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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

I musei europei aprono alla decolonizzazione

Daniela De Dominicis
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Inaugurare un nuovo museo con un investimento di 46 milioni di sterline appare un atto di fiducia e di scommessa sul futuro in un periodo come l’attuale profondamente scosso da una globale emergenza epidemica. A settembre 2020 si è aperto a Plymouth nel Sud Ovest dell’Inghilterra The Box, il più grande centro culturale del Regno Unito fuori Londra, che ha inglobato tre strutture preesistenti: un edificio museale di epoca edoardiana, la chiesa di San Luca (1828) e una biblioteca-archivio (1). Il progetto di trasformazione e integrazione dei 3500 mq è stato affidato allo studio Atkins che triplicando gli spazi ha reso fruibile per intero la ricca collezione della città, creato aree aperte al pubblico e nuove gallerie per l’arte contemporanea. Il prezioso archivio con 24mila scatole di documenti costituisce il cuore dell’intervento e, nonostante la pesantezza dei materiali che conserva, è collocato nei piani più alti, la parte più visibile quindi, delimitato da pannelli traslucidi riflettenti e poggiante su un pian terreno fatto a sua volta solo di pareti vetrate. Nel complesso una costruzione quasi invisibile dunque, che affianca con discrezione le preesistenze. Il nuovo allestimento offre un focus sulla ricca e complessa storia della regione fin dall’epoca preistorica con particolare attenzione ai viaggiatori che da qui sono partiti: Francis Drake, James Cook, Walter Raleigh, Robert Scott (2) tra gli altri, che hanno trasformato questa costa della Cornovaglia in una porta spalancata verso l’avventura e l’incognito. Ma non c’è nessun trionfalismo nel presentare questa documentazione, e le storie, come dice l’amministratore delegato Paul Brookes, “vanno raccontate per intero”. Così l’esposizione organizzata per i quattrocento anni della partenza del Mayflower apre a prospettive finora inedite (3). L’avventura dei coloni, poi noti con il nome di Padri pellegrini (4), salpati da Plymouth per il cosiddetto Nuovo Mondo il 16 settembre 1620 sul vascello Mayflower – una trentina di marinai e un centinaio di persone – viene indagata per la prima volta anche attraverso il punto di vista dei nativi che hanno visto la loro vita stravolta, scalzati dai propri territori quando non schiavizzati e ridicolizzati nelle descrizioni degli europei, e dà voce alle loro testimonianze e a quelle degli eredi, presenti con centinaia di foto a saturare le pareti dell’esposizione.
La riscrittura delle esperienze coloniali non è certo inedita ma non antica. È soltanto da una ventina di anni infatti che si è cominciato ad indagare su questo aspetto della storia europea, tematica a tutta prima oggetto di rimozione dopo il drammatico e sanguinoso processo di decolonizzazione avviato pressoché ovunque negli anni Sessanta (5). I primi studi scientifici apparsi sulle riviste Politique Africaine e Cahiers d’études africaines sono stati però preceduti un’opera di sensibilizzazione a cura di intellettuali e viaggiatori, primo fra tutti Edmund Dene Morel, Roger Casement, Adam Hochschild, Aimé Césaire e i più famosi Conan Doyle, Mark Twain e Joseph Conrad (6).
Ad aprire a nuove prospettive narrative è stato tuttavia il Belgio, artefice di una delle colonizzazioni più efferate e rapaci soprattutto ad opera del re Leopoldo II (7). Dopo cinque anni di lavori, l’Africa Museum (8) – questa la nuova denominazione del museo di Bruxelles dedicato alla cultura africana– ha riaperto nel dicembre 2018, con un nuovo ingresso ad opera dello studio Stéphane Beel Architects e un allestimento completamente rinnovato nelle sue modalità espositive e concettuali a cura di Niek Kortekaas e Johan Schelfhout. L’edificio storico, costruito ad hoc dal francese Charles Girault (9), inaugurato nel 1910 con la denominazione di Musée Royal du Congo Belge, è stato il primo museo europeo dedicato alle colonie, senz’altro il più ricco per varietà e quantità di materiali conservati. La sua consistenza è frutto di quanto presentato all’Exposition Universelle del 1897 ospitata nella capitale belga con un’ampia sezione dedicata alla colonia africana che ha inaugurato in Europa l’interesse per la cosiddetta “cultura negra” che tanta parte ha avuto nell’estetica delle avanguardie storiche. In occasione dell’Expo, nell’ampia sezione coloniale, ricca di piante, animali, minerali e manufatti (10), era stata approntata anche la ricostruzione di un villaggio africano con gli abitanti portati come trofei, parte dei quali non sopravvissuti al viaggio e al clima rigido del nord Europa. La finalità propagandistica atta a dimostrare l’opera civilizzatrice dei colonizzatori si è mantenuta pressoché intatta fino al 2013, anno della chiusura, nonostante interventi di rinnovamento effettuati nel corso del tempo. Il punto di vista eurocentrico è stato avvertito però in modo sempre più insostenibile soprattutto dopo la mostra del 2005, Mémoire du Congo, che ha presentato i primi documenti di denuncia sulla brutalità della gestione coloniale (11). L’attuale sistemazione del museo indaga i problemi contemporanei del continente, le sue tradizioni culturali e linguistiche e affronta la storia coloniale con uno sguardo critico, libero da pregiudizi ideologici, documentandone anche gli aspetti più raccapriccianti e dolorosi. 
Si tratta dunque di un’operazione culturale che restituisce dignità alle complesse storie delle popolazioni centro africane e credibilità agli storici belgi che hanno avuto il coraggio di mettere in campo una revisione di portata storica. Il tutto ovviamente non senza reazioni imbarazzate da parte della famiglia reale che ha disertato l’inaugurazione del museo ritenendola un’operazione lesiva della memoria del proprio antenato.
Reazioni analoghe ha suscitato in Francia la legge promulgata dal governo il 23 febbraio 2005 il cui articolo 4 prevedeva di rendere omaggio al milione e mezzo dei francesi rimpatriati dopo la decolonizzazione del ’62 dai territori d’oltremare e ai nativi che li avevano sostenuti, invitando altresì gli insegnanti a sottolineare il ruolo positivo svolto dalla nazione in questi territori. Le infinite polemiche che ne sono seguite hanno costretto il governo ad abrogare l’articolo 4 nel maggio dell’anno successivo.
Riconsiderare le storie coloniali implica anche un ulteriore delicato problema: quello delle opere d’arte sottratte durante le dominazioni, oggi alla base delle ricche collezioni di molti musei occidentali.
Secondo Harwig Fischer, direttore del British Museum, i marmi del Partenone prelevati da Lord Elgin nel 1801 e acquistati dalla Stato britannico nel 1817, sono in realtà valorizzati nel loro ubicazione londinese perché ogni anno vengono visitati da sei milioni di persone. Tuttavia le richieste di “essere dalla parte giusta della storia” e quindi di restituire alla Grecia le sue sculture sono sempre più insistenti e partecipate. Lo statuto del museo vieta in realtà la riconsegna di qualsiasi opera delle sue collezioni ma, nel caso delle sculture provenienti dalla Nigeria, quest’ostacolo è stato superato con un comodato a lungo termine. Così il Regno del Benin (12) (o Regno Edo) – oggi parte della Repubblica federale della Nigeria – riavrà finalmente le sue famose formelle di bronzo (13) prelevate dal leggendario palazzo reale di Edo (oggi Benin City) distrutto durante la conquista militare ad opera dell’esercito britannico nel 1897.
Queste opere saranno esposte a Benin City nell’Edo Museum of West African Art (EMOWAA) in corso di costruzione secondo il progetto di Sir David Adjaye, architetto britannico di origine ghanese. L’edificio ingloberà i previsti scavi archeologici che recupereranno le antiche mura della città e ospiterà non solo le sculture provenienti da Londra ma anche le opere disperse negli altri musei con i quali il British, coinvolto nel progetto, sta creando accordi di collaborazione. L’obiettivo è quello di ricostruire la memoria e le diverse tradizioni dei popoli e Adjaye (14) ritiene che il Rinascimento africano passi proprio attraverso la revisione critica del periodo coloniale e il recupero di quelle radici culturali disprezzate dai conquistatori. Una rifondazione che parte dal concetto stesso di museo non ispirato ai modelli occidentali. Il museo che ha in mente Adjaye non è per le élite ma un luogo catalizzatore di rituali ed eventi quotidiani per tutta la comunità. La costruzione, pur avendo tre piani, si estenderà orizzontalmente come l’antico palazzo imperiale e si ergerà dietro le recuperate mura di cinta, rievocando quindi, come un’apparizione, gli antichi splendori.
Ma non è questo l’unico caso: anche il Victoria & Albert ha manifestato aperture per la restituzione del tesoro etiope di Magdala, la capitale del Regno di Teodoro II, distrutta e saccheggiata dalle truppe britanniche nell’aprile del 1868. Il bottino di guerra, che include anche 500 antichi manoscritti, viene considerato dagli etiopi come emblema dell’identità nazionale. Sempre in Gran Bretagna al museo di Pitt-Rivers ad Oxford, Dan Hicks – responsabile della sezione archeologica e autore del testo The Brutish Museums – ha organizzato il materiale esposto spiegandone in dettaglio le modalità di acquisizione. Ritiene il British Museum un ricettacolo di opere rubate non dichiarate che ne compromettono la finalità educatrice.
In Francia l’Assemblea Nazionale ha recentemente discusso un disegno di legge per avviare la restituzione delle opere sottratte al Benin e al Senegal (15) dando seguito ad un impegno del presidente Macron nel corso di un viaggio nel Burkina Faso nel 2017. Il timore è che l’approvazione di questa legge apra a richieste di restituzione che arriverebbero a minare il concetto di inalienabilità del patrimonio artistico. Il museo più coinvolto è per ora quello di Quai Branly aperto nel 2006 con opere acquisite tra il 1885 e il 1960 provenienti dalle colonie francesi (16) ma certo quest’apertura vira verso una direzione dagli esiti imprevedibili destinata ad avere riflessi anche sulle altre nazioni europee e i loro musei. Basti pensare alle richieste avanzate fin dagli anni Trenta dal governo egiziano per riavere i prestigiosi reperti sottratti al proprio territorio in mostra a Berlino, Londra, Parigi e Torino. Questo a maggior ragione ora che si avvia alla conclusione il trentennale cantiere del Grand Egyptian Museum (GEM) di Giza progettato dallo studio irlandese heneghan peng architects (17), destinato ad essere il più grande museo al mondo dedicato a questa civiltà.  
Tutto ciò evidenzia un cambiamento di sensibilità e di punti di vista che rende difficile oggi convivere con la consapevolezza delle ingiustizie commesse e, in prospettiva, potrebbe determinare la ridefinizione della geografia museale del continente europeo.
Uno degli argomenti utilizzati da coloro che difendono lo status quo delle proprie collezioni è il timore che i paesi africani non siano in grado di garantire la tutela e la fruizione delle opere che verranno via via restituite. Effettivamente per tutti gli Stati di questo continente la transazione verso la democrazia è stata ed è faticosa ma possiamo auspicare, raccogliendo l’intuizione dell’architetto Adjaye, che la ricostituzione dei rispettivi patrimoni culturali sia volano di un prossimo Rinascimento africano.
20 gennaio 2021
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 1) Si tratta di preesistenze Grade II –Listed buildings, ovvero edifici tutelati dal sistema britannico che prevede diversi livelli di protezione, nel caso di specie una tutela di secondo grado.
2) Una sezione permanente del museo si intitola 100 Journeys ed è dedicata ai viaggi con finalità diverse (di colonizzazione, scientifici, di bottini archeologici) che hanno preso le mosse dal porto di Plymouth.
3) Mayflower 400: Legend and Legacy, Plymouth, The Box, 29 settembre 2020 - 29 settembre 2021. La mostra è co-curata dal Wampanoag Native American Advisory Committee.
4) La definizione di Padri pellegrini entra in uso solo a partire dall’800. Si tratta di puritani in contrasto con la Chiesa d’Inghilterra che cercano fortuna altrove. The Puritans: A Transatlantic History, Princeton University Press, 2020.
5) Dopo la seconda guerra mondiale il primo Paese africano a liberarsi del colonialismo è il Ghana nel 1957; l’Algeria avvia una lunga e sanguinosa lotta contro la Francia che si conclude con l’indipendenza soltanto otto anni dopo, nel 1962. Nel 1960 sono ben diciassette i Paesi a diventare autonomi: Senegal, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica del Congo, Somalia, Nigeria, Niger, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Camerun, Benin, Gabon, Mauritania, Togo, Ciad, Repubblica Centroafricana, Madagascar, Mali. Nel corso del decennio tutti gli imperi coloniali perdono i loro territori in Africa tranne quello portoghese che resiste fino alla caduta della dittatura di Salazar nel 1974 determinando, l’anno successivo, l’autonomia di Guinea Bissau, Mozambico e Angola.
6) Edmund Dene Morel (1873-1924) autore di King Leopold’s rule in Africa, Londra 1904. È grazie alla sua campagna di denuncia che si attiva una dichiarazione di condanna internazionale per le atrocità perpetrate dal re Leopoldo II in Congo, costringendolo a vendere nel 1908 la sua colonia personale al governo belga; Roger Casement (1864- 1916), diplomatico britannico, ha sostenuto la causa di liberazione del Congo; Adam Hochschild (1942) ha scritto King Leopold’s Ghost: A story of Greed, Terror and Heroism in Colonial Africa, Boston, Hougthon Mifflin, 1998;
 Aimé Césaire (1913-2008) poeta martinicano, ha inventato con altri il concetto di négritude ripreso nelle lotte di liberazione dai neri d’Africa. È stato deputato della Martinica all’Assemblea generale; ha scritto Discours sur le colonialisme, 1955; Conan Doyle (1959-30), autore di The Crime of the Congo, 1909; Mark Twain (1835-1919), scrive il pamphet King Leopold’s soliloquy, 1905; Joseph Conrad (1857-1924), pubblica il famosissimo Heart of Darkness, 1899.
7) Dopo le esplorazioni di Stanley (tra il 1879-84), il re Leopoldo II ottiene il permesso dalle autorità locali di sfruttare i territori del Congo a titolo personale, privilegio che le Nazioni occidentali confermano durante la Conferenza di Berlino (1884-85) che dà avvio ufficialmente alla colonizzazione dell’Africa.
8) Il museo ha cambiato titolazione più volte: la prima è stata Musée Royal du Congo Belge; dal 1960 Musée Royal de l’Afrique Centrale; dal 2018 ha assunto quella di Africa Museum.
9) Chales Girault (1851-1932) l’architetto è anche il progettista del Grand Palais (1897-1900) e del Petit Palais (1896-1900) a Parigi.
10) La collezione del museo consiste in 120 mila oggetti, 10milioni di campioni biologici, 60mila piante, 15 mila minerali (cfr. africamuseum.be). Tra gli oggetti più famosi vi è una piroga ottenuta con un solo tronco di albero di 22 metri del peso di 3,5 tonnellate.
11) Mémoire du Congo: le temps colonial, a cura di Jean-Luc Vellut, Bruxelles (Tervuren), Musée Royal de l’Afrique centrale, 2005.
12) Regno di Benin o Regno Edo con capitale Benin City (nulla a che vedere con la Repubblica del Benin con capitale Porto-Novo), è un antico Regno di epoca medioevale che raggiunge la sua massima espansione nella seconda metà del ‘400. Nel corso del XIX secolo diventa prima protettorato portoghese e poi britannico. Nel 1914 è costretto militarmente ad accettare la condizione di colonia ed entra a far parte dell’Africa occidentale britannica.
13) Durante la distruzione del palazzo reale nel 1897 ad opera dell’esercito britannico sono state prelevate 2500 opere di bronzo, oggi ospitate in 160 diversi musei. Ben 900 si trovano presso il British. (cfr. Enciclopedia Treccani, ad vocem; Nicol Degli Innocenti, “Se il British Museum diventa Brutish”, Il Sole 24 ore, 22 novembre 2020).
14) Cfr. intervista a cura di Alexander Marshall, “A New Museum to Bring the Benin Bronzes Home”, The New York Times, 1 novembre 2020, dal sito Adjaye.com.
15) Abomay è stata la capitale del Regno di Dohamey, oggi Repubblica del Bénin. Dai sui palazzi reali in terra battuta, patrimonio dell’Umanità dal 1985, la Francia in epoca coloniale ha prelevato 26 opere, il cosiddetto Tesoro di Behanzin che ora intende restituire. Al Senegal invece è già stata consegnata nel novembre 2019 la spada di El Hadji Omar Tall, considerato dai senegalesi eroe nazionale.
16) Al Quai de Branly è confluito, tra l’altro, tutto il materiale precedentemente esposto al Palais de la Porte Dorée costruito per l’Esposizione delle Colonie del 1931. Il Palais de la Porte Dorée ospita dal 2007 il Musée de l’Histoire de l’Immigration. Già nel 1931 la mostra parigina sui possedimenti coloniali francesi aveva suscitato contestazioni tanto che alcuni intellettuali surrealisti avevano organizzato una contro esposizione dal titolo “La verité sur les colonies” cui avevano partecipato anche Aragon, Eluard e Breton.
17) Studio fondato a New York da Shih-Fu Peng e Róisín Henegan, dal 2001 attivo anche a Dublino.