La Linea Insubrica è una mostra che vuole scardinare la continuità e l'egemonia dell’idea monolitica di Europa dando visibilità al punto di vista di artiste e artisti legati al continente africano che, attraverso le opere in mostra, ci raccontano del passato coloniale e di forme di neocolonialismo tangibili che riguardano la nostra quotidianità, dal caffè nell’opera di Francis Offman (Untitled, 2024) al Carcadè nell’installazione di Binta Diaw (Multiplicity of modes: developing the undeveloped, 2024) e la fibra di sisal nella scultura di Kapwani Kiwanga (Repository, 2020). In particolare, l’opera di Alessandra Ferrini (Sight Unseen, 2019-2020) riflette sul passato coloniale italiano, spesso rimosso e occultato, con una videoinstallazione che ci racconta della figura di Omar al-Mukhtar. Possiamo considerare queste opere una forma di attivismo visuale poiché cercano di produrre un cambiamento attraverso un nuovo vocabolario artistico che agisce sul nostro immaginario comune legato al colonialismo italiano.
N.H. Queste narrazioni in che modo possono inserirsi, idealmente, nei programmi scolastici e, realisticamente, in quelli accademici? Entrambi avete insegnato all’Accademia di Belle Arti di Brera proponendo programmi e bibliografie decentrate e decoloniali, che differenze notate tra l'inizio del vostro percorso e il presente in termini di ricezione del programma, sia da parte dei colleghi che degli studenti?
SF-LC. Le immagini ci circondano, fanno parte di ogni minimo aspetto della nostra esistenza quotidiana, dai consumi culturali all’acquisto di cibo o beni, all’informazione e alle illustrazioni sulle copertine dei libri e dei dischi. Il nostro primo lavoro cooperativo di ricerca curatoriale e accademica è nato forse da questo assioma, e si è sviluppato proprio all’interno dell’Accademia di Brera, nell’ambito di un progetto didattico del Dipartimento di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali, tra il 2017 e il 2018. Il progetto si chiamava “Colonialità e Culture Visuali in Italia” e, per un anno, abbiamo indagato con un gruppo di studenti del biennio la produzione culturale italiana del secondo dopoguerra e in particolare la produzione di immaginari legati alla storia coloniale italiana. Durante questo anno di ricerca, nel quale abbiamo imparato a individuare e decostruire tali immaginari nominando le eredità fasciste, nazionaliste e razziste sulle quali erano stati costruiti, abbiamo dialogato sulla base di una volontà di creare alleanze etiche e culturali costruttive e di lunga durata con artisti, artiste, ricercatrici e ricercatori, attiviste e attivisti che in Italia si sono occupate negli ultimi anni di tali questioni. Il risultato di tale ricerca è sconfinato in una mostra curata dagli studenti del biennio (intitolata Amnistia), e nella pubblicazione di un libro edito nel 2022 dall’editore Mimesis. Lunga storia per sottolineare un punto a cui teniamo molto: se i due risultati tangibili della ricerca, mostra e libro, sono sicuramente quelli più visibili nella sfera culturale italiana, il vero traguardo raggiunto, a nostro parere, è stata la trasformazione collettiva e duratura del nostro sguardo, quello di noi due docenti e curatori, ma soprattutto quello di studentesse e studenti, che dopo tale progetto hanno intrapreso a loro volta progetti di produzione culturale contemporanea profondamente legati a questa nuova consapevolezza costruita leggendo e guardando immagini. Riteniamo dunque che scavare, mostrare, farsi domande, aprire dialoghi, realizzare progetti, sia l’unico modo affinché le discorsività radicali spesso relegate al mondo accademico si trasformino in humus vitale sul quale germinano cambiamenti dello sguardo. Non a caso, alcune delle studentesse legate a questo progetto, sono uscite da Brera progettando percorsi educativi per le scuole primarie e secondarie che affrontassero le tematiche dei lasciti politici e immaginari della nostra storia coloniale, proponendo forme di narrazione sviluppate insieme agli artisti attraverso le immagini.
Forse questo punto risponde anche alla seconda parte della tua domanda: da allora ciò che è sicuramente cambiato è il fatto che sempre più giovani, studentesse e studenti, usano un vocabolario costruito proprio sulla letteratura post coloniale e anticoloniale sulla quale abbiamo lavorato in quegli anni. Oggi è possibile usare il termine “genocidio” ed “epistemicidio” trovando un terreno comune sul quale dialogare. Solo sei anni fa questo sembrava impensabile.
N.H. Secondo voi quali sono i punti di riferimento nel discorso decoloniale e artistico in Italia? Quali istituzioni sono impegnate in questa direzione?
SF-LC. Lavorare a Colonialità e Culture Visuali in Italia è stato per noi l’avvio di un percorso costruttivo in termini di relazioni e alleanze. Per noi non si trattava - e non si tratta nemmeno oggi - di inserirci in un campo di ricerca o di diventare i referenti, in Italia, di chi si occupa di relazione tra arti visive, cultura visuale e colonialità e mondo dell’arte contemporanea. Noi volevamo prima di tutto imparare ed entrare in dialogo con chi stava facendo questo percorso, un percorso politico ed etico prima di tutto, necessario e in fieri. Esistevano già gruppi di ricerca universitari legati ai temi del post coloniale e degli studi di genere (vedere Università di Padova e l’Orientale di Napoli). Esistevano una miriade di ricercatrici e ricercatori che per affrontare queste tematiche avevano costruito una carriera accademica all’estero, soprattutto in università anglosassoni, c’erano i progetti solitari di alcune artiste e artisti che avevano iniziato già dai primi anni 2000 a interrogarsi sulla storia coloniale italiana, spesso a partire da storie nascoste o dimenticate delle proprie famiglie di origine (si veda il lavoro di Alessandra Ferrini Negotiating Amnesia). Esisteva poi un mondo di attivismo politico che, sulle ceneri dei movimenti no global, si stava muovendo sui temi dei diritti dei soggetti migranti, dello Ius Solis, in dialogo con i movimenti femministi e intersezionali e con il movimento globale Black Lives Matter. I nostri punti di riferimento non potevano che essere questi, perché il percorso che portiamo avanti è prima di tutto politico. Siamo poco inclini a usare il termine “decoloniale” per definire la nostra pratica. E non ci identifichiamo con quei curatori e quelle curatrici e quei ricercatori e quelle ricercatrici bianche che si appellano a questa definizione per perimetrare e affermare la propria identità professionale e legittimare il proprio ambito di piccolo potere. Crediamo di essere prima di tutto delle persone che assumono la teoria per mettere in pratica uno spostamento dello sguardo. Crediamo che la decolonizzazione sia un atto radicale di decostruzione (che implica, se si vuole essere coerenti, radere al suolo materialmente ciò che è conosciuto, dai musei coloniali alle scuole, dalle mostre all’idea stessa di artista-genio). Cercando di essere più onesti con noi stessi e con gli altri, vogliamo piuttosto pensarci come un duo che affronta e cerca di discutere la bianchezza in dialogo e in un percorso di continuo apprendimento con una rete di alleati.
Quindi diciamo che più che guardare a istituzioni impegnate nel decoloniale, rivolgiamo il nostro sguardo e le nostre intenzioni a una rete di soggetti che, come noi, operano in questo senso per necessità interiore più che per professione. Le mode passano e i territori operativi pure. Le persone che praticano per necessità restano.
N.H. Come è nato il duo curatoriale Cippitelli-Frangi e in che modo le vostre pratiche si compensano a vicenda? Se doveste riassumere la vostra visione curatoriale, come la definireste?
SF. Probabilmente abbiamo risposto più sopra alla nascita della nostra alleanza. Posso dire che nel mio caso il cammino verso una consapevolezza etica si è fondato sullo studio della fenomenologia nella sua accezione contemporanea e post-umana, sulle teorie queer e su una convergenza di studio e ricerca teorica verso la pratica curatoriale.
LC. Nel mio caso, invece, lo studio della storia dell’arte come disciplina si è trasformato in un tentativo di ricerca sui modernismi comparati, che ha trovato nelle teorie postcoloniali e nelle pratiche di artisti attivi tra Africa e America Latina gli strumenti attraverso i quali fondare una critica all’Eurocentrismo.
In questo senso siamo complementari e il nostro dialogo produce un continuo movimento. Fare riferimento a Édouard Glissant o Sarah Ahmed non è per noi un esercizio di scrittura curatoriale, ma uno strumento per rivedere noi stessi e di conseguenza posizionare la nostra pratica. Il dialogo con gli artisti implica una produzione di senso orizzontale, etica, fondata su saperi di cui condividiamo l’orizzonte politico.
N.H. La selezione delle artiste e artisti in mostra come è avvenuta? È la prima volta che collaborate con loro?
SF-LC. Molte artiste e artisti sono persone con cui siamo in dialogo e con cui abbiamo condiviso percorsi di produzione di senso già da tempo. Abbiamo prima di tutto pensato a come determinati loro lavori potessero esprimere in maniera solida, limpida e potente la nostra allusione all’Europa come “comunità immaginata”, scomodando Benedict Anderson, come territorio la cui identità è stata inventata anno dopo anno in più di cinque secoli di auto narrazione egemonica ed espansione violenta. La scelta è stata dunque piuttosto fluida e molto decisa quando, per esempio, ci siamo trovati a percorrere un cammino così attento e poetico come quello di Abdessamad El Montassir o quando siamo passati attraverso i risultati sorprendenti del lavoro profondo e pieno di aperture di Liliana Angulo. Ma siamo stati molto determinati anche quando abbiamo deciso di entrare in dialogo con le ricerche italiane.
N.H. Come è stata accolta la mostra a livello locale (Merano)? A settembre è prevista l’attivazione dell’opera della School of Mutants fuori dagli spazi di Kunst Meran, quali sono le vostre aspettative?
SF-LC. In principio abbiamo capito che l’idea di andare a vedere una mostra con tanti artisti non europei fosse stata accolta con un misto di curiosità e anche di sospetto: quello che ci sembra ci sia ritornato, a un primo sguardo, è il quesito sulla necessità di confrontarsi con sguardi così lontani e così diversi. Nelle nostre ultime conversazioni con il team di Kunst Meran, dopo l’apertura della prima mostra, abbiamo capito che i pubblici hanno saputo cogliere nelle proposte degli artisti delle allusioni al loro stesso contesto, alla loro stessa storia. Questo in termini di costruzione di alleanze ci sembra l’elemento essenziale: parliamo di egemonia culturale, di costruzione identitaria, di complessità che nascono da relazioni geopolitiche violente e non equilibrate. Parliamo di Europa e di uno sguardo sull’Europa costruito, dal suo interno, attraverso gli sguardi diasporici di soggettività complesse. Ma a ben vedere parliamo anche di comunità europee schiacciate dalla narrazione egemonica eurocentrista. E quindi parliamo di tutte, e, a tutte quelle comunità che hanno vissuto la complessità geopolitica, il potere, la violenza epistemica, quindi anche al Sud Tirolo.
L’attivazione della School of Mutants genera in noi aspettative e timori. Sogniamo adesione gioiosa e totale, sappiamo che queste cose nascono su necessità e non su un’operazione dall’alto verso il basso. Nello stesso tempo adoriamo l’estetica del carretto progettato e costruito dai Mutanti, e l’opportunità che questo ci offre di parlare con persone che non conoscevamo. La tua domanda però nasconde il fatto che anche tu - insieme alle tue compagne e compagni - sei e siete coinvolte perché state partecipando attraverso Brera a questo percorso. E noi teniamo molto al fatto che ci siate anche voi. Anzi contiamo su di voi perché portare in giro il carretto con il suo carico di idee è già un segno utopico e costruttivo. Con chi vorreste leggere voi i libri che avete studiato seguendo questo percorso?
N.H. Sicuramente terremo a mente questa domanda riflettendo sull’attivazione dell’opera. La mostra ragiona sull’eredità del passato coloniale, ma come rispondere alle forme di colonialismo attuali, ai conflitti e alle violazioni dei diritti umani? Penso all’opera di Abdessamad El Montassir che parla del Sahara Occidentale occupato in relazione alla condizione della Palestina. Come vedete la relazione tra arte e politica, nello specifico in relazione alle dinamiche geopolitiche attuali? L'arte e la curatela, intese come pratiche radicate nella realtà materiale, hanno una responsabilità etica verso il presente?
SF-LC. Nadia ci poni una questione viva e profonda, che parla di un conflitto interiore che viviamo quotidianamente come produttori culturali e come insegnanti. Viviamo il timore quotidiano che le discorsività radicali e i termini dissonanti che mettiamo in gioco rimangano sempre marginalizzati in una bolla di radicalismo esclusiva e difficilmente condivisibile. Guardiamo il mondo intorno a noi e ci accorgiamo che i termini della politica istituzionale sembrano appartenere a classi e comunità lontane milioni di anni luce dal vissuto di comunità che parlano di diritto di cittadinanza, di accesso ed equità, di libertà di corpi e soggettività e che sono in movimento e attivazione continua. Nello stesso tempo osserviamo come queste ultime comunità rendano corporei i discorsi apparentemente elitari della bolla accademica, inglobandoli in realtà tangibili e quotidiane che sotterrano i tentativi di controllo e conservazione della politica istituzionale, la quale non sembra adeguata non solo ad accogliere, ma anche ad accorgersi delle istanze necessarie che si muovono intorno a noi.
Pensiamo che adottare termini precisi e farli diventare di uso comune sia importante. Pensiamo che quando si studiano le immagini e le arti visive, sia fondamentale costruire e condividere gli strumenti non solo per leggerle e posizionarle, ma anche per produrle, in un’ottica di pertinenza alla società e all’etica che vuole decostruire certi tratti del nostro presente. Il significato delle immagini non è indifferente, l’arte come ogni forma di produzione culturale non può essere un meta-linguaggio fine a se stesso, di cui si studia la metodologia o la conservazione, o che si cura come se fosse materiale muto. E questo significa non solo curare per mettere in dialogo teorie e immaginari, ma significa anche pensare la curatela come prassi intrinsecamente politica: antifascista, antirazzista, antisessista nei termini ma soprattutto anti-egemonica nella relazionalità. Ci piace lavorare insieme, pensare al plurale, rivolgerci ad artisti e colleghi come ci si rivolge ad alleati e compagni di percorso, con cui crescere e dialogare e operare nel presente. Questo significa uscire dalle modalità di autoaffermazione egocentrica di tante figure di artisti, curatori, direttori di rilievo del mondo dell’arte - italiana e globale. E con certezza e morbidezza lasciarli alle loro necessità di autoaffermazione professionale un po’ egocentriche, ma soprattutto così poco conseguenti e così XX secolo. Soprattutto in un momento in cui il termine ‘decoloniale’ sembra essere diventato un termine da mettere sul CV più che una prassi consapevole di uscita dal centro. L’arte politica non è una rappresentazione di eventi ma è una pratica quotidiana di decentralizzazione, decostruzione dell’io, confronto, uscita dalla normatività e dai ruoli.
N.H. Avete mai incontrato resistenza da parte di istituzioni artistiche circa le tematiche affrontate o gli artisti invitati a collaborare? Come contrastare forme di censura istituzionale?
SF-LC. Usciamo entrambi, per vie differenti, da contesti di marginalizzazione e auto marginalizzazione politica, avendo allo stesso tempo alle spalle un percorso di autocostruzione fondata sullo studio accademico e sulla teoria. Probabilmente abbiamo entrambi compreso la necessità di auto-riconoscerci non più come soggetti decentralizzati o marginali in termini di contesti di provenienza e militanza o di tematiche che ci stanno a cuore, ma piuttosto di abbracciare la responsabilità politica di stare nelle istituzioni, di affermare che le istituzioni sono fatte e anzi devono essere fatte da persone come noi, che hanno un percorso di studi serio e che abbracciano allo stesso tempo modalità e urgenze esistenziali che pensiamo queer: non per orientamento di genere ma per il modo in cui affrontiamo l’esistente. La burocrazia è un incubo ma spesso il problema non è da individuare nella censura dei contenuti, ma piuttosto nel blocco immanente che rende impossibile strutturalmente di operare, decidere, avere agibilità. La nostra responsabilità è decidere di metterci in gioco con le istituzioni, dalla nostra posizione. Standone all’interno significa non combattere la censura, ma combatterne l’inazione: come direbbe il nostro sodale Domenico Scudero, facendo per esempio leggere a ognuno dei soggetti che ne costituiscono l’ingranaggio, Le Banalità del Male, per capire come il male stia proprio nel blocco, nell’inazione, nella non reattività, nel non essere presenti.
La Linea Insubrica. The Invention of Europe - Year 1: a tricontinental narrative. Liliana Angulo Cortés, Sammy Baloji, Binta Diaw, Abdessamad, El Montassir, Ufuoma Essi, Alessandra Ferrini, Kapwani Kiwanga, Francis Offman, Vashish Soobah, Betty Tchomanga, The School of Mutants. A cura di Lucrezia Cippitelli e Simone Frangi.
Kunst Meran, 2 giugno – 13 ottobre 2024.
Luglio 2024