Institutional Critique, Art Criticism, Visual Cultures
Domenico Scudero
Oggetto di questo scritto è l'indagine sulla scrittura critica come tecnica della prassi storico critica o della prassi intermodale. La logica che riunisce questo pensiero sulla relazione fra testo e contesto si può evidenziare in tre differenti coniugazioni critiche che sintetizziamo in Institutional critique, Art Criticism, Visual Cultures. Ciascuna di queste linee significative ha al suo interno ulteriori coniugazioni e artefazioni ma le specifiche relazioni fra contesto e testo rimangono pressoché uguali.
Sebbene l'oggetto della critica d'arte sia l'opera, nell'analisi attuale risulta spesso improbabile riuscire a separare la fattualità concreta dell'atto creativo dal suo contesto, evento che determina una rarefazione del segno rispetto alla sua normativa in quanto opera.
Institutional critique
Con questa dizione si indica un metodo di indagine che si occupa della ragione essenziale del sistema di rappresentazione istituzionale, intendendo con questo termine non soltanto il modello di allusivo “sistema dell'arte”, ma anche l'implicita modalità di significazione dell'opera e della sua manifestazione all'interno del tessuto rappresentativo. Questa pratica ha un suo inizio nella riflessione sulla sottrazione di elementi che sono alla base stessa della mimesis ma è stata successivamente rivolta alla reale consistenza delle azioni svolte e alle implicazioni che queste azioni determinano nel contesto espositivo. Il contesto espositivo nella institutional critique non è solamente il luogo in cui l'opera o l'azione, l'oggetto di indagine, viene ad essere considerato, ma è anche la parte integrante ed essenziale dell'organismo rappresentativo. Da ciò possiamo rilevare già una considerazione essenziale. Il linguaggio dell'institutional critique nasce sostanzialmente nel lavoro delle avanguardie e in particolare attraverso l'opera di Duchamp, il quale non a caso si interesserà anche degli statuti fondativi delle istituzioni museali. Da ciò possiamo derivare la seconda considerazione; questo metodo di interrogazione è particolarmente diretto all'autoriflessione artistica ed è un linguaggio critico praticato con particolare determinazione da quegli artisti che osservano una diretta discendenza dalle analisi formaliste adottate da Wittgenstein e dalla fenomenologia formalista anglofona. Ma diversamente dall'indagine analitica, che è essenzialmente frutto di speculazioni fortemente teoriche e logiche, questa prassi si concentra nell'autoriflessione artistica ed è direttamente connessa al sistema di contestualità critica prodotta dal sistema di pensiero dell'avanguardia e alla sua critica interna frutto delle teorizzazioni artistiche sganciate dal pensiero storicistico (1). In questo percorso quindi l'essenza stessa della critica nasce dal lavoro artistico e in questa significativa adesione riflessiva e sincronica al procedere artistico ha un particolare nesso con la letteratura artistica (2). Si parla di institutional critique a proposito del lavoro di Broodthaers e Haacke i quali indagavano sulle relazioni fra il contesto espositivo e l'opera d'arte spesso azzerando il concetto di opera in quanto oggetto relazionato ad una storia delle forme e riassumendolo quale indicatore di una complessità segno-significato all'interno delle cornici della rappresentazione di cui il sistema museale era esempio evidente (3). Le origini del sistema interpretativo sono dirette a risolvere le antinomie fra significato dell'oggetto e sua modalità d'uso. Supponendo l'azione appropriativa del contesto sull'oggetto, le conseguenze di questo modello sono poi scaturite in una pratica sempre più complessa di indagine in cui le relazioni fra analisi e ricerca empirica producono alcune considerazioni sullo statuto e sull'identità del lavoro artistico profondendo queste stesse ricerche attraverso ambiti sempre più estesi. Le caratteristiche della critica istituzionale sono quindi da ricercarsi in questi tratti; un linguaggio scaturito dalle osservazioni sperimentali dell'avanguardia che si rinnova attraverso l'adesione all'analitica empirica e infine si amplia come specificità critica allontanandosi dal suo originario campo speculativo.
Le conseguenze di queste caratteristiche ci dicono che l'idea centrale si ritrova nell'orizzontalità del pensiero che si occupa di rielaborare il rapporto fra lavoro artistico e sistema complesso, pratica questa adottata sin dall'avanguardia in contrapposizione al formalismo oggettualizzato dalla storiografia. Nell'institutional critique il percorso interpretativo non si sofferma sulle ragioni formali e si occupa piuttosto delle relazioni fra contesto e prodotto del lavoro, sulle implicazioni fra la società del liberismo avanzato e le prassi d'uso e consumo dell'opera d'arte. Attraverso queste implicazioni le relazioni fra la storia dell'arte e le forme del contemporaneo risultano inessenziali, a meno di non dimenticare che le origini di questo percorso siano da individuare in quelle dinamiche che attraverso l'avanguardia sono poi diventate prassi operative nel lavoro artistico. Ovvero l'appropriazione sottrattiva di frammenti di realtà, la dimensione curatoriale, la specificità di rapporto fra spazio e modelli espositivi, l'identità stessa delle istituzioni. Nel suo divenire potremmo definire questo succedersi di interrogazioni sulle logiche espositive e sulle implicite diversioni fra istanze dell'artista proposizione e fruizione, come processualità concettualizzata; sebbene le modalità di rapporto siano misurabili in queste attitudini, la critica istituzionale, che relaziona in modalità metafisica e analitica le procedure di attuazione, diverge dalla pratica operativa autoreferenziale di pura istanza processuale o concettuale. La processualità infatti si determina attraverso l'autoriflessione proiettata dentro l'ideazione e la contiguità dell'azione all'interno di un percorso operativo di scavo e individuazione degli scopi; si realizza attraverso elementi esistenziali, fenomenologici o ideativi, tali da determinare l'oggettualità tautologica di opere fortemente caratterizzate dall'essenza post idealista, intellettualizzata, individuabile nella logica di Husserl (4). Diversamente l'operatività di scavo della institutional critique verte sulle relazioni fra contesto e opera e mira a svelare le connessioni fra arte, sistema economico o più specificamente sistema socio-politico. Buren, Broodthaers, Haacke, Piper, Group Material, producono nei fatti un modello di opera critica e sistemica che è indifferente alla storia ai fini della sua comprensione. Il modello che si implementa è invece radicato nella prassi artistica ma si evidenzia poi nella relativa interpretazione letteraria, spesso attraverso la stessa lettura dell'artista (5). Sebbene questa considerazione sia del tutto omologabile alle usuali dimensioni critiche, poiché nei fatti la testualità corrisponde alle esigenze messe in opera dalla prassi, la particolare dimensione di questo metodo sottolinea nel suo divenire un agire che non può prescindere dalla teorizzazione anticipatoria dell'autore artista. In questo riconosciamo un ulteriore carattere epistemologico, ovvero quello di non poter prescindere dalla stessa interpretazione derivata dalla teorica implementata dall'artista. La critica istituzionale è quindi un modello particolarmente rilevante del nostro contemporaneo ed ha come tratto fondamentale quello di derivare le sue osservazioni dalle relazioni fra opera e contesto attraverso la pratica dell'artista e conseguente testualità. Si tratta di un metodo che evidenzia nel suo tratto essenziale quello di coautorialità fra interprete testuale e autore referenziale. Inoltre ha una vasta propensione all'aspetto collaborativo o coercitivo dei vari strumenti messi in atto; lo fa soprattutto attraverso la lettura di procedimenti e teorizzazioni proposte dagli autori attivi nel campo d'indagine.
Art Criticism
Nell'ambito del sistema critico della modernità l'art criticism è il modo maggiormente usato. Per comprenderne appieno l'identità possiamo definirne i contorni attraverso il percorso di Warburg. Come spiega molto dettagliatamente Didi-Huberman nel suo L'immagine insepolta, testo interamente dedicato alla lettura di Warburg e al suo influsso sul genere letterario, l'apporto di questo autore è talmente variegato e indefinibile, nella sua complessità, disperso e per sua natura irrisolvibile, da aver determinato un'ampia varietà di modalità (6). Ad un'analisi più appropriata possiamo riscontrare alcuni tratti che corrispondono al modello in divenire della critica contemporanea; diversamente dalla storia disegnata sul "modo" vasariano dal Winckelmann, l'idea warburghiana ha un carattere che non può essere risolto con la procedura evolutiva, o ciclica, determinata nel tratto storico e illuminista (7). La forza interpretativa del metodo di Warburg tratteggia una proiezione a ritroso nella storia, una visione accelerata sul presente e una sperequazione sul futuro. Unitamente a questo il metodo Warburg usa la pratica intermodale – costruzioni di senso fra discipline di ricerca differenti – con una inconsueta varietà di risultati. Non a caso Didi-Huberman parla di visione fantasmatica poiché irrisolvibile in un singolo sistema modulare, tratto questo che aveva precedentemente fondato le costruzioni più rappresentative dell'indagine formalista. Se è vero che lo studio di Warburg ha determinato la nascita dell'iconologia, è anche vero che questo specifico appartiene più agli studiosi che lo hanno seguito, come Panofsky, che non allo stesso Warburg. L'importanza del metodo di Warburg è esattamente questo: aver assimilato il concetto di una storia metodologicamente corretta, averla rielaborata in visione orizzontale al proprio tempo, cogliendone i tratti essenziali, per progettarne una successione in funzione futura. Questo modello ha rappresentato il corpus ampio su cui si è poi costruita un'idea di critica non più racchiusa nei limiti della sua regolamentazione ortodossa. Parliamo di corpus ampio anche per via dell'impossibilità di dare una definizione unificata ad un lavoro, quello warburghiano, che è impossibile da delimitare in un unico stilema a causa della sua frammentarietà, a volte indicata anche come conseguenza delle problematiche psichiche dell'autore. Rimane il fatto che il sistema variegato, di cui Didi-Huberman traccia alcune linee, può indicare alcuni sviluppi; Warburg in rapporto a Tylor (tempo), Burckhardt (Rinascimento e storia), Gombrich e Panofsky (iconologia), Nietzsche (culturologia), Darwin (evoluzioni formali), Freud (psicologia visiva), Bingswager (creatività e disturbo mentale), Vischer, Carlyle (simbologie), Cassirer (forme sintomatologiche) (8). Da quanto accennato, risulta evidente che il modo in cui si attua la lettura dell'opera può dunque avere molti elementi anche discordanti ma sempre riunificati in un ramificato complesso significativo. Questa lettura ha successivamente trovato terreno fertile negli Stati Uniti dove è stata coniugata però ad un generico senso pratico di stampo formalista e ha prodotto ciò che noi definiamo criticism. La domanda che può esser fatta è: il criticism è la critica d'arte? Possiamo rispondere che il criticism è la critica d'arte d'una modernità intrisa di strumenti estranei a quelli consueti. Diversamente dai vari modi di occupare il territorio letterario attraverso una modalità esplicitamente unidirezionale – come la pratica degli anni '30/'40 imponeva – il criticism guarda all'oggetto in esame attraverso una lettura complessa in cui si coniugano diverse metodologie, lì dove la critica d'arte accademica adottava un metodo unico. In qualche modo la critica d'arte istituzionalizzata rimane legata ad un sistema positivista, evolutivo, dogmatico, mentre il criticism vive la sperimentazione come modo continuativo, sebbene sia fortemente ancorato, nelle sue fasi iniziali, ad un modello multidisciplinare di base formalista.
Anche il criticism ha una proiezione particolarmente direzionata verso l'orizzontalità interpretativa, e diversamente dall'institutional critique adotta come campo di interesse le pratiche artistiche nel loro divenire e si suddivide a sua volta in due filoni più definiti; indagine tematica, e indagine intermodale. L'origine è sincronica alla nascita del new criticism letterario che ha una storia abbastanza rilevante nel XX secolo a partire dall'ampliarsi dell'indagine critica sui vari linguaggi prodotti nel periodo della post avanguardia anche per l'interallacciarsi delle tecniche e delle tecnologie (9). Il termine al suo apparire identificava una lettura formulata sull'esatta evidenza formale in opposizione all'idealismo interpretativo di matrice europea.
Il criticism, in cui l'ismo segnala la sua peninsularità rispetto al termine del criterio originario del moderno, indica quelle pratiche interpretative sulle rinnovate rappresentazioni artistiche nate a seguito delle nuove tecniche artistiche, in particolare del film. La critica cinematografica alle sue origini aveva una diffusione molto ampia sui quotidiani e sulle riviste e nelle pratiche divulgative divergeva in maniera sostanziale dalla cosiddetta critica d'arte. Diversamente da questa infatti il criticism osservava il fenomeno artistico attraverso uno sguardo partecipativo e immersivo evidenziando anche i differenti rapporti con le discipline su cui era fondato il montaggio. Nel cinema la coesione fra le differenti arti era maggiormente rilevabile rispetto al campo specifico dell'arte contemporanea e la sua storia era molto recente, motivo per cui la sperimentazione in modalità testuale era una prassi di norma, anche se spesso di basso livello sperimentale o persino culturale. Ma il modello percettivo del criticism permise di rianimare anche in progetto divulgativo alcune pratiche e alcune suggestioni provenienti dai differenti ambiti quali il teatro, la musica, la scenografia, la moda e il design. Tutto ciò si traduce divulgativamente in una lettura multidisciplinare e particolarmente seducente per il lettore cui la testualità era dedicata, anche in prospettiva funzionale, propagandistica o mercificatoria. Questo modello già negli anni Quaranta e Cinquanta viene rinnovato in veste più specialistica nell'arte contemporanea in particolare negli USA attraverso le letture di matrice formalista di Rosenberg e Greenberg mediate dalla volontà di chiarificazione e relazione fra le differenti forme degli oggetti artistici. Il criticism si diffonde quindi come linguaggio prioritario sulle riviste d'arte, in particolare contrapponendosi alle chiusure accademiche. Queste erano considerate poco attente alla realtà del contemporaneo e troppo intente a processi di analisi che sebbene formalmente corretti dicevano poco sulle ragioni delle rappresentazioni artistiche, rinnovate da una crescente interdisciplinarietà. Il criticism si interesserà in particolare delle nuove grammatiche artistiche, come la fotografia, il filmico, l'aspetto performativo, la tecnica, ma lo farà con un'inclinazione sempre più adeguata al mezzo assunto come luogo della riflessione, facendo attenzione a individuare i rapporti con gli altri sistemi di rappresentazione. Si trattava di individuare le relazioni fra le differenti forme interne all'opera in esame. Si concentrava sulle valutazioni contestuali soprattutto in relazione alla caduta di senso del linguaggio artistico all'interno di una cultura pop. L'opera si descrive di conseguenza ai sommovimenti economici e funzionali della società e successivamente operando attraverso i codici della decostruzione postmoderna. Proprio in ragione di questa complessità esistono più livelli di metodologia del criticism che variano dall'indagine dei sistemi specifici e dei rispettivi ambiti semantici sino all'idea di un'estetizzazione estesa, everyday aesthetics, che promuove una molteplicità tematica per sondare gli effetti di una cultura della rappresentazione che si rinnova continuamente inglobando ogni aspetto della realtà (10).
Proprio all'interno della tradizione americana troviamo i primi autori di questo modello interpretativo. Il primo, Clement Greenberg, nel suo studio Avanguardia e kitsch (1939) riflette sulle relazioni fra arte colta e iperspecialistica, e sulla diffusione di un'estetica sostenuta dai media e dalla mercificazione (11). Le origini di questo percorso sono e rimarranno pervasivamente nell'orbita del formalismo fenomenologico di matrice anglofona e implicano come punto di partenza la reale fattezza dell'oggetto in osservazione che viene coinvolto mediandolo all'interno di una realtà socio-politica che non può trascendersi. Altro interprete del criticism, anch'esso di matrice modernista è Harold Rosenberg al quale si deve la paternità della formula Action Painting in relazione alle opere di quegli artisti che usavano la pittura in azioni performative (12). La lettura dell'opera in Rosenberg è mediata dalla realtà contingente e dalla possibile espressione di questa attraverso l'esperienza. Quindi un sistema di coniugazione di pragmatica e formalismo che identifica le sue ascendenze a favore dell'aspetto dinamico dell'azione artistica prettamente statunitense in contrapposizione all'indagine storico critica (13). L'originale definizione dell'opera contemporanea come oggetto ansioso data da Rosenberg, osservando l'opera come frammento di una realtà che si offre ambiguamente in forma elevata o anche come rifiuto, in attesa di una sua identificazione certa, apre anche una prospettiva interpretativa verso una possibile tradizione del nuovo, come di una nuova disciplina interamente distaccata dal lascito del passato (14).
Parallelamente anche in Europa si aprono i nuovi scenari dell'interpretazione e uno di questi si rinnova attraverso la lettura operativa di una pragmatica interamente funzionale politicamente nelle intenzioni del Situazionismo di Guy Debord. Anche nel caso del suo rapporto con l'arte e la sua mediazione attraverso le nuove tecniche si ha l'ampliamento della congettura estetica; questa si apre ad inglobare le “situazioni” della vita reale e la volontà al “détournement”, ovvero l'uso di queste in funzione rivoluzionaria rispetto alle condizioni dettate dalla società. La pragmatica europea ha quindi una radicale posizione politica lì dove nella pragmatica anglofono americana la volontà politica permane in un ruolo volutamente accessorio e non convalidato nella prassi interpretativa. Entrambe queste situazioni sono state poi superate intellettualisticamente dalla crisi dell'interpretazione attraverso le metodiche della processualità che determinano il confinamento della lettura alla sola esplicazione dei dati riflessivi, quando non esclusivamente descrittivi. Come conseguenza della pratica processuale che coinvolge sia le dinamiche comportamentali che quelle identitarie dell'opera, la critica accademica e il criticism, saranno poi materiale esplicito di quel fenomeno decostruttivo e fenomenologico che darà il via alla concezione postmoderna dell'autoanalisi. La critica postmoderna dell'autoanalisi sarà un evidente contrappasso alla rastremazione ideologica scaturita dalla scarnificazione dei linguaggi interpretativi e si produrrà in una rinnovata emersione concettuale in poiesis e all'opposto in una ritrovata energia della tecnica in funzione appropriativa nei neo-ismi (15). Diversamente da quanto può riassumersi nell'idea del postmoderno critico come luogo delle molteplicità interpretative esiste una chiave intermodale che caratterizza il periodo che va dall'apoteosi concettuale della fine anni '60 e si conclude sul crinale che separa il decennio '80 dai '90 del XX secolo; questo periodo, sebbene composto in una molteplicità di letture che vanno dal formalismo al sociologico manifesta una complessa tendenza all'introspezione autoanalitica scaturita dal rinnovato interesse verso la metafisica ragionata di Heidegger e gli sviluppi più estremi dell'introspezione lacaniana (16).
Visual Cultures
La nascita dell'impianto teorico delle Visual Cultures si deve intendere come processo dialettico conseguente alla complessa strutturazione dell'interpretazione svolta nei confronti dell'immagine. In particolare si può osservare la necessità di riunire il contesto immaginifico nell'ambito di un'unicità rappresentativa che la specificità grammaticale dei linguaggi artistici, frutto dell'iperspecializzazione conseguente agli studi riflessivi del criticism, aveva spezzato (17). Questi percorsi sfilacciati e confluiti nella critica autoanalitica degli anni postmoderni avevano disarticolato il senso operativo della critica, ridotta a un ruolo ancillare quando non addirittura “pubblicitario”. Nel dibattito critico estetico sulle identità e sulle distorsioni del postmoderno nasceva la necessità di privilegiare il rapporto linguistico, rappresentativo, rispetto a quello palesato durante gli anni della dispersione, con le sue rarefazioni letterarie, spesso venate di introversioni gratuite. La richiesta di un maggior raccordo analitico e unitario della teoria dell'arte per una valutazione del senso più profondo dell'indagine esplicativa assumeva i tratti di una obbligatoria direzionalità. Già alla fine degli anni Sessanta Rorty aveva introdotto i termini di un cambio sostanziale nell'indicare con Linguistic Turn (1967) l'aspetto linguistico e non esclusivamente descrittivo, compilativo o identitario dell'interpretazione, e che produrrà negli anni successivi il rinnovato interesse per gli studi iconici (18).
L'ampliamaneto del sistema interpretativo attraverso l'analitica implementa un modello di percezione visiva che valuta l'aspetto delle immagini, intendendo con questo termine non l'immagine in quanto apparenza ma quale coesistenza nel reale, attraverso una modulazione più ampia delle tecniche e dell'apparato esplicativo, affinando analisi e storicismo per verificare una ridefinizione della cultura visiva in un approccio vitalista. Questo modello di intervento interpretativo rispetto alle rappresentazioni verte nella sostanziale complessità di comprovate ricerche, l'analisi, l'antropologia, la storia dell'arte, la sociologia, la filosofia, i gender studies, le implicazioni decoloniali e l'estetica dei media. Si tratta quindi di una ontologia delle immagini mediata attraverso lo sguardo della critica ma al fine di situare analiticamente l'opera d'arte all'interno della prassi esistenziali del proprio tempo spiegandone contenuti, contorni ed effetti. Simili contributi si sviluppano in chiavi fortemente differenti, ciascuna con priorità dissonanti dalle altre, ma le modalità di affermazione risultano chiaramente integrabili nell'unico presupposto di rielaborare il concetto di critica su un tessuto di rilevanza culturale (19).
I riferimenti delle Visual Cultures non sono riassumibili in pochi cenni poiché risiedono in molteplici discipline ciascuna ampiamente vasta e corroborata da tradizioni scientifiche spesso estremamente dettagliate e approfondite. Ma gli effetti di questo processo di rielaborazione delle opere in quanto rappresentazioni complesse sono stati in primo luogo quelli di decostruire i percorsi della critica postmoderna con gli stessi sistemi praticati dal post-strutturalismo e successivamente di integrare il significato della rappresentazione artistica all'interno della rinnovata ricerca scientifica (20).
Nella scuola tedesca vanno ricordati i riferimenti all'iconologia attraverso gli studi provenienti dalla scuola di Warburg che proprio nei primi anni Novanta assume una nuova rilevanza poiché coincide con la richiesta di una necessaria riabilitazione dell'osservazione dopo la scarnificazione postmoderna. Nei suoi primi esiti, attraverso le opere di Boehm, Bredekamp, questo lascito warburghiano, in particolare attraverso la lettura di Panofsky, ha determinato un'ampia discussione sull'ermeneutica dei linguaggi segnici nella contrapposizione fra logos e eidos, fra parola e immagine, nella costatazione di una inconciliabilità effettiva fra ciò che si rappresenta e ciò che può identificarsi attraverso il linguaggio (21). Questa separazione apre ai successivi sviluppi sulla ricerca dell'origine svolta da Belting nell'Antropologia delle immagini (2001) testo che rinnova lo scetticismo verso la veridicità della storia dell'arte, definita vasariana, come di un processo ideale ma arbitrario (22). Separando la storia dell'arte dalla storia dell'immagine Belting decostruisce la separazione fra immagine mentale e immagine fisica smontando l'idea di un processo ideale di realizzazione formale che separi l'oggetto d'arte dalla vita delle forme. Si tratta di un modello interpretativo che scava nel profondo grazie all'avvenuta riedificazione dell'immagine in quanto effetto primordiale e non conseguente all'ipotesi dei linguaggi. Diversamente da quanto affermato da Belting si è mossa invece l'importante scuola di Chicago che vede nell'ipotesi dell'immagine l'aspetto costitutivo della rappresentazione focalizzando nel linguaggio e nella sua dialettica la sua disponibilità concettuale. Se i primi contributi della scuola di Chicago sono dovuti a Mitchell e Freedberg si deve però a James Elkins una delle più emblematiche ricerche sullo stato della critica d'arte contemporanea nel suo celebre testo What Happened to Art Criticism? (2004) e nel successivo The State of Art Criticism (2008) curato da Elkins e Newman, in cui si discute sul valore e in particolare sulle modalità in uso nella critica d'arte (23). Le domande poste da questi due testi sono fondamentali per la successiva produzione testuale nella critica d'arte. Una delle prime osservazioni che possiamo fare è che la Scuola di Chicago ha inizialmente proposto una particolare visione dei Visual Studies ma ha anche riabilitato il criticism sottraendolo al suo torpore. Ne ha indicato scopi e ragioni, ne ha discusso difetti ed errori, ma nel complesso sistema della rappresentazione ha rinnovato la possibilità di operare attraverso la letteratura artistica anche se la si intenda come una forma di metafisica. Non vanno peraltro dimenticate in Elkins e nel suo possibilismo dialettico, alcune relazioni fra le tematiche decostruttiviste e quelle pragmatiste attraverso le lezioni di Derrida e de Man tenute a Yale, ed è sintomatico l'impegno dell'autore per riabilitare il percorso “letterario” del criticism al quale attribuire quanto meno il merito d'autenticità etica. Nello scritto introduttivo a The State of Art Criticism Michael Schreyach descrive brevemente quella condizione in cui si è ritrovata la critica d'arte, che a suo dire sarebbe un ottimo strumento di elaborazione tematica se non fosse così fermamente convinta di essere al di fuori dei caratteri scientifici (24). Questa separazione fra scienze umanistiche e discipline scientifiche, secondo Elkins, non sarebbe il risultato esclusivo di una volontà scientifica ma il frutto di una alterità causata anche dall'uso sconsiderato del criticism all'interno dei media. Il fatto che la critica divulgativa sia stata condotta per anni senza alcun riferimento testuale, o con accenni banalizzati, soprattutto presso i quotidiani e le riviste non specialistiche, dove solo di rado esistono citazioni o appigli teorici dimostrabili, fa sì che il suo territorio sia stato osservato come puro giornalismo. Riabilitare quindi la critica sarebbe possibile operando uno scarto maggiormente scientifico anche all'interno delle testualità divulgative. Il tema centrale di Elkins si basa sul crescente peso teorico adottato dalle Visual Cultures e dal conseguente discredito causato da una falsa testimonianza di questo spessore teorico attraverso la divulgazione banalizzata e anche determinata dall'erronea impostazione attraverso social media e infoteinment. Nessuna rivista mediamente specializzata in una disciplina scientifica, sostiene Elkins, pubblicherebbe un articolo specialistico senza gli appropriati rimandi testimoniali, mentre nelle maggiori riviste dedicate all'arte contemporanea la scrittura è adoperata come una disinvolta pratica romanzata. Identificando in questo l'anello debole della trasmissione culturale si indica il luogo della dispersione semantica che rende incomprensibile l'arte contemporanea.
Unitamente alle indagini di antropologia sulle immagini e sulle relazioni fra il visuale e il testuale anche la ricerca specialistica sull'impatto dei nuovi media nel contesto dell'arte contemporanea ha incrociato il modello delle visual cultures. Non va dimenticato che è stato McLuhan ad iniziare alcune ricerche fondamentali sulle interazioni fra sociologia e massmedia, in particolare col suo testo Understanding Media (1964) in cui si precisano alcuni dettami eziologici rispetto al medium come messaggio e alla coesistenza di questo con la necessaria medialità del significato. Occorre anche segnalare quanto sia vicina la visione di McLuhan a quella dell'antropologia di Lévi-Strauss del quale si adotta l'idea del “cotto e crudo” traslandolo in “freddo e caldo”. Nelle declinazioni più attuali quali quelle tematizzate negli anni del crescente peso della New Media Art sono state fondamentali le letture di Derrick de Kerckhove il quale ha introdotto il tema del brainframe tecnologico, ovvero dello schermo, affiancandolo a quello originario già convalidato nella storia dell'alfabeto e della prospettiva, attraverso cui l'immersione nella rappresentazione costituisce il punto focale di una nuova conoscenza tecnologica. Contestualizzata dal segno di un hyperframe virtuale e con la facoltà di rimedializzare, come sostiene Bolter in Remediation: Understanding New Media (1999), la nuova realtà tecnologica e multimediale fornisce a Lévy, autore del fortunato testo Cybercultura (1997), di cogliere nelle culture visive dell'epoca post-internet un coefficiente di intelligenza collettiva, quale quella delle net-culture, che abita uno spazio deterritorializzato e immateriale in cui la soglia di divaricazione fra immagine individuale e collettiva si racchiude sempre più in un'unicità semantica, fondamentalmente utopistica. A ciò non sono estranee quelle letture anticipatorie svolte da Baudrillard e successivamente da Virilio in particolare con il testo L'arte dell'accecamento (2005) (25).
L'intermodalità critica del contemporaneo
Altro settore di ricerca ampiamente in uso nel contemporaneo è quello specificamente adottato per definire e coordinare i differenti saperi delle rappresentazioni nell'ambito di un generico campo della Visual cultures e delle pratiche interpretative. Ancora una volta si segnala una buona differenziazione fra le indagini proposte in ambito angloamericano e quelle più inerenti alla ricerca post formalista e fenomenologica europea.
Nella cultura angloamericana, in particolare con l'adesione tematica di importanti ricerche e pubblicazioni realizzate in coordinamento fra Inghilterra e USA si è profilato un atteggiamento che potremmo genericamente identificare con l'archivio delle grammatiche artistiche. Questo procedimento che ha la sua origine nell'atteggiamento prima analitico e poi pragmatico è confluito in una ricerca assiomatica sulle pratiche artistiche. L'indagine è delimitata da specifici contenitori tematici come contesti in cui poter far dialogare soggetti apparentemente differenti e tali da poter elaborare il contenuto frammentato del contemporaneo (26). Questi accessori interpretativi hanno due caratteristiche originarie: la prima, sono in massima parte realizzazioni dovute alla collaborazione di uno staff con coordinamento unico ma producono un modello interpretativo in base ad una tematica prescelta; la seconda, sono sincronici alle tecniche curatoriali e alle tematiche proposte, dato, questo, che a partire dai primi anni Novanta ha di fatto creato una disciplina interpretativa dal carattere esclusivo e genericamente etichettato con la dizione di “studi curatoriali”. Fra questi studi curatoriali, che poi negli anni Dieci e Venti del XXI secolo hanno prodotto innumerevoli circuiti didattici e molteplici percorsi specialistici, l'idea di archivio e di profilo identitario tematico costituisce il generico sistema di impostazione tecnico scientifico nella produzione di mostre sperimentali costruite alla stregua di convegni, ricerche, con il dovuto seguito di impianti testuali e documenti (27).
Le origini di questo impianto è naturalmente l'analitica a cui si deve il punto di vista grammatologico sulle fonti e identità del linguaggio artistico; in secondo grado abbiamo un'assunzione del pragmatismo che traduce il residuo di formalismo in nesso descrittivo ma traspone i suoi termini nella considerazione del fenomeno all'interno di una sezione identificabile dal fatto artistico, incasellandolo in una struttura documentale; questa congerie segnica classificata in ordine specifico non ha però il solo fine di giustificare la ricerca e la documentazione ma anche quello di procurare il materiale già selezionato per una successiva riedificazione nei termini più propriamente intermodali dell'interpretazione. L'area tematica è molto vasta e si sedimenta nei generici richiami a concetti estremi, come il “lavoro”, il “tempo”, le “pratiche”, ricondotti ad uno pseudostilema lasciato a decantare per una ulteriore revisione. La particolarità di questa ortodossia catalogativa consiste nell'aver riunito al suo interno una vasta complessità di discipline attraverso un metodo compilativo e a volte riassuntivo. Il senso di questa grammatica del contemporaneo succede e si contrappone a quella funzione specialistica che negli anni precedenti si era interessata del fotografico del filmico e delle forme della comunicazione visiva attraverso lo sguardo unidirezionale; questo schema si concretizzava successivamente in interesse specifico verso gli happenings, le forme primarie, le rappresentazioni pop, le appropriazioni, le citazioni postmoderne, riassumendole e attualizzandole al di fuori del loro campo e provocandone una visione estranea al contesto (28).
Diversamente da questa attitudine dedita alla classificazione delle formatività in chiave organica le tendenze interpretative della globalizzazione vertono sulle dinamiche evolutive; rielaborando le pratiche artistiche nella visione di una trasmigrazione concettuale attraverso forme e azioni, dal visibile all'invisibile, dalla materialità all'immaterialità, dal singolo oggetto alla polifonia semantica, dal singolo significato, confinato nell'ambito della stessa disciplina, all'ampia vulnerabilità dei valori occasionali messi in scena. Tutto ciò attraverso le molteplici visioni di un mondo velocemente trapassato in un luogo astrattamente ulteriore spesso indecifrabile. Chiaramente questa complessità non è esclusivo campo d'azione di un ambito regionale ma assume le connotazioni internazionali derivate dall'avvenuta e non necessariamente permanente globalizzazione e le conseguenti specifiche portate al cospetto delocalizzato. Ancora una volta si segnala lo stretto legame fra le rinnovate questioni di una grammatica catalogativa relativa alle tematiche affrontate dalle grandi esposizioni artistiche come le biennali sorte un po' ovunque. Nei primi anni venti di questo secolo sono state queste esposizioni a fornire le maggiori sollecitazioni interpretative; spesso anche sperimentandone i significati proiettati in un mondo complicato dalle relative storie locali, dalle differenze di genere, dalle tensioni fra natura e cultura, dagli effetti del postcolonialismo.
Risulta evidente il legame fra l'evento espositivo e le formulazioni intepretative. Affrontando la questione in termini storico critici possiamo infatti osservare che l'identità delle grandi mostre dalla nascita della Biennale di Venezia e fino a tutti gli anni '80 è stata quella di profilare un aspetto stilistico evidenziando la separazione di un singolo carattere dal contesto generico. Le grandi mostre internazionali hanno mantenuto questo profilo fino agli anni postmoderni quando l'idea interpretativa della cura critica ha trasformato la messa in scena in forma di argomento composto attraverso le opere. Questo aspetto che ha sostenuto l'ipotesi di un campo di ricerca quale quello degli "studi curatoriali" si afferma alla fine degli anni Ottanta con le mostre come modello interpretativo del contesto relativo. Possiamo accennare al fatto che l'ultima delle grandi mostre stilistiche avviene con la proposta di Les Immateriaux del 1985 cui faranno seguito eventi molto discordanti da quel modello: Chambre d'Amis del 1986, China/Avantgarde del 1989, segnano il passaggio da quel sistema che proponeva una separazione stilistica ad un altro che sottolineava la simmetria discordante delle differenti pratiche artistiche, modello che poi, attraverso l'esperienza di Magiciens de la terre del 1989, diventerà lo standard compilativo di questo nuovo modello curatoriale (29).
La critica delle pratiche artistiche
Nei primi decenni di questo secolo un termine è stato assunto per definire la mole di lavoro messo in atto dagli artisti contemporanei; la pratica. Con questo termine si cerca di riassumere in un unico contesto i vari riferimenti che nelle azioni artistiche coinvolgono arte, politica, scienze. D'altra parte l'uso di questo termine ha attualizzato la sua ipotesi di professionalizzazione come di una prassi che rendendosi statuto di un'azione lavorativa ha determinato la sua caduta nell'orbita del mestiere. Di contro questo mestiere non può essere ratificato nello schematismo che potrebbe per esempio riassumere il lavoro di un medico o di un avvocato. La pratica e le pratiche artistiche in qualche misura contraddicono quelle di un professionista dal momento che non si possono riconfigurare come modello di procedura sottoposta ad un'analisi attraverso le sue coesistenze specifiche. Riunire l'idea delle pratiche artistiche all'interno di un contenitore professionale conduce inevitabilmente alla generica nozione di attività, di un fare, di un porre in essere qualcosa che ha un significato non riconducibile esattamente al contenuto di una specifica storia dell'arte. Nelle pratiche artistiche contemporanee si mettono in scena contenuti fortemente differenziati che riflettono sui cambiamenti della società, sugli squilibri prodotti dallo scontro-incontro di culture differenti, sull'impatto delle nuove tecnologie ma non sembra possibile razionalizzare il comportamento dell'artista in un sistema ordinato di segni. Le pratiche artistiche contemporanee prendono infatti forme altamente diverse, spesso coincidenti nelle intenzioni ma non nell'aspetto. Usualmente queste forme d'azione artistica prendono forme divergenti dall'oggetto concreto e assumono istanze simili a convegni, azioni socio-politiche, rituali psicoanalitici, forme terapeutiche, progetti bio-ingegneristici o sedute sperimentali per la didattica. Si potrebbe argomentare che la "pratica artistica" non sia una novità considerando il fatto che l'attività dell'artista moderno all'interno del suo studio non fosse nient'altro che una prassi specifica, anche se omologata, standardizzata. La procedura creativa si è però fortemente ampliata dalle avanguardie in poi e già dalla metà del secolo scorso sono state molte le indicazioni di come anche il lavoro fisso all'interno dello studio fosse ormai in fase di superamento. Erano pratiche artistiche differenti quelle di Fluxus e del Situazionismo e saranno pratiche in via di ulteriore contesto quelle attuate negli anni Sessanta e Settanta, lì dove i segnali della fine della storia e la mancanza di un futuro teorizzabile determinavano il predominio dell'azione al presente, quindi della prassi in sé rispetto alla formatività. La resistenza di queste tensioni attive anche durante gli anni del relativismo postmoderno, che è una sorta di restaurazione attraverso la coercizione della storia al suo interno, sono di fatto reali. Da questo punto di vista il postmodernismo è stato un ricorrere nostalgico alla storia di cui si era smarrito il vero senso procedurale, evolutivo; riassumendo le tecniche del passato l'artista ridimensionava al presente il suo sgomento al cospetto di una storia che sembrava conclusa, nella convinzione che tutto poteva essere rielaborato al presente; tutto ciò con una connotazione di cinica antinomia rispetto alla modalità di una storia verticale riposizionandosi in una orizzontalità dove tutto poteva essere fatto attraverso i frammenti del passato.
In questa confusa inflazione di segni la questione dell'identità sociale dell'artista che rinnova il suo ruolo attraverso le pratiche sembra delinearsi in alcuni interventi dell'Institutional critique, come in Adrian Piper quando "dice" di essere un artista; sebbene questo possa essere similmente assimilabile al dominio semantico di chi dica di essere un architetto, un cuoco o un biologo, la delimitazione dell'azione del suo "essere artista" non è riconducibile ad una categoria di prodotti o di attività, ma piuttosto a proporre un'attività di partecipazione compulsiva all'interno della società al fine di convalidare l'azione prodotta (30). Riflessione molto simile a quella di Althusser quando sostiene che la pratica sia atta a designare un processo sociale che metta in contatto un fruitore con la realtà al fine di produrre un risultato (31). Le pratiche artistiche sarebbero quindi come dice Agamben la traduzione della poiesis in prassi, idea non dissimile da quanto suggerito da Derrida nel suo Teoria e prassi, e nella pratica artistica è la prassi a farsi estetica, lì dove nella cultura storico critica è la materia derivata da questa prassi ad essere osservata come tale (32). La contrazione dei termini è così esemplificata. Se dalla teoria non possiamo separare la prassi e per far coincidere teoria con prassi assumiamo il lavoro fattuale dell'artista nell'orbita del suo agire, la sua esperienza non è più esistenziale ma processualità volta verso l'alterità. Il concetto di pratica d'artista è identificabile allora con l'idea di “attività che si pone di fronte alla realtà e modifica la fruizione”; lo stesso era nelle intenzioni del Situazionismo attraverso l'adesione al modello delle situazioni esistenziali poi tradotte nel più specifico senso dell'azione nel détournement, o altrimenti nell'alienazione volontariamente vissuta dal soggetto per poter liberare il senso di costrizione, o creare spazi di sovversione dal quotidiano.
In definitiva le pratiche artistiche hanno determinato un modello di relazione interpretativa che possiamo definire tangente alle stesse; una pratica artistica propone lo sguardo decostruttivo, poiché separa un'attitudine temporanea del tutto uguale ad una normale attività ma la sottrae al suo contesto e la sottopone ad una analisi formale. Non può meravigliare il fatto che l'incipit di una relazione critica su pratiche artistiche "aliene" alla storia dell'arte parta dal fatto compiuto, descrittivo, per accedere poi all'esercizio intermodale, ovvero quello di ricodificare quella "sottrazione" dalla norma per ricomprenderne il reale significato, poiché spesso falsificato e osmotizzato nel divenire del nostro presente.
Ottobre 2024
1) Peter Bürger,"L'avanguardia come autocritica dell'arte nella società borghese" in Teoria dell'avanguardia, trad. It. Bollati Boringhieri, Torino, 1990 (ed. or. 1974, Frankfurt am Main), pp. 26-42.
2) Ibid; non a caso Bürger affronta questa tematica nel capitolo "Teoria dell'avanguardia e teoria critica della letteratura".
3) Rachel Haidu, The Absence of Work. Marcel Broodthaers, 1964-1976, October Book/MIT Mass/London GB, 2010. Il testo tratta espliticamente il rapporto fra Broodthaers e il contesto espositivo e indica anche il legame fra B. e Mallarmé. Su Haacke; Stefano Taccone, Hans Haacke, Il contesto politico come materiale, Plectica, Salerno, 2010.
4) Edmund Husserl,"Il contenuto fenomenologico ed ideale dei vissuti di significato" in Ricerche logiche, trad. it. Il Saggiatore, Milano 2005, V.I, IV p. 365-372 (Logische Untersuchungen 1900).
5) In particolar modo questo tratto risulta nelle opere di Adrian Piper. Christophe Cherix, Cornelia Butler; David Platzker; (editors); Adrian Piper: A Synthesis of Intuititions 1965-2016, Cat. MoMa, New York, 2018.
6) George Didi-Huberman; L'immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria die fantasmi e la storia dell'arte, trad. It. Bollati Boringhieri, Torino, 2006 , pp. 13-27 (ed. or. L'image survivante, Edition de Minuit, Paris, 2002).
7) Johann Joachim Winckelmann, Storia dell'arte nell'antichità, Abscondita, Milano, 2007 (ed. or. Gerschichte der Kunst des Altertums, 1764).
8) G. Didi-Huberman, op.cit.; p.51, 69, 87, 133, 208, 253, 334, 381, 398.
9) John Ransom; The New Criticism. New York: New Directions, 1941.
10) Richard Shusterman; Estetica pragmatista, trad. It. Aesthetica, Palermo, 2010 (ed. or. Rowman & Littlefield Publishers, Inc. Lanham, Maryland, 2000).
11) Clement Greenberg; "Avanguardia e Kitsch" in L'avventura del modernismo, trad. it. Johan & Levi, Truccuzzano (MI), 2011 (ed. or. Avant-garde and kitsch, 1939).
12) Harold Rosenberg; La tradizione del nuovo, trad, it. Feltrinelli, Milano 1964 (ed. or. The Tradition of the New, Horizon Press Inc. New York 1959).
13) Il criticism americano ha influito sulle modalità di attuazione della critica contemporanea in parte per il prestigio delle loro università in cui la scrittura critica veniva studiata nelle due modalità di logica pragmatica e formalismo intermodale; ma ha anche limitato il campo della sperimentazione per via dell'impostazione accademica votata al formalismo.
14) H. Rosenberg, op. cit. Id; L'oggetto ansioso, trad. it. Bompiani, Milano, 1967 (ed. or. The Anxious Object, 1964).
15) Il riduzionismo analitico dell'arte concettuale ha posto le basi per un rinnovamento linguistico della critica, da una parte verso l'identificazione della poiesis, luogo ideale di un'estetica fondata sulla base classica, e sulla operatività esclusivamente esperibile. Cfr. Ermanno Migliorini, Conceptual Art, Fiorino, Firenze, II ed. 1979 (1971). Lucy Lippard, Changing – Essays in art criticism, Foreword by Gregory Battock, Dutton, New York, 1971.
16) Il testo di Martin Heidegger, Sentieri Interrotti, ed. it. La Nuova Italia, Firenze, 1968 (ed. or. Klostermann, Frankfurt am Main, 1950,) è fra i più rappresentativi di questa tendenza. Julia Kristeva, Sole nero: depressione e malinconia, Milano, Feltrinelli 1988 (ed. or. Soleil noir. Dépression et mélancolie, Gallimard, Paris, 1987) può essere considerato come luogo terminale di questo percorso introspettivo usato nel sistema interpretativo di quegli anni.
17) Michele Cometa, Cultura visuale, Raffello Cortina, Milano, 2020.
18) Richard Rorty, The Linguistic turn: essays in philosophical method, University of Chicago Press, 1967.
19) Nicholas Mirzoeff, An Introduction to Visual Culture, Routledge, London, 1999.
20) James Elkins, The Domain of Images, Cornell University Press, 2001. Id.,Visual Studies. A Sceptical Introduction, Routledge, New York and London, 2003.
21) Gottfried Boehm, La svolta iconica, Meltemi, Sesto San Giovanni MI, 2009. Id., The Passion of Images, Walther Konig, Koln, 2021. Horst Bredekamp, Image Acts: A Systematic Approach to Visual Agency, De Gruyter, Berlin, 2017.
22) Hans Belting, Antropologia delle immagini, trad. It. Carocci, Roma, 2011 (ed. or. Bild-Anthropologie. Entwürfe für eine Bildwissenschaft, Brill/Fink, München, 2001).
23) James Eltkin, What Happened to Art Criticism, Prickly Paradigm Press, Chicago, 2003. J.Elkins e Michael Newman, (editors), The State of Art Criticism, Routledge, New York, London, 2008. Il senso di fine della disciplina critica è argomento di riflessione anche di autori specializzati nella diffusione interpretativa. Cfr. Patricia Bickers, The Ends of Art Criticism, Lund Humphries, London, 2021.
24) Michael Schreyach, The recovery of Criticism, in J.Eltkins, M. Newman, (editors), cit. p. 3-25.
25) Jay David Bolter, Richard Grusin, Remediation. Understanding New Media, MIT Press, Mass, 2000. Pierre Lévy, Cyberculture, ed. it. Feltrinelli, Milano 1998 (ed. or. Cyberculture, Odile Jacob, Paris, 1997); Paul Virilio, L’arte dell’accecamento, ed. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007 (ed. or. L'art a pèrte de vue, Galilée, Paris, 2005).
26) Un esempio eclatante è la serie Documents of Contemporary Art edita dalla Withechapel Gallery di Londra. L'idea è particolarmente interessante, tuttavia negli esiti ricorda le Selezioni del Reader's Digest.
27) Il tema del superamento del limite infatti è stato affrontato in Jean de Loisy, Hors limites. L'art et la vie, 1952-1994, cat. mostra Centre Pompidou, Parigi, 1994-1995, ed è divenuto un argomento centrale e non eludibile nella critica dagli anni Novanta in poi.
28) Bruce Altshuler, Salon to Biennial – Exhibitions That Made Art History, Volume I, 1863 -1959, Phaidon Press, London, 2008. Come si evidenzia nel volume tutte le mostre realizzate fino al 1960 sono state pensate su un unico generico modello stilistico.
29) Id., Biennial and Beyond – Exhibition That Made Art History, 1962 – 2002, Phaidon Press, London, 2013.
30) Adrian Piper, "To Art" in The Fox n. 1, Art & Language Foundation, New York, 1975, p. 60-65. Tutto il numero della rivista è incentrato sul rapporto fra le pratiche artistiche e la teoria interpretativa.
31) Louis Althusser, Sull'ideologia, Dedalo Libri, Bari, 1976, p. 48 (ed. or. Ideologie et appareils ideologiques d'Etat, La Pensée, no 151, 1970, Id., Positions, Éditions sociales, Paris 1976).
32) Jacques Derrida, Teoria e prassi, Corso dell'Ecole Normale Supérieure 1975-1976, trad. it. Jaca Book, Milano, 2018, (ed. or. Galilée, Paris, 2017).