Intervista di Lucia Carrera e Michela Zimotti
agli artisti Fabrizio Crisafulli, Uemon Ikeda, Melissa Lohman
Piramide Contemporanea è stato un progetto curato dalla storica galleria di arte contemporanea romana Sala 1, gestita dalla direttrice Mary Angela Schroth, in collaborazione con la Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, diretta dalla dott.ssa Daniela Porro. Per la prima volta, dal 20 al 22 settembre 2024, la Piramide di Caio Cestio ha aperto le porte all’arte contemporanea, a 10 anni dall’importante restauro finanziato dall’imprenditore giapponese Yuzo Yagi. Portare l’arte contemporanea in un monumento, che da sempre suscita curiosità e interesse nei cittadini, è stata una sfida a cui hanno risposto in tanti, oltre ogni aspettativa.
La Piramide fu costruita come monumento funebre di Caio Cestio, pretore, tribuno della plebe e settemviro del collegio degli Epuloni, come citano le epigrafi presenti sulla tomba, sull’onda del grande interesse che la cultura egiziana suscitò sui romani dopo che l’Egitto divenne provincia romana, a seguito della battaglia di Azio del 31 a.C. L’unica delle piramidi costruite a Roma giunta fino ai nostri giorni, poiché inserita nel circuito delle mura aureliane.
Caio Cestio decise per testamento che, qualora la sua tomba non fosse stata edificata in 330 giorni, gli eredi, tra cui Marco Vipsiano Agrippa (morto nel 12 a.C.), non avrebbero beneficiato dell’eredità. I termini ovviamente furono rispettati. La costruzione della Piramide va collocata tra il 18 a.C., anno in cui venne emanata da Augusto la Lex Iulia sumptuaria, che limitava l’ostentazione del lusso, Caio Cestio avrebbe voluto nella sua tomba dei preziosi tessuti, che furono sostituiti con due sculture in bronzo del defunto poste ai lati dell’ingresso, e il 12 a.C. anno appunto della morte di Agrippa, che doveva essere in vita al momento del testamento in quanto beneficiario.
La Piramide ha una base quadrata di quasi 30 metri ed un’altezza di 36,40 metri, lastre di marmo di Carrara rivestono una cortina di mattoni e calcestruzzo. Era originariamente circondata da un recinto realizzato in blocchi di tufo e presentava quattro colonne angolari, di cui ne sono sopravvissute solo due. Attraverso l’ingresso, scavato ai tempi di papa Alessandro VII Chigi nel 1663, si accede alla camera funeraria, che presenta una decorazione in III stile pompeiano, con Nike alate sul soffitto e piccole figure femminili e vasi di forme differenti sulle pareti. Proprio per questo ambiente Fabrizio Crisafulli ha realizzato un’installazione ad hoc, mettendo la luce e le sue forme in relazione poetica con alcuni elementi delle decorazioni, ed anche con le zone danneggiate dai tombaroli, parti comunque significative delle vicende del luogo. La performer statunitense Melissa Lohman ha abitato la camera funeraria dando vita ad un’azione sospesa nel tempo. Anche per ricordare il legame instauratosi tra la Piramide e il Giappone non è stata casuale la presenza dell’artista giapponese Uemon Ikeda, noto per l’utilizzo di fili di seta e lana rossi, che ha realizzato un’architettura sospesa nel giardino della Piramide.
La Piramide ha una base quadrata di quasi 30 metri ed un’altezza di 36,40 metri, lastre di marmo di Carrara rivestono una cortina di mattoni e calcestruzzo. Era originariamente circondata da un recinto realizzato in blocchi di tufo e presentava quattro colonne angolari, di cui ne sono sopravvissute solo due. Attraverso l’ingresso, scavato ai tempi di papa Alessandro VII Chigi nel 1663, si accede alla camera funeraria, che presenta una decorazione in III stile pompeiano, con Nike alate sul soffitto e piccole figure femminili e vasi di forme differenti sulle pareti. Proprio per questo ambiente Fabrizio Crisafulli ha realizzato un’installazione ad hoc, mettendo la luce e le sue forme in relazione poetica con alcuni elementi delle decorazioni, ed anche con le zone danneggiate dai tombaroli, parti comunque significative delle vicende del luogo. La performer statunitense Melissa Lohman ha abitato la camera funeraria dando vita ad un’azione sospesa nel tempo. Anche per ricordare il legame instauratosi tra la Piramide e il Giappone non è stata casuale la presenza dell’artista giapponese Uemon Ikeda, noto per l’utilizzo di fili di seta e lana rossi, che ha realizzato un’architettura sospesa nel giardino della Piramide.
Segue un’intervista ai tre artisti.
Fabrizio Crisafulli
L.C.M.Z. Partiamo dal luogo che vi ha ospitato: come nasce un progetto d'arte contemporanea alla Piramide Cestia? E perché la scelta di questo monumento a Roma?
F.C. È stata una scelta di Mary Angela Schroth, direttrice della galleria d’arte contemporanea Sala 1 a Roma, che ha poi prodotto il lavoro. Quando Mary Angela mi propose di partecipare al progetto, nel quale aveva già coinvolto Uemon Ikeda, chiedendomi di realizzare un’installazione nella cella interna della Piramide (mentre Ikeda avrebbe lavorato all’esterno) ho accettato con entusiasmo. Rientrava appieno nei miei desideri e nei miei interessi. Sia nelle mie regie teatrali che nelle mie installazioni al di fuori dei luoghi deputati, cerco di entrare in relazione profonda con i luoghi che incontro, che poi diventano elementi generativi del lavoro. Potete immaginare quanto fosse nelle mie corde lavorare alla Piramide; monumento, peraltro, che ha una forte aura di mistero: la cella interna è praticamente sconosciuta alla città. Ho poi coinvolto Melissa Lohman, straordinaria performer statunitense con la quale negli ultimi anni abbiamo avuto diversi momenti di lavoro comune in luoghi non convenzionali.
L.C.M.Z. Sei noto per il modo in cui utilizzi sapientemente la luce all'interno degli spazi riuscendo a creare ambienti totalmente nuovi. Com’è nata e come si è sviluppata la tua installazione alla Piramide Cestia?
F.C. Anche questa volta ho adottato la modalità di lavoro che chiamo “teatro dei luoghi”, che significa assumere quale matrice della creazione il luogo stesso, per poi farlo divenire una visione nuova, per quanto fortemente radicata nel sito. Nel caso della Piramide, c’è stata, come sempre, una fase di studio e di ascolto del luogo, che mi ha portato a ipotizzare diverse soluzioni, fino ad arrivare a quella che ho adottato. Ho fatto i sopralluoghi e i ragionamenti insieme a Melissa. Con lei lavoriamo in un modo particolare. Ognuno di noi prende la propria direzione, ascoltando però, durante il processo, quello che dice e che fa l’altro e, se necessario, apportando delle variazioni alle proprie scelte in ragione di questo reciproco ascolto, oltre che dell’ascolto del luogo, pur mantenendo la propria linea di ricerca. Uno dei risultati è che, alla fine, i due lavori possono funzionare assieme ed anche singolarmente. È stato così, per certi versi, pure alla Piramide. Non potendo Melissa stare all’interno della cella, nella quale peraltro l’aria non è molto salutare, per l’intera apertura dell’evento, la sua azione, che avveniva nel contesto della mia installazione, si svolgeva in determinati orari, mentre per il resto gli spettatori potevano vedere l’installazione.
Per quanto riguarda quest’ultima, ho lavorato a partire dal luogo. Ho cercato di ricucirne, attraverso la luce, dei frammenti, per creare un piccolo, nuovo universo nel quale le preesistenze e le forme nuove potessero stare assieme; e potessero anche convivere, nella mente del visitatore, la memoria e l’immaginazione. La cosa che mi aveva impressionato di più la prima volta che ero entrato nella camera funeraria erano stati gli sfondamenti e le effrazioni prodotti nel tempo dai “tombaroli”, che mi hanno posto diversi interrogativi: quando erano stati fatti, da dove erano entrate quelle persone, cosa avevano portato via, cosa c’era in precedenza al posto di quegli scassi. Interrogativi rispetto ai quali non vi sono risposte certe. Alla fine, ho rivolto a quelle manomissioni – che sono una componente che non si può trascurare delle vicende del sito e dei suoi misteri – un’attenzione non minore di quella rivolta agli affreschi. La camera funeraria ha funzionato da veicolo fantastico. Come mi è capitato altre volte nei lavori nei luoghi, la “rovina” è stata un elemento suscitatore di grande forza, un alimento potente del lavoro.
Vi racconto un episodio. Lucio Altarelli, mio amico architetto che è stato professore di composizione architettonica alla facoltà di Architettura della Sapienza, è venuto a vedere il lavoro. Non c’ero quella mattina e non ho potuto incontrarlo, ma ha lasciato per me il suo ultimo libro: L’immaginario delle rovine (1). Quando il libro mi è stato dato, ho letto nella quarta di copertina frasi come “Le rovine agiscono come presenze attive, come oggetti a reazione poetica”, oppure: “L’apparente negatività delle rovine orienta, positivamente, la formazione dei linguaggi e l’invenzione del nuovo”. Nel prato di fronte alla Piramide, quel libro, arrivato in modo così opportuno, era incredibilmente vivo. In alcune sue affermazioni, mi sembrava quasi riferirsi a quanto stavo facendo alla Piramide. L’idea, storicamente motivata ed espressa da un fine analista, dell’immaginario delle rovine come motore della creazione artistica (e della trasgressione dei codici, aggiunge altrove l’autore), mi è assolutamente vicina.
Un altro aspetto particolare dell’installazione ha riguardato la sfera percettiva. In genere, ascolto molto i commenti che fanno gli spettatori dopo aver visto un mio lavoro. Una spettatrice mi ha detto che le era piaciuto molto il modo nel quale avevo trattato la luce, facendone aumentare lentamente l’intensità. Come altri, aveva pensato avessi usato un dispositivo ad hoc per questo. In realtà, la variazione avveniva per il naturale adattamento dell’occhio all’oscurità. Le persone provenivano dalla luce diurna (l’installazione era aperta nel corso della giornata e chiudeva prima del tramonto) e quindi l’adattamento aveva un tempo relativamente esteso sul quale si poteva giocare. Sapevo che la gradualità avrebbe dato all’opera un movimento interno, e ne avrebbe fatto scoprire progressivamente i dettagli. Ho considerato questo un aspetto strutturale del lavoro ed ho trattato con la luce alcuni particolari, come ad esempio dei piccoli tratti di roccia nello scasso centrale, in modo che non venissero percepiti immediatamente, ma dopo un po’, facendo acquistare lentamente profondità a quella piccola voragine scura. Anche Melissa ha giocato sui gradi del buio e sull’adattamento della vista. Nella semioscurità della cella, era vestita totalmente di nero e non aveva luci puntate su di sé. Inizialmente il pubblico non la vedeva, ma poi, per l’adeguamento e per i (calcolati) piccoli rumori legati ai suoi spostamenti, se ne avvertiva gradualmente la presenza. Presenza che non era quella di un “personaggio”. Era piuttosto un enigma, nel luogo sepolcrale. Una presenza che si relazionava con le gamme della penombra, con le parti più chiare, corrispondenti alle pareti affrescate, e con quelle più scure, corrispondenti agli sbancamenti nei muri. A un certo punto mi è sembrato che la presenza di Melissa “muovesse” il buio.
L.C.M.Z. Qual è stato il criterio che ti ha portato ad illuminare alcuni elementi delle decorazioni della camera funeraria rispetto ad altri?
F.C. In realtà, non volevo affatto “illuminare” il luogo, tantomeno nella sua totalità. Non avevo alcuna preoccupazione di tipo “espositivo”. L’intenzione era poetica. Ho piuttosto messo in relazione tra loro, in una parte della cella, due “materie”: la materia-luce e la materia-architettura, per creare tra esse un campo di tensione; un campo di tensione, anche, tra ciò che il luogo è stato ed è, e quello che potrebbe essere.
Angela Maria Piga, una spettatrice di grande sensibilità che ho conosciuto sul posto, scultrice, mi ha fatto avere dei suoi interessantissimi, poetici appunti, scritti a mano qualche giorno dopo aver visto l’installazione e l’azione di Melissa. A proposito della luce nell’installazione scrive, tra l’altro, di “luce mineraria”. È una definizione molto azzeccata e in sintonia col mio aver trattato la luce (in quel luogo che, nonostante il restauro di Yuzo Yagi, rimane comunque un luogo sfregiato) anche come luce-materia, sotterranea, corrosa, smagliata; oltre che come geometria disegnata in corrispondenza di alcune parti delle decorazioni. Parla di me come di un “amanuense della luce”, e di “luce che disegna ma non illumina”. A proposito dell’azione di Melissa, scrive di una massa nera che “non ha specchio”, che “si gonfia, diventa sagoma”, provvedendo “a ricordarci che fummo forma”. In diversi momenti sembra alludere ad una tensione tra dimensioni terrena ed ultraterrena, che è un argomento molto impegnativo, che in genere, quando viene fuori, mi procura una specie di ritrosia e di allontanamento, ma, in questo caso, avevamo discusso con Melissa proprio di questo. Mentre lavoravamo nella camera sepolcrale, ci è sembrato di trovarci in una specie di condizione “intermedia”. Il luogo lo è tra la vita e la morte, e per noi lo era soprattutto tra passato, presente e futuro (non a caso, abbiamo scelto come titolo comune dei nostri lavori Tramite). E qui ho trovato un’altra, sorprendete corrispondenza nel libro di Altarelli: la rovina “feconda i processi d’invenzione eleggendo un tempo intermedio tra ciò che è e ciò che deve ancora compiersi”. (2)
L.C.M.Z. In che modo siete riusciti a creare un dialogo efficace tra le vostre tre opere?
F.C. Siamo tutti e tre artisti nel cui lavoro il rapporto con il luogo è importante. E, in questo progetto, per quanto ognuno di noi sia rimasto fedele alla propria poetica e al proprio modo di operare, penso che tale tipo di atteggiamento, ed il luogo stesso, abbiano fatto da elementi unificanti e da tessuto connettivo.
Uemon Ikeda
L.C.M.Z. Le tue opere spaziano dalla pittura, alla scultura e l’architettura, arrivando fino alla performance. Per questa occasione hai presentato una delle tue “architetture spaziali”, caratterizzate da fili di lana e seta che si intrecciano e che abitano lo spazio. Come nasce questa idea e da dove arriva la scelta di questo materiale e del suo colore?
U.I. Il filo è rosso perché è di un colore che si evidenzia subito ed è collegato alla prospettiva ed ha un riferimento biologico. Il mio è un tentativo di ricostruire la mia memoria, anche quella della mia infanzia in Giappone, la memoria di tutti. Cerco di raccontare ad altri i miei ricordi e cerco di raccontare storie di persone che diventano la memoria di ognuno. Il vuoto diventa spazio. In questo senso le mie “architetture aeree” che prendono vita attraverso le linee tese in lana e seta rossa, sono espressioni effimere di “forme ideali di architetture sospese all’interno di luoghi pubblici e di interesse culturale”.
L.C.M.Z. Quali sono le tappe che ti hanno portato a realizzare l’opera?
U.I. Dopo un sopralluogo alla Piramide, la visione delle due colonne mi ha suggerito come concepire il disegno e la forma dell’installazione.
L.C.M.Z. Qual è stata la tua formazione artistica?
U.I. Nel 1973 sono arrivato a Roma per studiare all’Accademia di Belle Arti di Roma. Allora c’erano grandi scultori: Fazzini, Greco, Crocetti, Mastroianni, la scuola di scultura figurativa dopo la scuola francese Rodin, Maillol, dopo di loro c’è stata la Scuola Romana con i Maestri più importanti che poi insegnavano a noi.
L.C.M.Z. Quanto è determinante la matrice culturale giapponese per te e per le tue opere?
U.I. In Giappone frequentavo un istituto artistico, una scuola privata, non avevo contatti con l’arte giapponese contemporanea, eravamo in un momento particolare per cui uscire dal Giappone era un passo obbligato, conoscere l’arte che si faceva a Roma allora è stato sconvolgente. Il modo di concepire lo spazio è giapponese, è basato su un accordo, su una promessa, come una parete di carta che puoi bucare ma per un accordo, per una promessa, non lo fai, tu puoi ascoltare attraverso ma non la violi perché hai fatto una promessa. In un certo senso io sono abbastanza occidentalizzato, quindi non ho un approccio orientale, io vedo uno spazio e se vi devo trovare qualcosa di giapponese, questo è il tempo. Delle volte è difficile da definire poiché spesso quello che faccio somiglia ad una scena, è una scrittura somigliante ad un plot. Il mio modo di vedere le cose proviene dagli studi accademici ed è un modo prospettico e gli scrittori ed i poeti giapponesi sono diventati gli scenografi dei giapponesi. La tecnologia in Giappone è maturata nel confronto con la grande Cina e poiché si doveva confrontare dall’Ottocento in poi con l’Occidente, con questa realtà dovevamo copiare ma scomponendo e ricomponendo le cose. Ad esempio i templi scintoisti ogni 25 anni li ricostruiscono per tramandare la tecnica da maestro ad allievo. La storia dell’arte contemporanea giapponese è la storia dell’arte contemporanea occidentale, e quella della Cina per certi versi, basta pensare all’artista Fujita, amico di Modigliani a Parigi, aveva il problema del ritratto come se cercasse una deformazione dello spazio che non gli permetteva di acchiappare quello che voleva, una distorsione.
Melissa Lohman
L.C.M.Z. In quanto performer, coreografa e danzatrice, il corpo per te è elemento centrale. In questa performance alla Piramide Cestia, dialogavi sia con l’installazione di Fabrizio Crisafulli sia con la camera funeraria. Qual è stato il processo creativo che ti ha portato a realizzare la performance?
M.L. Il mio processo è iniziato considerando le caratteristiche specifiche di questo luogo, che è monumento antico, una tomba e un sito archeologico da visitare nel presente, con cui relazionarsi attraversandolo con un atto creativo.
La geometria triangolare di linee convergenti verso l’alto della Piramide suggeriva un flusso energetico ascendente, una verticalità. Già dal primo sopralluogo, ho immaginato una presenza corporea leggera, con una qualità di essere in sospensione. Ho immaginato il corpo vivente come un tramite nello spazio di transizione all’interno della Piramide. Con questo presupposto, l’azione mi si è chiarita soltanto stando nella cripta e instaurando un dialogo intimo con essa. L’ho pensata come un accadimento continuo anziché come una performance con un inizio ed una fine.
Erano anche da prendere in considerazione alcuni aspetti non solo architettonici e decorativi, ma anche fisici di questo particolare luogo. A causa del microclima altamente umido e dello spazio ristretto per il pubblico, è stato necessario limitare il tempo trascorso all’interno (sia per me che per i visitatori). È stato possibile adattarsi a questa circostanza grazie al fatto di considerare l’azione come atemporale.
Fabrizio ha accentuato l’oscurità del luogo, sottolineando alcuni elementi e lasciando il resto dell’ambiente in ombra. In contrasto con i dettagli evidenziati intensamente dalla luce, ho lavorato con l’oscurità per introdurre il corpo. La mia presenza doveva essere astratta. Un corpo “tra”, un elemento ambiguo e mutevole dell’ambiente, un essere indecifrabile.
I visitatori dell’installazione avevano una visione frontale dello spazio. Questo ha creato una precisa composizione pittorica nella quale ho scelto di circoscrivere il mio raggio d’azione. Mi sono posizionata di spalle nell’angolo destro sul fondo della camera, vestita di nero, senza mai voltarmi. Il viso e le mani non erano quasi mai visibili.
Gli spettatori erano a pochi passi da me nella cella, il che permetteva loro di percepire (se non sempre vedere) il mio più piccolo movimento. Allo stesso tempo, l’oscurità manteneva una distanza tra noi, e la mia presenza rimaneva enigmatica.
L.C.M.Z. Come hai vissuto l'abitare uno spazio che per definizione connatura il passaggio tra la vita terrena e quella ultraterrena?
M.L. La cella come luogo di passaggio è stato tema centrale di questo lavoro. Lo spazio interno della piramide era originalmente un luogo sigillato, una stanza decorata e lasciata nel buio, dove il defunto poteva passare dalla dimensione terrena a quella ultraterrena. La possibilità di accedere alla camera è affascinante, magari soprattutto perché inizialmente vietata ai viventi. L’invito a creare un mio intervento corporeo in questo sito era una sfida che ho accolto da subito con entusiasmo. Più che puntare all’aldilà, il mio gesto voleva portare l'attenzione verso l’ignoto. Abitare l’interno della camera funeraria è stato un grande privilegio e un’esperienza intensa per me.
L.C.M.Z. Ci sono degli artisti a cui ti ispiri o ti sei ispirata nel corso della tua carriera?
M.L. Prendo ispirazione da artisti di ogni tipo, non saprei da dove iniziare a scegliere da una lista che continua a crescere. Stimo gli artisti che hanno la capacità di fare scelte nel loro lavoro, con la fiducia di non sapere a cosa portano. Ammiro gli artisti che sono in grado di esprimere i loro pensieri con un linguaggio chiaro, che non cedono di fronte alle loro paure e ai dubbi degli altri. Osservare ed ascoltare gli artisti che hanno un percorso duraturo mi rassicura perché anche io intendo continuare a lavorare a lungo. Imparo tanto dagli esempi intorno a me, ma alla fine il percorso da intraprendere è quello personale.
L.C.M.Z. Sei nata a New York, ma vivi da molti anni a Roma. Trovi delle differenze nel modo in cui la performance viene accolta in Italia rispetto allo scenario statunitense?
M.L. Il termine performance si presta a tante diverse interpretazioni. Il mio è un lavoro ibrido nell’ambito della performance, con radici sia nella danza che nell’arte visuale. Mi sembra che, in Europa e negli Stati Uniti, siamo in un momento nel quale anche agli artisti è richiesto di dare delle risposte a tutto e subito. Nei diversi contesti in cui porto il mio lavoro, sento il bisogno di dare tempo e spazio all’osservazione e all’indagine, il che, di fronte a così tante informazioni sembra, purtroppo, piuttosto radicale. Ma credo, necessario.
Ottobre 2024
1)Lucio Altarelli, L’immaginario delle rovine. Da Piranesi al moderno, Lettera Ventidue, Siracusa, 2022.
2)Ivi, p. 8.