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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

La resilienza dell’arte negli interstizi tecnologici
Jon Rafman / Wolfgang Staehle

Patrizia Mania
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Sono passati ormai più di vent’anni dalla pubblicazione dell’agguerrito pamphlet di Paul Virilio “La bomba informatica” nel quale esordiva ipotizzando una progressiva “militarizzazione della scienza” complice la separazione della cosiddetta tecnoscienza dai suoi fondamenti filosofici e in cui prefigurava la distruzione delle “sapienti risorse di ogni conoscenza” dal momento che nella scia da lui chiamata “bomba informatica” intravedeva “la temibile minaccia di un accecamento, di una cecità collettiva dell’umanità, la possibilità inaudita di una disfatta dei fatti e dunque di un disorientamento del nostro rapporto con il reale” (1). Una visione apocalittica che, in ogni caso, al di là dei necessari aggiustamenti e correzioni di tiro, resta, come scriveva nella postfazione all’edizione italiana del 2000 Carlo Formenti, “un ottimo antidoto per piantare il seme del dubbio nella mente delle folle di fedeli che s’inginocchiano davanti allo schermo del PC, in attesa dei miracoli annunciati da Pierre Levy e altri profeti del virtuale” (2).
Tra l’altro, col senno di poi, la nefasta profezia non sembra, almeno per alcuni aspetti, essersi molto distaccata dal vero. In questa direzione, a premere sull’acceleratore per rispondere alle richieste di funzionalità è stata l’emergenza COVID19 che ha imposto rapidi aggiornamenti e indifferibili acquisizioni di nuove competenze di massa. Accanto ai vantaggi se ne sono così cominciati ad intravedere anche i limiti a partire da interrogativi quasi banali sugli orizzonti che si sono aperti ma anche sui meccanismi di sorveglianza dei quali improcrastinabilmente tenere conto. Per tutte queste ragioni, sempre più stringentemente uno dei grandi temi del dibattito attuale si è sviluppato sulla questione dell’uso e abuso delle tecnologie e di quanto interferiscano con le nostre libertà nella preliminare constatazione della loro pregnante e pervasiva presenza nelle nostre vite. Le condizionalità che imprimono sulla quotidiana percezione del reale si sono evidenziate a tal punto che allo sconcerto per l’imprevedibilità si è aggiunta la vertigine dell’incommensurabilità sovrapposta al timore che qualcosa ci sia sfuggito di mano e che quindi sia ora difficile anche solo ipotizzare di praticare una qualche forma di resistenza. Scendendo maggiormente nel dettaglio, il punto focale del dibattito è imputato in particolare alla sorveglianza che gli algoritmi delle tecnologie digitali diffusi sul web esercitano sul nostro vissuto.
La questione è dapprima affiorata, poi entrata prepotentemente alla ribalta e dilagata velocemente proprio, come si diceva, sulla scorta dell’urgenza sanitaria che ha deviato sul binario parallelo della tecnologia on line la maggior parte delle attività. Dallo Smart working alla Dad nessuno tra i campi di possibile applicazione è stato escluso, obbligando, qualora già non le si possedesse, alla veloce acquisizione delle giuste competenze per lavorare, apprendere e dilettarsi a distanza in condizioni di isolamento e soliloquio. Paradossalmente, a scorrere sul lessico adottato per definire queste attività sembrerebbe rinviare molto alla realtà - “stare in contatto”, “connessi”, “vicini ma distanti”- sorvolando sul fatto che tutto questo avviene in uno spazio virtuale, altro rispetto a quello realmente occupato e con un linguaggio diverso che traduce il nostro pensiero in codici nuovi dominabili a stento dalla generazione dei no millenials. In questa delocalizzazione virtuale, la rivoluzione delle relazioni, imponendo la flessibilità perenne indotta dalle continue trasformazioni e avanzamenti peculiare al mondo della rete, ha quindi dato rapidamente consapevolezza delle potenzialità enormi - non sempre ancora tutte esplorate - ma anche, come si accennava, dei “muri invisibili” cui andiamo via via assoggettandoci e che sono alla base dell’intreccio tentacolare della “telesorveglianza”. Ciò non risparmia ovviamente le immagini e, nello sterminato panorama, alcune ricerche artistiche hanno già da qualche anno mostrato di aver assunto il problema proponendo scarti critici di grande interesse in contrasto con il senso di impotenza e di sopraffazione.
Tra le tante risposte, potrà essere utile soffermare la nostra attenzione su due casi che esemplificano l’assunto. Entrambi concernono il disvelamento della rete di sorveglianza che permea l’intero sistema tecnologico e benché in essi affiorino prospettive diverse -sull’involontarietà sublimata e sulla vocazione all’imprevedibilità - mostrano come le prerogative dell’arte possano configurare interlocuzioni critiche di riscatto dagli abissi tecnologici. Da questa prospettiva per la prima accezione si rivela quasi paradigmatico uno dei più noti lavori dell’artista canadese Jon Rafman Nine Eyes of Google Street View consistente in una sequenza di scatti fotografici predati a Google Street View (3). Il lavoro, iniziato nel 2008, è in continua evoluzione e può essere seguito su Tumblr, al link http://9-eyes.com/. Immagini involontarie che casualmente riprendono e fissano persone, cose, eventi a latitudini diverse registrate dalla piattaforma sono selezionate dall’artista e restituite in diverse modalità –pdf, stampe su carta…- che tradotte in versioni differenti obbligano ad una pausa di riflessione (4). L’accento riguarda anche i soggetti estrapolati, che risultano accidentali e inaspettati paesaggi, antropici e no, e che mettono in guardia sia sulla presunta oggettività del mezzo che sulla privacy e appunto sull’esercizio parossistico della sorveglianza. In sé il lavoro è sia un progetto archivistico di raccolta di immagini che una riflessione concettuale sulle potenzialità della fotografia digitale nel tempo dell’immaginario massivamente automatizzato. Da parte dell’artista non è effettuata una scelta a priori sul soggetto prescelto e catturato e l’indagine, antropologicamente sfaccettata negli esiti, investe un lato nascosto del deep web e “disvelato” dall’artista.
Quando Jon Rafman ha iniziato a collezionare screenshots di immagini tratte da Google Street View, la stessa piattaforma era una iniziativa relativamente recente nata con l’intento di documentare attraverso la fotografia ogni angolo del mondo, ogni strada, autostrada o vicolo, sul presupposto di un punto di vista oggettivo nella restituzione della realtà. Rafman, come detto, cominciò ad isolare progressivamente alcune immagini da questo database traslandole in pdf o stampandole su carta e così spingendo ad interrogarsi oltre che sul loro statuto, sulle eventuali potenziali ripercussioni di questa messa a nudo del reale.
Secondo Alec Recinos, autore di un interessante saggio su questo progetto (5), l’approccio di Rafman alla fotografia, seguendo il pensiero di Artie Vierkant (6) è da ritenersi “post-internet” e i risultati delle sue immagini possono ragionevolmente accostarsi a quella nozione di “sublime postmoderno o tecnologico” derivata dalla rilettura kantiana fornita da Fredric Jameson (7).
Google Street View è stato introdotto come funzione di Google Map nel 2007, un anno prima dunque del progetto di Rafman. Nella Street View che conosciamo oggi, un utente può accedere ad una determinata strada o angolo paesistico quasi ovunque nel mondo ed esplorare immagini panoramiche di una serie di luoghi messe insieme come si trattasse di un mosaico di scatti che ricostruiscono una visione a 360°. Una squadra di automobili equipaggiate da un palo sulla cui parte superiore sono fissate 9 telecamere fotografa al suo passaggio l’ambiente circostante. Questo il modo impiegato, ed è proprio da questo dispositivo a 9 telecamere che prende nome il progetto di Rafman.
L’occhio moltiplicato che ritrae in maniera asettica il mondo viene fermato e filtrato dall’occhio critico che ne devia la regia verso alcuni interstizi destinati altrimenti ad annegare nell’indistinto di una presa diretta e indiscriminata dell’esistente. La peculiare energia della ricerca di Rafman sta infatti propriamente nella sottrazione all’indistinto del fermo immagine estrapolato. Una ricerca che subordinatamente riguarda anche la questione di una osservazione e registrazione che, priva di qualsiasi preventiva autorizzazione, sorveglia e controlla il paesaggio nel suo insieme e quindi anche quello antropico.
L’occhio vigile del “grande fratello” si muove con l’intento di attraversare tutte le strade, tutti i luoghi del mondo con indifferenza per i vissuti intercettati casualmente.  Dunque l’orientamento - sapere dove ci si trova e dove si intende andare - è funzione primaria scissa dai contesti eventualmente lesi. Questo tracciamento iconico corre in parallelo a quello dei vissuti documentali di ognuno accertati già fin dagli smartphone che segnalando la postazione dell’utente ne accompagna le navigazioni sul web come un intruso inopinatamente autoinvestitosi del diritto a stare accanto.
Così, attraverso sofisticati algoritmi di quelle che possiamo definire le reti di sorveglianza digitale gestite dalle grandi corporation globali come lo sono Google, Amazon, Facebook, Apple, i dati intrecciati consentono di esercitare una sorveglianza a livelli plurimi. “Viviamo in prigioni di vetro costruite su fondamenta algoritmiche”, così ha scritto Tiziano Bonini  tratteggiandone la dimensione nella quale ritiene che proprio gli algoritmi  in virtù dell’azione di sorveglianza esercitata siano da doversi considerare le “nuove prigioni dalle pareti invisibili”(8).
Tra gli interstizi del reale capitò l’11 settembre 2001, giorno dell’attacco alle Twin Towers di New York, che mentre si riuscì ad effettuare la ripresa del secondo aereo abbattutosi sulla seconda torre a distanza di circa 17 minuti dalla prima, l’unica registrazione del primo impatto si dovesse ad un lavoro dell’artista Wolfgang Staehle che aveva progettato di riprendere in tempo reale con la sua webcam live feed posizionata sull’East River di Brooklyn lo splendido skyline urbano di Manhattan. Certamente non avrebbe potuto prevedere in alcun modo quanto stava per accadere, anche se, essendo lo scopo connaturato al mezzo, qualsiasi evento sarebbe stato registrato e il caso volle che la fissità del punto di vista potesse consentire al progetto di farsi testimonianza di un evento storico imprevedibile.
L’antefatto della genesi del progetto è nel 1999 in occasione dell’invito di Peter Weibel a Staehle a partecipare con il progetto The Thing - una comunità di artisti da lui fondata nel 1991 - alla mostra “net_condition” alla galleria ZKM di Karlsruhe. Ritenendo però il lavoro richiesto inadatto, Staehle presentò Empire 24/7, un’immagine live dell’Empire State Building di New York trasmessa su internet e installata come videoproiezione a parete nella galleria ZKM (9). L’artista ha ricordato di essersi trovato davanti all’installazione un giorno alle 13 mentre in quel momento a New York erano le 7 del mattino e che “quest’esperienza incredibilmente viscerale di sincronicità”, proprio questa vertiginosa “compressione di spazio e tempo” e la sua scoperta, sarà all’origine di Untitled del 2001.
Invitato da Tamas Banovich a fare una mostra alla Postmasters Gallery di New York, Staehle scelse tre scenari sui quali avrebbe simultaneamente puntato la sua telecamera: a Comburg nei pressi di Stoccarda su un monastero benedettino; sul Fernsehturm a Berlino e appunto su un grande panorama della parte bassa di Manhattan.
Le riprese venivano proiettate sulle pareti della galleria in tempo reale con uno scarto di 4 secondi. All’ingresso della mostra c’era inoltre un monitor che elencava i nomi di quanti vi avevano collaborato e il seguente brano tratto dall’ Introduzione alla Metafisica di Martin Heidegger: “In un’epoca in cui anche l’ultimo angolo del globo terrestre è stato conquistato dalla tecnica ed è diventato economicamente sfruttabile, in cui qualunque evento in qualsiasi luogo e momento è divenuto rapidamente accessibile, [in cui si può ‘vivere’ nel medesimo tempo un attentato in Francia contro un monarca e un concerto sinfonico a Tokyo,] il cui il tempo non è più che velocità, istantaneità e simultaneità mentre il tempo come storicità autentica (Gerschichte) è del tutto scomparso dalla realtà di qualsiasi popolo; in un’epoca in cui un pugile è considerato un eroe nazionale, in cui milioni di uomini delle adunate di massa costituiscono un trionfo; allora, proprio allora, l’interrogativo: a che scopo? dove? e poi? [ci si ripresenta come uno spettro, al di sopra di tutta questa stregoneria]”(10). Un richiamo ad Heidegger proposto come commento critico del presente. Il brano estrapolato, nonostante sia stato assunto decontestualizzato dalla riflessione sul futuro dell’Europa, indica la traiettoria nella quale il progetto intese inquadrarsi. Non lo sguardo asettico ma la domanda di fondo sul destino stesso del nostro mondo.
La mostra di Staehle fu inaugurata il 6 di settembre del 2001 e l’11, come detto, la telecamera non poté non catturare anche l’attacco al World Trade Center. Qualche ora dopo l’attentato Staehle ha ricordato di aver risposto all’incredulità di due amici che davanti alla galleria si interrogavano sulle conseguenze storiche dell’accidentale registrazione dell’evento “Ho appena installato una videocamera e ovviamente possono succedere cose”.
Il senso sta tutto in questa stentorea constatazione. Se si progetta una registrazione del reale va da sé che qualsiasi evento possa esservi incluso. La volontarietà è nella ripresa, e solo per casualità circostanziale ha raccontato di un tragico evento. La questione non è tanto relativa alle conseguenze fortuite dello specifico fatto ma rinvia alle potenzialità di questo e di qualsiasi cosa avvenga. Untitled di Staehle è nell’orizzonte virtuale d’oggi un lavoro che si colloca su un piano anteriore, anticipatorio del post internet, ma che ha statutizzato uno scarto rispetto alla percezione del reale e ai suoi limiti.
Con un balzo di qualche anno, cercando di pensare ad un mondo meno tetro, eludere l’algoritmo attraverso la ricerca artistica, o semplicemente aggirarlo sabotandone le supposte inderogabili necessità di funzionamento, e conseguentemente i suoi diktat - è il caso di Nine Eyes di Rafman - provoca di per sé un certo sollievo all’ottundimento della coscienza.
E se la profezia di Orwell pare dunque avveratasi visto che il suo “grande fratello/ dittatore” – metafora degli algoritmi odierni-  sorveglia incessantemente l’intera comunità globale (11) tenendola sotto scacco, a sfuggirvi resta almeno, o tra gli altri, l’atto critico artistico che, sulla soglia della resilienza, mostra di sottrarsi all’inflazione incontrollata e spasmodica del virtuale.
20 Luglio 2020
 
1) Paul Virilio, La bomba informatica, Raffaello Cortina editore, 2000[1998], p.107.
2) Carlo Formenti, “Postfazione”, in Ibidem, p.150.
3) Rafman non è il solo artista che esplora il mondo della Street View. si vedano i casi di Michael Wolf e Douglas Rickard.
4) Le immagini sono state stampate e  in particolare fatte oggetto della mostra Mirror Sites svoltasi nella galleria M+B di Los Angeles nel 2012 oltre ad essere state remixate in altre opere.
5) Alec Recinos, “Towards a Postinternet Sublime. Jon Rafman’s Street View Romanticism” in Rhizome, 4 gennaio 2018
6) Artie Vierkant, The Image Object Post-Internet, 2010, (archived at AAAARG.org & cont3xt.net)
7) Fredric Jameson, Postmodernism or, The Cultural Logic of Late Capitalism, Durham, Duke University Press, 1991.
8) Tiziano Bonini, “Gli algoritmi come prigioni di vetro”, in Hou Hanru, Luigia Lonardelli, Please Come Back. Il mondo come prigione? The World as Prison?, catalogo dell’omonima mostra tenutasi al MAXXI, Mousse Publishing, 2017, p.60.
9) Staehle ha parlato in proposito di immagini istantanee per un consumo istantaneo e nel titolo del lavoro il numero “24/7” faceva riferimento al fatto che la videocamera installata su una finestra di un ufficio riprendeva l’Empire State Building - come nelle disponibilità di apertura di alcuni esercizi commerciali - 24 ore su 24, 7 giorni su 7.
10) Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia editore, 2014, p.48. [Il corso dal titolo Einfhührung in die Metaphysik fu svolto da Heidegger per i suoi studenti dell’università di Friburgo nel semestre estivo del 1935. La prima pubblicazione per la Max Niemeyer Verlag di Tubingen è del 1966]. Nel testo le frasi omesse dalla citazione di Staehle sono tra parentesi quadre.
11) Qui, differentemente da lì va detto che è però impossibile venire eliminati “vaporizzati”, costretti infatti, nostro malgrado, a restare sempre dentro, tracciati in qualche memoria digitale.