le mostre vengono articolate in un percorso cronologico che prende avvio dal piano interrato. Ed è qui che i curatori dell’esposizione in corso – Suzanne Pagé e Christopher Rothko – hanno disposto la prima delle nove sezioni in cui sono scandite le opere (6). L’ambiente iniziale ospita le scene figurative di marca espressionista che il giovane Marcus Rotkovitch (7) – secondo una delle numerose traslitterazioni dai caratteri cirillici che nel ’40 l’artista abbrevierà in Rothko, nome ufficializzato solo nel ’59 – realizza negli anni ’30 a New York dove si è ormai da tempo trasferito e dove scopre l’interesse per la pittura. Non è la prima volta che queste opere vengono esposte, per esempio anche a Roma nella monografica del 2007 (8) ve ne erano alcune, ma sono indubbiamente lavori meno noti rispetto ai cosiddetti Color field che costituiscono la cifra distintiva dell’artista.
Così come meno noto è il ciclo sui temi mitologici, presente nella seconda sezione, che impegna Rothko negli anni ‘40 e con il quale rielabora le radici culturali di un’Europa all’epoca assediata dalla guerra. In tali lavori i miti si concretizzano nelle forme sinuose del linguaggio surrealista introdotto negli Stati Uniti dagli intellettuali fuggiti dal vecchio continente. Il MoMA nel ’39 dedica loro una mostra e la gallerista Peggy Guggenheim li sostiene commercialmente. È proprio grazie a quest’ultima che dalla metà degli anni ’40 la figura di Rothko comincia ad emergere nel panorama artistico newyorkese in modo sempre più nitido fino a rappresentare il paese alla Biennale di Venezia del ’58 (9). Da allora il suo è un percorso in ascesa sostenuto da una ricerca artistica il cui campo di indagine è sempre più circoscritto. La figurazione semplificata ed essenziale dei primi lavori, così come le immagini rarefatte e lievi delle opere surrealiste, lasciano dal ’46 luogo all’astrazione. I Multiformes si presentano come campi di colore flottanti sulla superficie, non più delimitata dalla cornice. Dai primi anni ’50 i rettangoli colorati si riducono a due o tre su tele sempre più grandi che sembrano avvolgere lo spettatore. L’iniziale concretezza materica diviene sempre più trasparente, organizzata in sovrapposizioni traslucide di colore che rendono la superficie impalpabile e morbida, ricca di vibrazioni in cui lo sguardo può sprofondare senza alcun ostacolo. La sua diventa una ricerca sul limite delle percezioni e della conoscenza assumendo valenze prossime al misticismo. I titoli perdono qualsiasi riferimento e diventano una sequenza numerica.
Queste opere rappresentano la parte più consistente della mostra e si distribuiscono in diverse sale attingendo alla collezione di ben trentadue musei e diverse collezioni private. Ma i punti di forza dell’esposizione sono in realtà le ricostruzioni di due ambienti pittorici: i Seagram Murals e la Rothko Room della Phillips Collection.
Il primo è l’intervento cui Rothko comincia a lavorare nel giugno nel 1958 quando riceve da Phyllis Lambert (10) e Philip Johnson (11) la commissione per una serie di pannelli murali per la sala del ristorante Four Seasons presso l’appena concluso grattacielo Seagram Building a New York. Il programma federale del Works Progress Administration (WPA) è stato dismesso da tempo e le commesse pubbliche derivano ormai dal capitale privato. L’artista ricostruisce il volume del ristorante con un’impalcatura eretta in un ex palestra affittata per l’occasione al 222 di Bowery Street e dà vita a tre serie (circa trenta tele), sperimentando tonalità cromatiche diverse. Opta infine per sette lavori di formato orizzontale sulla cui superficie la presenza di sagome suggerisce vagamente l’idea di una soglia, di un’apertura; i toni scelti sono quelli del rosso-bruno e del nero. Dispone anche precise indicazioni per l’organizzazione delle opere nell’ambiente ma nell’aprile del ’60, nonostante il lavoro effettuato, rescinde il contratto, percependo forse che la fruizione dei suoi dipinti è incompatibile con la destinazione d’uso della sala. Solo nel ’69 si concretizza l’idea di donare nove di questi lavori alla Tate di Londra (12) approntando una maquette per guidarne la distribuzione e le condizioni di illuminazione. La scelta museale permette all’artista di avere così la sequenza riunita in uno spazio di pubblica fruizione prossima ai quadri dell’amato Turner. Rothko non la vedrà mai in opera perché il giorno dell’arrivo delle tele a Londra, il 2 febbraio del 1970, è anche quello in cui viene trovato senza vita. La mostra alla Fondazione Vuitton è la prima occasione nella quale l’intero ciclo viene prestato e lascia temporaneamente Londra. Nel 2008 i lavori della Tate erano stati invece raggiunti dai cinque – realizzati da Rothko sempre per il Seagram – conservati in Giappone presso il Kawamura Memorial DIC Museum of Art di Sakura, anche in tal caso una trasferta unica nella storia (13).
Il secondo ambiente che la mostra parigina eccezionalmente ricrea è la “Rothko Room” della Phillips Collection di Washington. Si tratta della sala progettata e allestita nel ’60 durante i lavori di ampliamento del museo statunitense e pensata in accordo con l’artista. È il primo ambiente espositivo dedicato esclusivamente al suo lavoro, pensato come una sorta di piccola cappella con una panca al centro per potersi sedere a meditare: una sola opera per parete, la luce soffusa per esaltare i colori e un’unica finestra sottile a tutt’altezza nel lato Nord (14).
Gli anni ’60 sono indubbiamente quelli di maggior riscontro per il lavoro dell’artista. Il MoMA lo consacra con una retrospettiva che sarà poi ospitata nelle più importanti città europee (15). Sono gli anni dei Blackforms – percepibili solo in penombra (16), dopo la necessaria assuefazione dell’occhio alle scure tonalità che li costituiscono – e quelli della Cappella di Houston per i coniugi John e Dominique de Menil, inaugurata il ‘71 dopo la morte dell’artista. Come per la “Rothko Room” anche in questo caso l’edificio è progettato ad hoc e l’architetto, Philip Johnson, ne modifica la planimetria, da quadrata ad ottagonale, accogliendo le indicazioni del pittore. Al suo interno si dispongono quattordici tele di grande formato, concepite come un insieme unitario, in toni prugna e nero. Una sezione documentale ne approfondisce l’esperienza a latere della mostra.
L’ ampio spazio della galleria 10 accoglie l’ultima produzione dell’artista, la serie Black and Gray, cui fanno da contrappunto alcune esili figure di Giacometti. È accanto ad una sua monumentale scultura che Rothko avrebbe dovuto realizzare un intervento di dimensioni ambientali per la sede parigina dell’UNESCO. Il ciclo Black and Gray è dunque pensato per tale commissione cui tuttavia l’artista rinuncia nel luglio del ’69. Si tratta di tele campite di nero nella parte superiore e grigie nella restante, prodotte in acrilico, senza la possibilità per lo sguardo di affondare nella superficie pittorica, anomale quindi rispetto alla trentennale produzione precedente. L’austerità che ne deriva è stata spesso relazionata con lo stato depressivo con cui l’artista si trova a convivere nell’ultima fase, forse per il repentino deteriorarsi della sua salute.
I curatori della mostra hanno però inteso confutare tale interpretazione. In primo luogo ipotizzando la volontà dell’artista di avvicinarsi alla Minimal Art allora imperante. Già alla fine degli anni ’50 il giovane Frank Stella – riconosciuto come punto di riferimento del movimento in pittura – aveva proposto al MoMA la serie dei Black Paintings (17). Ma soprattutto, i curatori hanno voluto evidenziare che Rothko, anche nella fase conclusiva della sua attività, non abbia mai dismesso l’utilizzo del colore tant’è che, nell’ultima galleria, prendono posto tre tele con le stesure brillanti del rosa, rosso, arancione e blu. Il ciclo dei Black and Gray sarebbe dunque una declinazione episodica di una ricerca che si mantiene compatta e coerente fino alla fine. Si ha tuttavia la sensazione di trovarsi di fronte ad una forzatura critica sostenuta più dalla volontà di ribaltare uno schema interpretativo consolidato che non da evidenze manifeste. Ma questo nulla aggiunge o toglie all’intero corpus della produzione che visto nella completezza cronologica si mostra in tutta la sua densità straordinaria che permette di avvicinare gli occhi e la mente ai confini del mondo sensibile.

Gennaio 2024

1) Bernard Arnault (1949), imprenditore francese fondatore della società LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy) che controlla sessanta marchi del lusso. Secondo Forbes (2023) risulta essere l’uomo più ricco dopo Elon Musk.
2) Charlotte Perriand: Inventing a New World, Fondazione Louis Vuitton, Parigi, 2019-2020.
3) The Morozov Collection. Icons of Modern Art, Fondazione Louis Vuitton, Parigi, 2021-2022 che segue di qualche anno la mostra dedicata all’altro collezionista russo Sergei Shchukin organizzata dalla stessa Fondazione nel 2016-2017.
4) La mostra su Charlotte Perriand ha permetto di attribuirle, tra altro, la progettazione della Fauteil Pivotant assegnata dal catalogo Cassina a Le Corbusier.
5) Il filmato Les voyages impressionnistes en Normandie et à Paris Region, co-finanziato dallo Stato, dalle Regioni Normandia e Ile-de-France, prodotto da Normandie Tourisme, è finalizzato a promuovere viaggi nei luoghi impressionisti in occasione delle iniziative per la celebrazione dei 150 anni del movimento.
6) Le sezioni della mostra sono titolate: Scene urbane, metro e ritratti; Mitologie e neo-surrealismo; Multiformi e prime opere classiche; Gli anni ’50; Seagram Murals; Blackforms; La “Rothko Room” alla Phillips Collection; Gli anni ’60; Black and Gray, Giacometti; E ancora, il colore.
7) Marcus Rotkovitch nasce nel 1903 a Dvinsk nell’attuale Lettonia, all’epoca parte dell’Impero russo. Si trasferisce con la famiglia all’età di dieci anni a Portland negli Stati Uniti e dal 1923 a New York. Ottiene la cittadinanza statunitense nel 1938.
8) Oliver Wick (a cura di), Mark Rothko, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 6 ottobre 2007- 6 gennaio 2008, cat. Skira.
9) Alla XXIX Biennale Internazionale d’Arte di Venezia del 1958 gli Stati Uniti d’America sono rappresentati da Seymour Lipton, David Smith, Mark Tobey e Mark Rothko.
10) Phyllis Lambert (1927), nata Bronfman, architetto canadese. A lei si deve la scelta di Mies van der Rohe come progettista del Seagram Building a New York, sede dall’azienda diretta dal padre.
11) Philip Johnson (1906-2005), architetto statunitense, ha curato per il Seagram Building l’interior design.
12) Le nove tele sono attualmente esposte presso la sede della Tate Modern di Londra, inaugurata nel 2000. 
13) Achim Burchardt-Hume, Rothko: The Last Series, Tate Modern, Londra, 2008.
14) Nel 2006 la Phillips Collection si è ampliata con un nuovo edificio, il Sant Building, dove sono state trasferite le tele di Rothko ricreando le condizioni espositive concordate con l’artista.
15) La retrospettiva “Mark Rothko” si inaugura al MoMA nel gennaio 1961, prosegue poi nell’arco dei due anni successivi a Londra, Amsterdam, Bruxelles, Basilea, Roma (presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna) e Parigi.
16) L’illuminazione della mostra ha privilegiato ambienti in penombra per far emergere maggiormente i toni dei colori. Per il ciclo dei Blackforms la sala è particolarmente scura perché, diversamente, le variazioni di tonalità sarebbero impercepibili.  L’allestimento è stato curato da Agence Bodin et Associés e da Agence Arter.
17) Dorothy Miller (a cura di), Sixteen Americans, MoMA, New York, 16 dicembre 1959 -17 febbraio 1960.