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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Il progetto politico sociale dell'arte contemporanea

Domenico Scudero
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L'indagine sulle modalità di rapporto politico fra individuo e mondo circostante ha assunto nell'ultimo decennio un'importanza radicale nelle dinamiche attuative dell'arte contemporanea.
In particolare una separazione netta può essere fatta fra chi adotta un modo di elaborazione creativa che si pratichi attraverso una prassi d'esperienza vissuta o chi invece matura una visione essenzialmente ragionata, contemplativa. La distinzione fra i due modelli può sembrare apparentemente aleatoria ma se decostruiamo dai due modi di rapporti con la realtà tutto il sovrapppeso strutturale non essenziale ci ritroveremo a valutare due sistemi: il primo di azione esperienziale, il secondo di contemplazione ragionata. Non si tratta di modelli tecnici per cui si possa dire che chi agisce nel rispetto di una prassi esperienziale abbia, rispetto a chi lavora con un modello di osservazione valutativa, una differente organicità di pensiero o di cultura. Si tratta apparentemente di due modelli speculativi che offrono anche alcuni paramentri comportamentali variamente simili. Nell'osservazione valutativa, ad esempio di chi costruisce un complicato linguaggio attraverso montaggi tecnologici, coniugando video, immagini fisse, suoni e situazioni, coesistono alcuni parametri tipici della speculazione pragmatica. In termini esclusivamente speculativi, una simile oggettualizzazione si riassume in definitiva nel sistema di esperienza fattuale, sebbene il suo fine sia più allusivamente contemplativo.
Di contro, nella prassi d'attivismo possiamo definire quel carattere di osservazione valutativa nel momento in cui si "sceglie" di affrontare un percorso piuttosto che un altro: nella prassi d'esperienza d'attivismo ciò che conta infatti è il campo d'interesse ma è inevitabilmente una decisione estetica, sensibile. (1)
Se Stephen Willlats sceglie di operare attivando la sua esperienza come vettore di scambio sociale ciò che conta nella sua valutazione non è tanto il modo, ovvero la tecnica intima della realizzazione, ma la scelta di uno scopo dell'operazione da portare a termine. Quindi anche nell'attivismo pragmatico, quando ovvero ci sia la volontà di coniugare il "fare" artistico con il modo di un intervento socio-politico, ciò che conta non può essere la tecnica, ma il fare attraverso cui realizzare il risultato. Tuttavia anche in questa modalità esistono differenze basilari, fra chi pensa che l'azione politica dell'impegno progressista vada vissuta all'interno dell'istituzione e chi invece ha una visione più radicale, sostenendo che l'azione evolutiva e progressista possa esistere solo attivandosi dall'esterno dell'edificio socio politico istituzionale. Come esempio originario può citarsi la differente modalità di rapporto con la contestazione di fine anni '60 praticata da Adorno e Beuys. Adorno nei suoi ultimi anni di insegnamento a Francoforte presso l'Istituto di Scienze Sociali non tollerava l'attitudine degli studenti alla protesta svolta in forme d'azione radicali, come occupazioni e sabotaggi. Nel 1969, più volte interrotto dagli studenti e impedito nel suo lavoro chiama la polizia e fa sgomberare l'aula, fa arrestare gli studenti più riottosi e dichiara che la sua è azione politica perché riconduce la "prassi" della contestazione all'interno di un evoluzionismo intellettuale, l'unico che possa alterare le pratiche di potere. Negli stessi anni Beuys lavora presso l'Accademia di Francoforte e solidarizza con le istanze degli studenti ideando le sue performance, conferenze e lezioni praticate con l'intento di forzare l'evoluzionismo progressista coadiuvandolo da azioni concrete. Il risultato della sua concertazione con gli studenti non si fa attendere e Beuys viene espulso dall'Accademia e fonda successivamente nel 1974 la Libera Università Internazionale per la Creatività e la Ricerca interdisciplinare insieme a Heinrich Böll (2).
La questione non è estranea al contemporaneo e ai suoi attuali attori. Poiché sia nell'attivismo socio politico che nel ragionamento visuale, la nozione principale che sottende entrambe la azioni è quella della scelta apriori della modalità, che è scelta di campo e di contenuti prerequisiti in questo esercizio funzionale ad uno scopo. Così come nella convinzione di Adorno, per molti artisti "contemplativi" è fondamentale agire sulla fruizione e sulla trasformazione della coscienza dello "spettatore", sebbene poi non ne se ne possa misurare l'effetto reale. Anche l'attivismo produce dei cambiamenti esperiti dal fruitore ma la qualità di questi cambiamenti non può essere valutata, o quantomeno non può essere contrapposta al silenzio contemplativo, spesso inesplicabile, di chi valuta un'opera d'arte per la prima volta e ci riflette, anche se di fatto si tratta comunque di una esperienza. Noi non possiamo valutare gli effetti reali della fruizione sugli astanti, possiamo semmai produrre un quadro d'insieme interpretativo attraverso cui è chiaro che la produzione d'esperienza prodotta dall'attivismo socio politico ha un suo scopo e un suo effetto, e la produzione di opere contemplative ha altro scopo e altro effetto. Si tratta di differenze relative, ma prive di una possibilità di essere ridotte comparativamente.
Al di là della pura rappresentazione di un ordine di preselezione del campo d'interesse, e quindi dello scopo, non abbiamo alcuno strumento che possa sottrarci dal campo della pura teorizzazione.
Questa riflessione sul campo d'azione di un'arte come modello d'attivismo o di un'arte come modello contemplativo potrebbe condurci lontano in chiave nominalista ma in questa sede ciò che interessa non è stabilire il valore o la priorità di un modello rispetto ad un altro. In fase creativa questa scelta non è soltanto esplicativa di una motivazione preorganizzata nelle aspettative e nel percorso da seguire, ma disegna anche una precisa scelta di campo, si tratta di optare per una volontà all'arte che sia veicolo di un palese messaggio politico o di affidarsi ad un'operazione creativa che sia vettore di una riflessione statica, anche se al suo interno manifesti un dinamismo tecnico e che questo alla fine sia comunque un dato rilevante anch'esso politico. Il risultato oggettuale, come sappiamo, è estremamente differente nei risultati. Nell'opera di attivismo conta l'azione, l'essenza di uno statuto emergenziale che si riattualizza attraverso la dinamica sociale e che può valutarsi solo attraverso la sua documentazione. Al contrario nell'opera contemplativa è l'oggetto ideato a produrre un'eventuale dinamismo della comprensione politica. Nel primo caso, la documentazione è l'opera concreta, ma allo stesso tempo non lo è, perché a ben vedere nell'attivismo il compimento dell'opera è il suo effetto pratico sul vissuto. Rimanendo al caso di Willats, citato prima, l'opera sarebbe l'incontro fra differenti attori, casualmente messi in gioco dalla progettualità, mentre l'oggetto testimoniale, la grafica che riporta progetto, foto e quanto rimane di quell'incontro, è già simulacro apriori. Per l'attivismo conta lo scopo e l'idea che l'opera materica sia comunque inessenziale si costituisce nella baudrillardiana certezza che sia comunque una falsa coscienza residuale. Di contro nell'atto costruttivo di un'opera contemplativa, lì dove non è richiesta alcuna azione da parte del fruitore che non sia quella di registrare con la sua propria presenza la caducità reale di un oggetto, di un percorso video, un'azione performativa, l'oggetto compiuto, anche immateriale, è l'opera. Si potrà anche dissertare che una simile separazione dogmatica di fatto propone una manichea separazione fra progettualità pragmatica e creatività ideologica. Una separazione che pregiudica la rilevanza di progetti come quelli teatrali e performativi, se non compiuti in fase sperimentale e con l'intervento e scambio fra pubblico e azione. Si potrebbe dire, però, che il teatro di Brecht non sia stato un teatro politico? Eppure era concepito attraverso una modalità di ricezione tutto sommato classica, o per dirla con il termine qui usato, era opera contemplativa. Nell'iperframe dell'attivismo esiste quindi una visione dogmatica, in cui vale l'idea che l'effetto sia l'opera, così come di contro nella visione contemplativa, quando si pratichi una delimitazione netta fra fruitore e autore, esiste una visione manichea per cui o l'opera è frutto di una tecnica convalidata e si configura in oggetto, oppure non è arte, è politica, è sociologia, ma non arte. In questa sede pur validando l'ipotesi che il dualismo implicito nella visione del contemporaneo possa portare ad una visione soggiogata dal dogmatismo o dal manicheismo cercheremo di coniugarne i tratti comuni e di scontornare le eventuali intolleranze massimaliste.
Nel contesto del contemporaneo conta la scelta del linguaggio da usare. Al di là dell'effetto reale che un 'opera possa produrre, ciò che effettivamente risulta evidente è il suo modo lessicale, la maniera attraverso cui viene espletato. Due lavori pensati entrambi per una rielaborazone socio-politica di un argomento di libertà civile possono essere diametralmente opposti, parlare due "lingue" differenti e proporsi però simili nell'argomento affrontato. Di contro questo linguaggio messo in campo risulterà comunque il veicolo essenziale per la sua resa fattuale, e anche il veicolo prioritario della sua riconoscibilità. Ma la scelta del linguaggio non è una scelta totalmente arbitraria, è lo stile di un'epoca, o in caso contrario è la sua contraddizione. I grandi nomi della storia hanno sempre cavalcato le trasformazioni, al di là del singolo valore dei manufatti, l'unicità delle loro vite è comprovata dalle scelte conformate al costume di un'epoca. La monumentale Vite del Vasari, al di là degli innumerevoli spunti di dettagli, è tale non certo per le sue descrizioni ma perché individua il punto centrale di un cambiamento epocale, ovvero che la vita degli artisti fosse essa stessa storia. Quando valutiamo l'estro del nostro tempo dobbiamo quindi riportare il tutto alla domanda essenziale, ovvero quali sono i tratti specifici di questo tempo? La risposta non è facile, ma valutando quello che fanno gli operatori artistici e i linguaggi che usano possiamo elaborare alcune ipotesi. Si tratta di un tempo che privilegia l'individuo, l'organizzatore, isolato e simbolico, il cui linguaggio è svelato apertamente ma è anche falsificatorio, non si tratta di una tecnica purificata, ma di una tecnica mista, ibridata, postprodotta in cui conta il risultato. La tecnica è lo strumento di ciò che dice quest'epoca individualista e la sua contraddizione sta nel fatto che un'epoca così individualista produca il tentativo di un'opera che svilisca l'individuo, lo nasconda e ne faccia strumento di un'operazione sociologica, antropologica, politica. Le due forze attive nel sistema della creazione contemporanea sono infatti le contrapposte visioni di cosa sia l'individuo. Da una parte l'emergenza simulacrale dell'autore, l'individuo coagulante, colui che governa l'atto artistico, e dall'altra l'individuo partecipante, colui che all'azione partecipa o assiste ma non in proposizione oggettivante. Questa spinta alla mortificazione dell'individuo partecipante è oppositoria alla graduale magnificenza dell'individuo attuatore. In alcuni casi questa tensione è stata realizzata a scapito della stessa figura dell'artista.  Ad esempio l'esperienza di Macro Asilo a Roma del 2019-2020 è stata una palese appropriazione dell'individuo artista, divenuto individuo partecipante, da parte dell'individuo coagulante che proponeva una complessa azione dogmaticamente antropologica. Questo continuo tentativo di radicalizzare e sradicare l'individualismo dell'artista e dell'operatore artistico a favore dell'organizzatore - il coagulante -, è una chiave del nostro tempo. Ma il tentativo di sradicare la libertà creativa dell'operatore artistico di per sé non è l'unico segno carismatico di un'epoca. A questo si aggiunge un revisionismo antidemocratico che corrode le tante conquiste che hanno permesso l'emersione di quella libertà di cui l'artista è il massimo esempio. Il sovranismo individualista, nelle sue accezioni composite è il grande nemico della libertà creativa e dell'arte, proprio per questo le operazioni artistiche del nostro tempo piuttosto che comprimersi nell'estatica leggibilità di uno sguardo contemplativo si concentrano sull'attivismo, ma questo attivismo non è la proposta per un mondo ulteriore in cui l'arte vorrebbe portarci, è la resistenza obbligata ad un territorio nemico che avanza e che minaccia di seppellire ogni libertà individuale, anche con sistemi che sulle prime sembrano innocui.
Osservato da questa prospettiva l'attivismo socio-politico artistico non è tanto un sistema metodologico di confronto con la realtà ma il sintomo di una malattia mortale nell'ambito dei costumi sociali. L'ansia di necessario cambiamento radicale dopo averci trasportati in un'era digitale ci sta richiudendo al suo interno come nelle peggiori distopie alla Matrix. L'attivismo è quindi il linguaggio di una resistenza, una resistenza minata da molteplici accerchiamenti e assediata nel suo continuum operativo dal suo interno.
La querelle fra arte contemplativa e arte d'azione dopo aver corroso sotterraneamente il contesto del contemporaneo del primo decennio 2000 è poi diventata una contesa per l'attribuzione del processo germinale e fondante dell'arte. Nel primo decennio del 2000 l'attivismo politico in arte era confinato nella duplicità del rapporto fra sperimentazione tecnologica, azionismo nelle rete, hackeraggio dei sistemi per renderli aperti, e azioni politiche derivate dal retaggio radicale degli anni Settanta, ma in fin dei conti non erano strategie che potessero in qualche modo determinare un cambio gestionale e vincente nel sistema dell'arte (3). Quando talune esperienze deviavano verso un radicalismo certificato dall'istituzione, come sarà poi nel caso di Stazione Utopia per la Biennale di Venezia del 2003, lo faranno sempre con un duplice sforzo occasionale, ovvero quello di riservare per sé (istituzione) l'onere del controllo sul significato e delega al pubblico di usarne i contenuti, facendo sempre attenzione a non rendere accessibili e divulgativi i significati (4). Ed è proprio in quell'occasione che l'idea dell'azionismo artistico si tramuta da mezzo politico nel linguaggio artistico a sistema di politica del controllo operato attraverso le modalità gerarchiche. Non si è trattato di un percorso improvvido e irruento, una presa di potere circostanziata da un singolo evento, ma il risultato di una continua rincorsa e circoscrizione delle dinamiche socio politiche praticata attraverso l'uso della comunicazione e delle sue risorse di potere. Per tutto il decennio e sino agli anni attuali l'azionismo e le pratiche relativistiche e individuali sono state sostenute, affiancate e regolate da un sistema espositivo globalizzato in cui la traslazione delle dinamiche oppositive e radicali, dall'assunzione del politically correct alla gestione delle problematiche di gender e di culture postcoloniali, annunciava il crescente peso del sistema "linguistico" della cura critica in diretta competizione con  il libertarismo veicolato dall'operazione artistica (5). I due modelli sono in ultima analisi molto simili nelle loro procedure ma differiscono nelle proposte e nella risposta individuale. Mentre l'azione artistica propriamente detta si propone metodologicamente in prima persona di implementare delle strategie di trasformazione e di sensibilizzazione, il linguaggio curatoriale funge da propulsore di individui e delle loro dinamiche ma sempre gerarchicamente soggiogate dal frame esiziale offerto dalla gestione dei contenuti e dal loro nascondimento (6). Questo movimento enfatico, di monumentalizzazione nell'operatività, si era già visto agli inizi del decennio e lo si vede ancora in molti artisti "contemplativi", attratti dall'aggressività delle forme ingigantite ma tuttavia sono state poi le figure dei mega curatori ad assumerne caratterialmente i connotati della gigantografia allusiva traducendola in grandi mostre e in grandi inesplicabili apparati oggettuali. E qui basti ricordare la Documenta 13, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e il suo catalogo con il manifesto titolo di Book of the Books (7). La palese dimostrazione che il linguaggio curatoriale ha voluto proiettarsi nell'empireo del potere, nella gestione dei significati e nell'immagine deificata del tutto a scapito dell'individuo artista ricollocato nell'area della partecipazione mentre è nella gestione curatoriale l'individuo agglutinante. Un azionismo pragmatico e disseminatorio delle pratiche artistiche con il susseguente risultato di palesare un'immagine ingantita del sé curatoriale e una paritetica similitudine alle strategie suprematiste di taluni politici radicalizzati nella cura del culto della personalità. In un recente testo publicato dalla Sternberg Press di Berlino, editore che si è occupato nello specifico di azionismo politico in differenti volumi, sono riuniti i contributi della curatela internazionale chiamata in un convegno, parte di un programma di master accademico in curatore.  Il tema di cui si discute è per l'appunto quello dell'azione e dell'impegno in arte filtrato dall'operazione coordinatrice della cura, ma ciò che alla fine stupisce è il senso di supremazia culturale di cui la figura del curatore si è oramai ammantata. Ad esempio la già citata Carolyn Christov-Bakargiev apre il volume con un Manifesto, pieno di giuste e buone intenzioni, incoercibili però all'interno di un mondo che non sia perfetto e che diventa invece la perfezione narcisistica dell'organizzatore onnipotente (8). E nello stesso volume Hans Ulrich Obrist pubblica un Non-Manifesto, che in fondo è la stessa visione del precedente Manifesto di CCB (9). O ancora Steven Henry Madoff, il cui scritto è probabilmente il più recente, rendendosi conto che l'azione curatoriale ingigantita dallo scopo istituzionale non può contenere in sé un universo di contenuti che vadano dall'acquiescenza al sistema sino al suo opposto, alla proposta rivoluzionaria, ne descrive la tautologia (10). Il problema posto in essere dall'azione curatoriale che propone un'arte di impegno politico è che inevitabilmente lo spazio dell'esposizione sia in sé uno spazio politico e se questo spazio è un luogo legato all'istituzione, in qualsiasi modalità esso venga allestito e riposizionato sarà sempre negato alla libera funzionalità dell'opera che espone. Lo spazio curatoriale che voglia essere solidale al lavoro di impegno pragmatico dell'arte non può che essere estraneo al sistema politico del potere istituzionale, in caso contrario la mostra avrà lo stesso aspetto di uno zoo, in cui gli animali non domestici sono esibiti e neutralizzati, così come l'arte politica è glacialmente inservibile all'interno di uno spazio curatoriale istituzionale.
Simili riflessioni nascono anche dalla visione di una piccola e improvvisata mostra di documenti realizzata con una certa caparbietà presso la Biennale di Venezia e all'interno dell'edificio precedentemente chiamato Padiglione Italia. In questa mostra, curata con una comprensibile arbitrarietà metodologica a causa del distanziammento sociale imposto da mesi, risulta però chiaro di come l'azionismo dell'impegno politico sia di fatto inconciliabile con le strettoie di ordine e metodo di un sistema preordinato (11). 
Per assurdo che possa sembrare, l'azione pragmatica, quel disegno di rinnovamento attraverso l'exemplum dell'arte concepito dagli operatori artisti viene aggredito e predato nel linguaggio curatoriale per creare il moloch di una cura che è culto della personalità senza alternative, un alone di mistero diafano e tecnologico che ammanta la figura curatoriale rendendola simile allo spettro di un meme digitale del politico sovranista, il suo alter ego culturale. L'appropriazione dell'azionismo politico corre così il rischio di divenire l'arma assolutista per determinare un sé impossibile da alterare, inattaccabile e provvido di senso indiscutibile, corredato da un sistema di segni e di riflessi di segni che lo difendono allusivamente poiché difendono realmente l'idea reale, ovvero la pragmatica assolutista del potere e delle idee, o non-idee, che produce.
20 ottobre 2020
1) Hans Cova, "L'engagement (artistique) est-il nécessairement critique?", in AA/VV, Les formes contemporaines de l'art engagé, sous la direction d'Eric Van Essche, Iselp/Ante Post La Lettre volée, Bruxelles, 2007, pagg. 47-58.
2) Grant H. Kester, "Action and the Critique of Action in Theodor W. Adorno and Joseph Beuys", in Van der Berg, Karen; Jordan, Cara M.; Kleinmichel, Philippe; (editors); The art of Direct Action. Social Sculpture and Beyond, Sternberg Press, Berlin, 2019, pagg 65- 98.
3) Cox, Geoff; Bazzichelli, Tatiana; Disrupting Business. Art and Activism in Times of Financial Crisis, Autonomedia, New York, 2013.
4) Hans Ulrich Obrist, "Utopia Station", in Fare una mostra, trad. it. Utet De Agostini, Novara, 2014, (ed. or. Ways of Curating, Penguin Books, London, 2014), pagg. 177 – 183.
5) Forse più di tutti è stato Nicolas Bourriaud ad intuire di quanto sia costato in termini di verità la settorializzazione tematica che ha partorito il Politically Correct e la successiva parcellizzazione tematica delle strategie politiche in arte; vedi  Il radicante. Per un'estetica della globalizzazione, trad. it. Postmedia, Milano, 2014 (ed. or. Radicant: Pour une esthétique de la globalisation, 2009).
6) Sulla questione delle modalità curatoriali e la particolare influenza che determina sulla realizzazione dell'evento programmato è utile paragonare alcuni esiti enfatici di questi anni, come il caso di Documenta 13, 2012, di Carolyn Christov-Bakargiev o della Istanbul Biennial 16, 2018 di Nicolas Bourriaud, ad una modalità di intervento da artista, come lo è stata Manifesta 11, What People do for Money, Zurich, 2016, curata da un artista, Christian Jancowski, che ha lasciato emergere il rapporto fra individuo e contesto sociale senza peraltro far primeggiare il ruolo del curatore.
7) Carolyn Christov-Bakargiev, (a cura di); The Book of Books, Documenta 13, Hatje Cantz Verlag, 2012.
8) Carolyn Christov-Bakargiev, "Manifesto", in Steven Henry Madoff, (editor), What About Activism?, Sternberg Press, Berlin, 2019.
9) Hans Ulrich Obrist, "Non manifesto", in Steven Henry Madoff, ibid.
10) Steven Henry Madoff, "The space of activim", in ibid
11)  Le muse inquiete. La Biennale di Venezia di fronte alla Storia, padiglione centrale, Giardini della Biennale, 29/8 – 8/12 2020, Venezia.